Il Jobs Act di Matteo Renzi non è stato altro che una cornice legislativa per una serie di decreti che hanno ridisegnato radicalmente il mercato del lavoro in Italia. Non si è trattato di un intervento marginale, ma di una riforma che ha introdotto nuove forme contrattuali e ha ridefinito il concetto stesso di lavoro subordinato.
Di fronte a questo cambiamento epocale, ci si chiede: come ha reagito il sindacato, in particolare la CGIL? La risposta è tanto semplice quanto impietosa: non ha reagito. O meglio, ha continuato a riproporre modelli operativi che appartengono ormai a un’altra epoca, promuovendo scioperi generali più per ragioni politiche che per una reale comprensione delle dinamiche in atto.
Mentre il lavoro subordinato perde la sua centralità come percorso principale per una carriera dignitosa e soddisfacente, il sindacato rimane aggrappato a modelli fordisti, incapace di cogliere le nuove opportunità offerte dalle forme di lavoro autonomo e indipendente che ormai stanno crescendo da decenni.
È interessante notare che questa spinta verso una maggiore flessibilità contrattuale non è stata promossa dalla destra, ma dal Partito Democratico, con il governo Renzi a guidare il cambiamento. Una riforma che, senza esagerazioni, può essere definita rivoluzionaria per il mercato del lavoro italiano.
Eppure, il sindacato, in particolare la CGIL, non ha saputo aggiornarsi. Non ha formato i propri rappresentanti sulle nuove dinamiche che stanno trasformando il mondo del lavoro. È rimasto prigioniero di un modello di lotta sindacale vecchio, conservatore, che guarda al passato invece che al futuro.
Se esiste oggi una forza conservatrice in Italia, essa è proprio la CGIL. Conservatrice non perché difende i diritti dei lavoratori – cosa che dovrebbe fare – ma per il metodo con cui li difende: con strumenti, linguaggi e modalità di lotta che sembrano usciti dagli anni Sessanta del secolo scorso.
Nel frattempo, il mercato del lavoro evolve. Le nuove generazioni cercano forme di impiego più flessibili, aspirano a una maggiore autonomia professionale e non riconoscono più nel vecchio sindacato un punto di riferimento.
Non è nostro compito suggerire quali dovrebbero essere i nuovi ambiti di interesse del sindacato, ma è evidente che il modello fordista, basato su contratti standardizzati e relazioni industriali rigide, non è più in linea con le esigenze dei lavoratori di oggi.
Il sindacato dovrebbe essere una guida, un interlocutore capace di accompagnare il cambiamento, non di resistergli. E invece, sembra vivere di nostalgie, incapace di offrire risposte concrete a chi, oggi, vive il mondo del lavoro non più come una catena di montaggio, ma come un mosaico di opportunità, sfide e percorsi individuali.
Se il sindacato non cambia, sarà il cambiamento stesso a travolgerlo. E con esso, verranno travolti anche quei lavoratori che ancora oggi si affidano a una rappresentanza incapace di guardare avanti. Perché il futuro non aspetta, e chi rimane fermo è destinato a essere lasciato indietro.