
(AGENPARL) – Fri 18 July 2025 https://www.aduc.it/articolo/boiling+point+1929_39533.php
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Boiling point: 1929
Questa rubrica nasce con un duplice intento: da un lato, raccontare alcuni tra gli eventi più emblematici della storia della finanza; dall’altro, provare — ove possibile — a trarne lezioni utili per chi investe oggi.
Iniziamo con un episodio che dovrebbe suonare familiare a ogni investitore consapevole: la Crisi del 1929.
Il crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929 segnò la fine improvvisa dei cosiddetti “ruggenti anni Venti” e aprì le porte alla più grave crisi economica del Novecento: la Grande Depressione. In pochi giorni, l’euforia speculativa che aveva gonfiato a dismisura i corsi azionari lasciò spazio al panico collettivo e a un crollo sistemico dei mercati finanziari.
Questo articolo propone un’analisi tecnica ma accessibile delle cause e delle dinamiche della crisi:
– il contesto economico e sociale dell’epoca,
– la formazione della bolla speculativa, alimentata da leva finanziaria e credito facile,
– la cronologia del crollo (dal Giovedì Nero al Martedì Nero),
– le ripercussioni macroeconomiche, sia immediate che di lungo periodo.
Infine, evidenzieremo alcuni meccanismi ricorrenti che accomunano il crash del 1929 ad altre bolle speculative più recenti: l’euforia irrazionale, l’eccessivo indebitamento, la sottovalutazione sistematica del rischio.
1. L’euforia dei “Ruggenti Anni Venti”: le fondamenta della bolla
Per comprendere davvero la portata del crollo del 1929, bisogna partire dall’altezza da cui si precipitò. Gli anni Venti — i celebri Roaring Twenties — furono un decennio di espansione economica travolgente, innovazione tecnologica e ottimismo diffuso, ai limiti dell’euforia collettiva.
Gli Stati Uniti, usciti dalla Prima Guerra Mondiale rafforzati e indenni sul piano territoriale, emersero come prima potenza economica mondiale, in netto contrasto con un’Europa stremata.
Già nel 1920, gli USA erano creditori netti a livello globale, detenevano circa metà delle riserve auree mondiali e vantavano un sistema bancario in crescita. Il dollaro, sostenuto dall’oro e dalla fiducia nei mercati americani, si affermava come valuta di riferimento internazionale. Il progresso sembrava inarrestabile.
La rivoluzione industriale incontra il consumo di massa
Il primato americano non fu solo finanziario, ma anche tecnologico e produttivo. Tra il 1922 e il 1928, la produzione industriale aumentò del 64%, grazie all’adozione sistematica del Taylorismo e del Fordismo, che trasformarono la fabbrica in una macchina altamente efficiente. Questa rivoluzione abbatté i costi dei beni durevoli, rendendoli accessibili a fasce sempre più ampie della popolazione urbana. A fine decennio, circolava un’auto ogni cinque abitanti, oltre il 60% della popolazione aveva accesso all’elettricità e metà delle famiglie possedeva elettrodomestici.
Il simbolo per eccellenza fu la radio: da 400.000 apparecchi nel 1922 a oltre 8 milioni nel 1928, divenne il veicolo principale di pubblicità e cultura di massa.
L’esplosione dei consumi poggiava su tre pilastri: una moderata crescita salariale, il marketing aggressivo e, soprattutto, i pagamenti rateali. Questo innovativo sistema di credito — antesignano del “buy now, pay later” — permise a milioni di famiglie di accedere a beni altrimenti inaccessibili, alimentando una crescita drogata dal debito. “Vivere al di sopra dei propri mezzi” divenne la norma, sostenuta da un’illusione collettiva di prosperità permanente.
Il clima politico e sociale: luce in superficie, crepe nel profondo
Il decennio che precedette il crollo fu caratterizzato da un clima politico favorevole all’iniziativa privata e alla deregolamentazione. Alla Casa Bianca si succedettero tre presidenti repubblicani — Harding, Coolidge e Hoover — tutti sostenitori di politiche laissez-faire: tagli fiscali ai più ricchi, riduzione dell’intervento statale e pieno appoggio alle grandi imprese, nella convinzione che la prosperità avrebbe “sgocciolato” verso il basso.
Sul piano internazionale, gli Stati Uniti adottarono un marcato isolazionismo: si ritirarono dagli affari globali e si concentrarono sulla crescita interna, convinti della propria autosufficienza. Questo contribuì a creare un’illusione di invulnerabilità economica, disconnessa dalle tensioni in Europa.
Un decennio in technicolor
Socialmente, gli anni Venti furono un’esplosione di modernità. Il jazz, il proibizionismo aggirato nei speakeasy, Hollywood, il cinema sonoro e la pubblicità radiofonica trasformarono la cultura urbana in un inno alla libertà e al consumo.
Dopo gli anni della guerra, l’America sembrava vivere il sogno moderno a pieni polmoni.
Le crepe sotto la superficie dorata
Ma dietro la patina dorata si nascondevano squilibri profondi. Il settore agricolo era in crisi: crollo della domanda europea, sovrapproduzione interna, prezzi in picchiata e indebitamento crescente colpirono milioni di agricoltori. Mentre le città prosperavano, il mondo rurale affondava.
Anche la disuguaglianza era estrema: nel 1929, il 5% della popolazione deteneva un terzo del reddito nazionale. La crescita economica era drogata dal credito facile, non sostenuta da salari adeguati. Quando la domanda iniziò a rallentare, il mercato azionario continuò a salire — spinto da aspettative irrazionali e leva finanziaria crescente. La disconnessione tra economia reale e mercati diventava ogni giorno più evidente.
L’isolazionismo e l’autocompiacimento impedirono di cogliere i segnali globali: debiti di guerra, instabilità monetaria europea, fragilità dei mercati emergenti. E come spesso accade alla vigilia dei crolli, prese piede la convinzione che questa volta fosse diverso.
Si stava costruendo una bolla. Silenziosamente, sistematicamente. E nessuno sembrava voler vedere.
2. Anatomia di una bolla speculativa: leva, credito e incoscienza collettiva
La bolla degli anni Venti non fu un incidente né un’esplosione irrazionale. Fu il prodotto di un meccanismo preciso, alimentato da credito facile, innovazioni finanziarie opache e una psicologia di massa euforica. Un sistema perfettamente oliato — finché tutto sembrava funzionare.
Il cuore pulsante: l’acquisto a margine
La leva principale fu il buying on margin: acquistare azioni versando solo il 10% del loro valore e prendendo a prestito il restante 90% dal broker. Le azioni stesse fungevano da garanzia.
Era una leva estrema: un +10% sul mercato raddoppiava il capitale, ma un -10% lo azzerava, trasformando gli investitori in debitori.
Questa dinamica, dove il rischio cresceva più della consapevolezza, si diffuse rapidamente. Nel 1929 si stimava che oltre 300 milioni di azioni fossero detenute a margine: Wall Street era diventata un casinò a credito.
Un castello di carte interconnesso
Ma la fragilità era sistemica. I broker, a loro volta, si finanziavano dalle banche commerciali, usando come garanzia quelle stesse azioni acquistate a debito.
L’intero sistema si reggeva su titoli sopravvalutati e moltiplicati a leva, creando un legame diretto e pericoloso tra la Borsa e il sistema bancario — quello che custodiva i risparmi delle famiglie.
Se il valore delle azioni fosse crollato (come accadde), non solo gli investitori, ma anche broker e banche si sarebbero ritrovati insolventi.
La Federal Reserve non intervenne per tempo. Mantenne tassi bassi per anni, alimentando l’indebitamento. Solo nel 1928 iniziò ad alzarli, ma la bolla era già fuori controllo.
La macchina era lanciata. E nessuno sembrava sapere dove fosse il freno.
La psicologia dell’euforia: «Questa volta è diverso»
Ogni bolla nasce da un’illusione collettiva. Negli anni Venti, questa prese la forma di una fede quasi religiosa in una “Nuova Era” di prosperità infinita, alimentata da innovazione tecnologica, progresso industriale e fiducia cieca nell’economia americana.
Il simbolo di questa convinzione fu la celebre affermazione dell’economista Irving Fisher, che nel 1929 dichiarò che i prezzi avevano raggiunto «un livello permanentemente elevato».
Ma l’euforia non nacque nel vuoto. Solo pochi anni prima, una bolla immobiliare in Florida aveva mostrato gli stessi tratti: credito facile, acconti minimi, aspettative esagerate. Quando il mercato crollò, invece di trarne lezione, l’attenzione degli speculatori si spostò semplicemente dai terreni alle azioni.
Ben presto si affermò un conformismo finanziario dilagante. Si investiva non per analisi, ma perché “lo facevano tutti”. La Borsa divenne un passatempo nazionale, un’illusione collettiva condivisa da banchieri, camerieri e casalinghe. Nessuno voleva restare fuori dal gioco dell’arricchimento facile.
In questo clima, la leva finanziaria smise di essere uno strumento tecnico e divenne un amplificatore di rischio sistemico. Milioni si indebitarono per speculare, certi che il mercato sarebbe salito all’infinito. Ma quando la fiducia si fonda su illusioni condivise, il rischio diventa contagioso: il default di un investitore colpisce il broker, poi la banca. La catena era tesa. Bastava un colpo per farla crollare.
Il mercato non saliva più nonostante l’irrazionalità. Saliva grazie ad essa.
3. Il crollo: dal panico alla paralisi sistemica
L’euforia, per sua natura, ha vita breve. Dopo aver toccato l’apice il 3 settembre 1929 — con il Dow Jones Industrial Average (DJIA) a quota 381,17, massimo storico — il mercato cominciò a scricchiolare. I primi segnali di nervosismo si manifestarono già nel corso del mese: gli investitori più accorti iniziarono a vendere, mentre analisti come Roger Babson lanciavano pubblici allarmi su un crollo imminente. Anche eventi esterni, come lo scandalo dell’inglese Clarence Hatry, contribuirono a intaccare la fiducia.
Ottobre 1929: cronologia della caduta
Mercoledì 23 ottobre: un’ondata di vendite nel finale di seduta fece perdere al mercato il 4,6%, seminando panico tra gli investitori.
Giovedì 24 ottobre – “Giovedì Nero”: all’apertura, il DJIA perse l’11% in pochi minuti. Venne registrato un record di 13 milioni di azioni scambiate, con un calo finale del 9%.
Un gruppo di grandi banchieri, guidato da Thomas Lamont della Morgan Bank, tentò un intervento d’emergenza: ordini d’acquisto massicci su titoli chiave per calmare il mercato. Funzionò, ma solo per poche ore.
Lunedì 28 ottobre – “Lunedì Nero”: l’effetto placebo svanì. Il DJIA crollò del 12,8%, nuovo record di perdita giornaliera. I banchieri non intervennero più.
Martedì 29 ottobre – “Martedì Nero”: il panico divenne totale. Il volume salì a oltre 16 milioni di titoli, molti venduti senza acquirenti. Il DJIA perse un ulteriore 11,7%.
Il fallimento dell’intervento privato segnò una svolta: la crisi non era più solo di fiducia, né solo di liquidità. Si trattava ormai di una crisi sistemica, in cui milioni di investitori indebitati si trovavano insolventi, e la promessa della “Nuova Era” appariva per ciò che era sempre stata: un’illusione collettiva.
Il meccanismo del panico: margin call e vendite forzate
La stessa leva finanziaria che aveva gonfiato la bolla fu il detonatore della sua esplosione. Quando i prezzi iniziarono a precipitare, il valore delle garanzie detenute dai broker — le azioni acquistate a credito — si ridusse rapidamente, diventando insufficiente a coprire i prestiti concessi. A quel punto scattarono le temute margin call: richieste immediate agli investitori di versare liquidità per ripristinare il margine richiesto. Ma la stragrande maggioranza degli speculatori, già all-in con risparmi (e debiti), non aveva più disponibilità liquide.
L’unica via d’uscita era vendere le azioni. E quando tutti vendono nello stesso momento, i prezzi crollano ancora di più. Si innescò così una spirale autoalimentata di vendite forzate, note come leverage-induced fire sales: più i prezzi scendevano, più le garanzie si svalutavano, generando nuove margin call, nuove vendite e nuovi crolli. Una reazione a catena che trasformò il panico in un collasso strutturale.
È importante sottolinearlo: il crollo non fu un evento puntuale, ma un processo lungo e doloroso. Sebbene i riflettori si concentrino sul “Martedì Nero”, il mercato continuò a scendere per quasi tre anni, toccando il fondo nel luglio 1932, con un calo complessivo vicino al 90% rispetto al picco del 1929.
Molti investitori, attratti da apparenti “occasioni” dopo i primi crolli, furono travolti da false riprese e ribassi successivi. Una lezione dura, ma essenziale: dopo lo scoppio di una grande bolla, i minimi non arrivano mai in fretta.
4. Dalla crisi finanziaria alla Grande Depressione: il contagio
Il crollo di Wall Street non si limitò alla finanza. Fu la scintilla che innescò un incendio globale: una reazione a catena che travolse banche, imprese, famiglie e governi, trasformando una crisi di Borsa nella più grave depressione economica del XX secolo.
Il collasso bancario
Le banche si ritrovarono colpite su due fronti: da un lato, detenevano azioni che stavano perdendo valore; dall’altro, avevano concesso prestiti a broker e speculatori ormai insolventi. Il panico si riversò rapidamente sugli sportelli bancari: milioni di risparmiatori si precipitarono a ritirare i depositi, temendo il fallimento delle banche.
Senza un sistema di assicurazione dei depositi né liquidità sufficiente, migliaia di istituti — soprattutto le piccole banche indipendenti — fallirono tra il 1929 e il 1933, facendo evaporare i risparmi di una vita e paralizzando il credito.
Dall’economia finanziaria a quella reale
Con le banche in crisi, il flusso di credito si bloccò. Le imprese non riuscivano più a finanziarsi: la produzione industriale crollò del 50% in tre anni, mentre la disoccupazione salì da 1,5 a 14 milioni di persone.
Questa spirale provocò una grave deflazione: i prezzi scesero, il peso reale dei debiti aumentò, i consumi si contrassero ulteriormente. Il sistema economico entrò in una dinamica auto-distruttiva.
Il crollo di Borsa non fu l’unica causa della Grande Depressione, ma ne fu il catalizzatore. Rese evidenti — e ingestibili — tutte le fragilità preesistenti: indebitamento eccessivo, disuguaglianze, crisi del mondo agricolo.
La diffusione globale
Gli Stati Uniti interruppero bruscamente i flussi di capitale all’estero, colpendo soprattutto l’Europa e la Germania, dipendente dai prestiti americani previsti dal Piano Dawes. Invece di cooperare, i governi reagirono con protezionismo: nel 1930, gli USA approvarono lo Smoot-Hawley Act, imponendo dazi altissimi su migliaia di beni.
Il resto del mondo rispose con misure simmetriche, scatenando una guerra commerciale che fece crollare gli scambi internazionali e aggravò la depressione.
Ricostruire la fiducia: il New Deal
L’amministrazione Hoover, ancorata all’ideologia del laissez-faire, si dimostrò impotente. Solo nel 1933, con Franklin D. Roosevelt, arrivò una svolta concreta. Il New Deal puntava a rilanciare l’economia e riformare le fondamenta del sistema finanziario.
Due pilastri ne furono l’asse portante:
Glass-Steagall Act (1933): separò l’attività bancaria commerciale da quella speculativa e creò la FDIC, l’assicurazione federale sui depositi che pose fine alle corse agli sportelli.
Securities Acts (1933-34): introdussero regole per l’emissione e la negoziazione dei titoli, vietando manipolazioni e pratiche fraudolente. Venne istituita la SEC, ancora oggi l’autorità di vigilanza sui mercati americani.
5. Echi dal 1929
La storia finanziaria non si ripete mai identica, ma spesso fa rima. Le dinamiche di euforia, leva e panico che caratterizzarono il 1929 sono ricorrenti. Riconoscerne i segnali è cruciale per l’investitore moderno. In tal senso, il modello in 5 fasi dell’economista Hyman Minsky — Spostamento, Boom, Euforia, Presa di profitto, Panico — è un utile schema interpretativo.
Vediamo due casi emblematici che risuonano con il 1929.
Caso 1: La bolla delle dot-com (1997–2000)
Euforia tecnologica
La narrazione della “New Economy” basata su Internet riprendeva quella della “Nuova Era” degli anni ’20: in entrambi i casi, si credeva che l’innovazione (radio e auto allora, web e IT ora) avesse reso obsolete le regole classiche del mercato, come il rapporto prezzo/utili.
Speculazione su fondamentali deboli
Si investiva in società “dot-com” senza utili né modelli di business sostenibili, come negli anni Venti si speculava sugli investment trust, spesso privi di veri asset sottostanti.
Psicologia del gregge
La paura di restare fuori (FOMO) guidava le decisioni, spingendo masse di investitori a comprare titoli ipervalutati, spesso senza alcuna analisi razionale.
Caso 2: La crisi finanziaria globale (2008)
Leva finanziaria estrema
I mutui subprime del 2008 sono l’equivalente moderno dell’acquisto a margine del 1929: debito facile, accessibile e scarsamente valutato, utilizzato per gonfiare asset — case allora, azioni prima.
Innovazione opaca
I MBS e i CDO nel 2008 hanno giocato lo stesso ruolo degli investment trust del ’29: strumenti finanziari nuovi, complessi e opachi, che creavano un’illusione di sicurezza e diversificazione.
Deregolamentazione sistemica
La revoca di parti del Glass-Steagall Act e l’assenza di regole sui derivati OTC permisero agli istituti finanziari di mescolare attività speculative e bancarie, aumentando i rischi sistemici.
Panico sistemico
Il fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008 fu il “Martedì Nero” del nostro tempo: un evento traumatico che innescò un collasso globale del credito e richiese interventi massicci di governi e banche centrali per evitare un collasso del sistema.
Il crollo del 1929 non fu solo un evento finanziario: fu uno spartiacque storico, economico e culturale. Segnò il punto in cui l’euforia cieca si scontrò con la realtà, dove l’illusione del progresso infinito collassò sotto il peso del debito, della disuguaglianza e dell’assenza di regole.
Se c’è una lezione da trarre, è che le crisi non nascono dal nulla. Sono il frutto di dinamiche prevedibili, spesso visibili, ma puntualmente ignorate: crescita alimentata dal credito, strumenti finanziari poco trasparenti, fiducia illimitata nella tecnologia e nella novità, e, soprattutto, una psicologia collettiva incline all’eccesso.
L’investitore moderno non può permettersi il lusso dell’amnesia. Non per cinismo, ma per lucidità. Studiare il 1929 — così come il 2000 o il 2008 — non serve a evitare ogni errore, ma ad allenare l’occhio a riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi.
Perché se è vero che “questa volta è diverso”, è ancora più vero che l’euforia ha sempre lo stesso suono. E quando smette la musica, chi resta senza sedia paga il conto.
Dopo il 1929, i mercati avrebbero conosciuto altri shock improvvisi. Il prossimo sarà il Lunedì Nero del 1987: il giorno in cui Wall Street crollò in una sola seduta.
Alessio Vannucci, consulente finanziario indipendente, collaboratore Aduc
COMUNICATO STAMPA DELL’ADUC
URL: http://www.aduc.it
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