(AGENPARL) - Roma, 28 Dicembre 2025Il nesso tra diritti umani e pace si lascia cogliere in tutta la sua profondità soltanto se viene ricondotto al principio sorgivo della dignità della persona, intesa come realtà ontologica e contemporaneamente come compito storico-sociale. Lungi dall’essere una formula retorica, la dignità rappresenta il criterio ultimo di giudizio delle istituzioni, delle politiche e delle relazioni internazionali: essa esprime il valore incondizionato di ogni essere umano, prima di ogni appartenenza etnica, religiosa, culturale o politica, ed esige che tale valore sia riconosciuto, promosso e difeso in ogni circostanza. Come autorevolmente affermato nella dichiarazione Pontificia Dignitas Infinita, si può parlare di una “dignità infinita” della persona non in senso quantitativo, ma per indicare una realtà assolutamente inalienabile, che non ammette eccezioni né sospensioni, e che non può essere subordinata a calcoli di convenienza o di potere.
Questa dignità possiede innanzitutto una portata ontologica. Ogni persona, in quanto essente di natura razionale, gode di una consistenza metafisica che la sottrae a ogni riduzione a mero mezzo o oggetto di scambio: è logos vivente, capace di verità e di amore, aperta alla relazione con l’Altro e con gli altri, destinataria di un diritto originario che la precede e la fonda. Tale dimensione ontologica non rimane però confinata a un ambito astratto: proprio perché la dignità è inscritta nell’essere, essa domanda di tradursi in forme storiche di tutela, di promozione e di partecipazione. Da questa esigenza scaturisce la dimensione sociale della dignità, che richiede istituzioni giuste, norme rispettose dei diritti fondamentali, politiche pubbliche orientate al bene comune e un ordine internazionale che riconosca in ogni popolo e in ogni persona un soggetto di diritti e responsabilità. È in questo orizzonte che la riflessione contemporanea situa le condizioni per un diritto internazionale panumano, radicato nella dignità condivisa e generativo di un ethos globale. In tale proscenio si comprende la centralità dell’uguaglianza sostanziale. Non basta proclamare un’uguaglianza formale, limitata all’enunciazione astratta dei diritti: occorre rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione effettiva alla vita politica, economica e culturale.
L’uguaglianza sostanziale, così intesa, diventa criterio critico nei confronti di ogni sistema e chiave ermeneutica ontico-ontologica: essa rivela l’insufficienza delle mere dichiarazioni di principio quando esse non trovano compimento nella realtà vivente. Le diseguaglianze strutturali, le nuove forme di povertà, i fenomeni di marginalizzazione e di scarto sociale rendono evidente la denuncia di quei “diritti umani non sufficientemente universali”, positivizzati nei testi giuridici ma negati nei fatti, mentre intere popolazioni vedono disconosciuta o calpestata la propria dignità. La solidarietà politica, economica e sociale rappresenta il contrappunto necessario a questo quadro. Essa non è un semplice atteggiamento filantropico, ma un dovere inderogabile — come afferma l’art. 2 della Costituzione italiana — radicato nella comune appartenenza alla famiglia umana e nella corresponsabilità nei confronti del bene comune. In ambito interno, la solidarietà si traduce in politiche redistributive, sistemi di protezione sociale, accesso alla salute, all’istruzione, al lavoro dignitoso. Sul piano internazionale, essa esige un ordine economico più giusto, una regolazione dei mercati che non sacrifichi intere regioni del mondo alla logica del profitto, un uso responsabile delle risorse naturali e tecnologiche. Quando una parte dell’umanità vive nell’opulenza mentre un’altra è privata dei diritti fondamentali, si incrina la credibilità del linguaggio dei diritti e si genera un terreno fertile per conflitti, migrazioni forzate, risentimenti e radicalizzazioni violente. La riflessione, allora, si approfondisce nel rapporto tra ricchezza e povertà. L'”altissima povertà” al centro dell’esperienza di Francesco d’Assisi offre qui una chiave di lettura profonda: essa invita a comprendere il potere come servizio e non come dominio, a convertire la forza in cura, la cittadinanza in fraternità, la leadership in responsabilità. In tale prospettiva, la pace non può essere ridotta a semplice assenza di guerra, né affidata a fragili meccanismi di deterrenza. La pace è servizio al bene comune, è attività sostanziale di accompagnamento dei popoli, è diplomazia delle culture, è cura armonica delle relazioni sociali: una sinfonia delle diversità che presuppone il riconoscimento effettivo della dignità di ogni persona e di ogni popolo, l’attuazione dell’uguaglianza sostanziale e l’esercizio concreto della solidarietà. Un ordine internazionale autenticamente orientato alla cura della nostra Casa Comune, dell’Oikos, è dunque un ordine fondato su una dignità cosmica: un ordine che tutela l’ecologia integrale, i diritti dei viventi e i diritti fondamentali della famiglia umana; che promuove la coscienza critica dei popoli, la partecipazione alla polis, la libertà religiosa e di coscienza;
che sostiene i più vulnerabili e riconosce i popoli non come comparse dello scenario globale, ma come soggetti portatori di cultura, memoria e speranza. È in questa prospettiva che la diplomazia delle culture, nel solco del multilateralismo, si impegna da decenni a contrastare la logica della guerra come strumento di risoluzione delle controversie e a promuovere la libertà religiosa come fondamento di tutti i diritti umani. Il Documento sulla Fratellanza Umana (Abu Dhabi, 2019) rappresenta, in tale direzione, una sintesi paradigmatica. In esso la dignità è riconosciuta come principio generativo: l’armonia del creato, dove tutti gli esseri umani sono “uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità”, esorta a convivere come fratelli, valorizzando le diversità — ricchezze e non ostacoli — e diffondendo i valori del bene, della carità e della pace. Ma il documento non si limita a una dichiarazione teorica: offre una vera grammatica operativa dal basso, articolata nella cultura del dialogo come via, nella collaborazione comune come condotta, nella conoscenza reciproca come metodo e criterio.
La cultura del dialogo, intesa come via, non si esaurisce in una pratica procedurale: esprime una scelta antropologica e politica. Dialogare significa riconoscere nell’altro non un avversario da neutralizzare, ma un interlocutore portatore di verità, esperienza e dignità. In ambito internazionale, ciò si traduce nella scelta della negoziazione, della ricerca paziente di soluzioni condivise, del rafforzamento delle istituzioni multilaterali come luoghi di composizione dei conflitti. Dove il dialogo è sostituito dal linguaggio della minaccia o della propaganda, la pace si inaridisce e il diritto internazionale viene svuotato dall’interno. La collaborazione comune, assunta come condotta, invita a superare le sole dichiarazioni di principio per entrare nella logica dei processi condivisi: camminare insieme nella co-costruzione della nostra cosa comune, nella consapevolezza che nessuno si salva da solo e che nessuno Stato è autosufficiente di fronte alle sfide globali. In ambiti cruciali — crisi climatica, migrazioni, pandemie, trasformazioni tecnologiche — la solidarietà non è un’aggiunta etica opzionale, ma la condizione stessa di possibilità per soluzioni efficaci e giuste. In questa luce, la diplomazia delle culture può trasformarsi in intelligenza integrale, capace di connettere la tutela dei più deboli con la sicurezza collettiva e la giustizia sociale con la stabilità internazionale.
La conoscenza reciproca, proposta come metodo e criterio, risponde alla tentazione della polarizzazione: conoscere l’altro significa accogliere la complessità delle sue ragioni, rinunciare alla caricatura dell’avversario, riconoscere la dignità plurale delle identità. È su questa via che l’incontro tra tradizioni religiose e culturali diverse diventa fattore di pace e non di conflitto, restituendo alla sfera religiosa la sua vocazione originaria alla fraternità, alla cura dei poveri, alla tutela del creato. In questo orizzonte si colloca il nesso tra diritti umani, pace ed ecologia integrale. Non può esservi autentica ecologia senza una rinnovata antropologia: l’uomo non è padrone assoluto della natura, ma custode solidale della casa comune. La “crisi ecologica” è anzitutto crisi dell’uomo, che si percepisce come proprietario del mondo e trasforma tutto in oggetto di consumo. Se la terra — la nostra casa comune — è oppressa, è perché vi è una ferita nelle relazioni: nelle coscienze, tra le persone, tra l’umanità e il creato. San Francesco d’Assisi, con l’umiltà come via, mostra che la cura della natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno sociale e la pace vivente sono dimensioni inseparabili di un unico umanesimo integrale. Per questo il discorso sui diritti umani e sulla pace deve essere ripensato in chiave ecologica e, allo stesso tempo, l’ecologia deve essere interpretata in chiave cosmica: tra l’io, il noi e l’infinito. La tutela dell’ambiente è inseparabile dalla tutela della vita umana, dal concepimento alla morte naturale; la lotta al cambiamento climatico deve accompagnarsi alla lotta alla povertà; la difesa delle culture indigene si intreccia con la salvaguardia della biodiversità e con la responsabilità intergenerazionale. La casa comune richiede un progetto condiviso che unisca la famiglia umana in uno sviluppo sostenibile e integrale, capace di coniugare progresso scientifico e progresso morale, in linea con il principio costituzionale del pieno sviluppo della persona (art. 3, c. 2). In tale prospettiva, la dignità ontologica si traduce in un ethos planetario della responsabilità: ciascuno è chiamato a riconoscere il proprio contributo alla ferita del mondo e a trasformarlo in impegno generativo per la famiglia umana. L’uguaglianza sostanziale diventa criterio di valutazione delle politiche economiche, sociali e ambientali: chi paga il prezzo della crisi ecologica? chi trae beneficio dallo sfruttamento delle risorse? chi è escluso dai processi decisionali? Il dovere di solidarietà assume così una dimensione globale, invitando le nazioni più ricche a sostenere quelle vulnerabili non solo attraverso l’aiuto, ma soprattutto mediante un patto educativo globale capace di formare coscienze critiche, vero antidoto a ogni forma di eterodirezione.
Alla luce di questi elementi, il tema dei diritti umani e della pace appare come un grande orizzonte di senso, nel quale l’umanità è chiamata a riscoprire la propria vocazione alla fraternità, nella logica del “noi cosmico”. La dignità ontologica e sociale di ogni persona, l’uguaglianza sostanziale come rimozione degli ostacoli che soffocano la libertà, il dovere di solidarietà, la costruzione di relazioni internazionali fondate sul primato della famiglia umana e sulla cura della casa comune, la cultura del dialogo, la collaborazione e la conoscenza reciproca: tutti questi elementi, armonicamente connessi, delineano un’idea di pace positiva, creativa, inclusiva. Si tratta, in ultima analisi, di passare da una geopolitica degli interessi a una geopolitica del diritto sussistente, capace di riconoscere in ogni volto una storia, un diritto, una promessa. Le persone di ogni parte del mondo sono la vera essenza del diritto. In questo cammino il contributo del pensiero giuridico, della teologia, della diplomazia e delle scienze sociali è imprescindibile: essi offrono strumenti concettuali e istituzionali per rendere effettivo il primato della persona e per evitare che alcuno sia lasciato ai margini della storia. Così, la parola pace non è più un’evocazione fragile, ma diviene il nome concreto di una civiltà della dignità e della fraternità, nella quale la famiglia umana, riconciliata con se stessa e con il creato, possa abitare la terra come casa ospitale per tutti.
Paolo Cancelli, Ministro Integrazione Culturale Nazionale e Internazionale MI