
[lid] Quando si parla di Parco Nazionale la prima cosa che viene in mente è la fotografia di un’area naturale preservata dalla speculazione e da interventi antropici ad alto impatto e dove, non solo la natura è protetta ma anche le attività tradizionali dei residenti locali, che con essa hanno convissuto sin da tempi immemorabili. Recentemente (20 Maggio 2020), la Commissione Europea ha adottato la Strategia per la biodiversità, un piano che permetterebbe ai leader mondiali di trasformare il 30 per cento della Terra in aree protette, entro i prossimi dieci anni. Sembrerebbe quasi una buona notizia, se non fosse per il fatto che, in molte parti del Mondo (soprattutto in Africa, Asia e America Latina), la promulgazione di Parchi Nazionali ed aree protette ha messo in moto assurdi meccanismi di accaparramento delle terre (land grabbing), attraverso l’espulsione degli abitanti locali, la brutale e violenta repressione di questi da parte di ‘rangers’ e gruppi armati addestrati all’uopo e per mezzo di norme restrittive che, limitando o proibendo l’uso delle risorse naturali, hanno – a poco a poco – impoverito le comunità locali, portandole alla fame.
Per la stragrande maggioranza delle persone, viene naturale associare queste storie di usurpazione a paesi lontani da noi, considerando la nostra bella Italia un ‘isola felice’, dove il rapporto tra conservazione della natura e salvaguardia dei diritti delle comunità locali è rispettato e salvaguardato. Purtroppo, non è sempre così! Anche nel nostro paese, a macchia di leopardo, emergono violazioni dei diritti dei residenti, soprattutto nei comuni situati all’interno di Parchi Nazionali e Regionali. Tutto ciò è trapelato in modo palese nell’ambito di un convegno organizzato il 29 Settembre a San Donato Val di Comino (FR.) sul tema “Assicuriamoci il Futuro, Conservando le nostre Tradizioni”. Nell’ambito dell’evento una delegazione di pastori di Abruzzo, Lazio e Molise hanno confrontato il Presidente Giovanni Cannata, ed altri dirigenti del PNALM, circa la violazione dei diritti dei residenti sui quei terreni gravati da uso civico (documentazione video disponibile su https://vimeo.com/laziopastorizia)
Cos’è l’Uso Civico?
Detto in un parole semplice, si tratta di quel diritto di godimento collettivo (pascolo, legnatico, caccia, semina, etc.) che spetta ai componenti di una collettività delimitata territorialmente (es. abitanti di un Comune), su terreni sia di proprietà collettiva (demanio civico), sia di proprietà privata ma su cui grava un diritto di uso civico in favore della collettività. Il corpus normativo di riferimento è costituito, principalmente, dalla Legge dello Stato 20 novembre 2017, n. 168 (norme in materia di domini collettivi), dalla Legge dello Stato 16/06/1927, n. 1766 e dal relativo Regolamento di attuazione RD 26/02/1928, n, 332, inoltre, dalle successive norme (nazionali e regionali) in materia di usi civici, nonché dalle precedenti leggi eversive della Feudalità (Legge 01/09/1806, RD 08/06/1807, RD 03/12/1808, Legge 12/12/1816, RD 06/12/1852, RD 03/07/1861, Ministeriale 19/09/1861 ed altre).
In che Modo il Parco Nazionale D’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALN) sta Violando gli Usi Civici?
Virgilio Morisi – allevatore di Pescasseroli e portavoce degli allevatori/pastori presenti al convegno – ha fatto della difesa degli usi civici e dell’opposizione al Piano del Parco (PNALM) una ragione di vita. Egli racconta come, molto prima della creazione del Parco, il territorio viveva del lavoro della sua gente e la ricchezza si misurava in base alla quantità di bestiame, in particolar modo ovini. I terreni pascolivi venivano assegnati agli allevatori, in base a ‘regolamenti comunali’ che erano snelli e scevri dei complicati cavilli burocratici che oggi appesantiscono, come macigni, le pratiche di assegnazione dei pascoli. Adesso, dice Morisi, assistiamo, ad un sovvertimento del tradizionale rapporto tra sostenibilità ambientale e socio-economica a causa da una famigerata macchina burocratica (il Parco), ormai priva di freni che, sotto la guida cinica di tecnocrati dell’ambiente, spadroneggia sulle proprietà collettive dei ‘cives‘, imponendo norme illegittime, che ledono i diritti d’uso civico, costituzionalmente garantiti. Ecco che la battaglia degli allevatori, attraverso le parole di Morisi, si configura come una battaglia di diritto da giocare tutta sul piano legale e giuridico. Nel suo intervento Morisi (https://vimeo.com/870948446?share=copy), fa esplicita menzione della Legge Quadro sulle Aree Protette (394/91) che il Parco avrebbe bypassato con particolare riferimento al rispetto dei “diritti reali e gli usi civici delle collettività locali”. Nello specifico, l’articolo 11 della legge 394/91, sez. 5. chiarisce che, nell’ambito dell’applicazione del regolamento del Parco: “restano salvi i diritti reali e gli usi civici delle collettività locali”. Inoltre, come ricorda Morisi, nella sezione h), 2-bis dello stesso articolo, è chiaramente specificato che il Parco è tenuto a valorizzare “altresì gli usi, i costumi, le consuetudini e le attività tradizionali delle popolazioni residenti sul territorio, nonché le espressioni culturali proprie e caratteristiche dell’identità delle comunità locali….”. Purtroppo tutto questo non è avvenuto e non sta avvenendo.
In quest’assurdo groviglio di ambiguità, che Morisi e gli allevatori stanno cercando di dipanare, la scelta di molti Sindaci non è soltanto discutibile ma potenzialmente suscettibile a provvedimenti giudiziari. Quest’ultimi, infatti, continuano ad affittare aree destinate ad uso civico, al Parco. Sebbene questi contratti siano annuali, possono essere rinnovati. Ma il rischio maggiore, secondo Morisi, è che qualora il Piano del Parco dovesse essere approvato, queste aree (che includono terreni pascolivi) potrebbero essere trasformate in ‘Riserve Integrali’, quindi interdette anche al pascolo. Ovviamente, tale cambio di destinazione sarebbe comunque illegittimo. Nell’affermare questo, Morisi fa riferimento ad un’importante sentenza della Corte Costituzionale (sentenza 228/2021) la quale sancisce che neppure le Regioni possono legiferare in riferimento alla messa a disposizione di pascoli gravati da uso civico. In quest’ambito, fa notare Morisi, appare del tutto fuori luogo la designazione assegnata ad uno dei tecnici del Parco (il Dott. Carmelo Gentile), che continua a firmare documenti/accertamenti, in qualità di responsabile dell’Ufficio Attività Agrosilvopastorali (UFF.AASP). Ad esempio, il Dott. Gentile, fino a data odierna, risulterebbe redattore materiale di pronunciamenti relativi alle istanze di recupero legnatico di uso civico (es. provvedimento n. 085PD22 del 05.09.2022). Appare palese che, attraverso tali pronunciamenti, il Parco continua ad estendere il suo operato a questioni legate all’uso civico che, senza alcun dubbio, non sono di sua competenza. A riprova di tutto questo è un recente provvedimento di diniego alla proroga di monticazione, emesso dal Parco nei confronti di un allevatore di Castel San Vincenzo (IS.), in data 26/09/23 e firmato dal Direttore Luciano Sammarone – il quale, con palese abuso di potere, invece di esprimere un parere, si sostituisce illegittimamente alla Regione per esprimere il provvedimento finale di diniego. Altrettanto grave, però, risulta l’atteggiamento della stessa Regione, che – nel caso specifico – ha omesso di esercitare le sue prerogative, conferitegli dalla Costituzione.
Il Piano del Parco: Perché è Illegittimo?
Gli allevatori ritengono che il Piano è illegittimo, sia per aspetti di carattere formale e normativo, sia per la carenza di costituzionalità. Nel suo discorso Morisi evidenzia anche come i due strumenti fondamentali (Piano del Parco e Piano Socio-Economico Pluriennale) andavano elaborati contestualmente, come – di fatto – è espressamente sancito all’art. 11bis, comma 2, della Legge 394/1991. Invece, il Parco, secondo Morisi, posticipando la preparazione del Piano Socio Economico, ha violato le procedure prescritte per legge. In aggiunta a tutto questo, il Piano del Parco sarebbe manchevole di altra documentazione essenziale come, ad esempio, l’analisi dei suoli. Ovviamente, per analisi del suolo, Morisi non si riferisce alle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche di un suolo ma bensì a quegli elaborati atti a specificare le categorie dei vari terreni e la loro titolarità (terreni privati, demaniali, di dominio delle collettività, etc.).
Nonostante sia stato appurato che il ‘legiferare’ non è prerogativa del Parco, quest’ultimo ha comunque varato una serie di regolamenti che sono lesivi degli interessi degli allevatori/pastori come, ad esempio, il divieto di pascolo nei boschi (unica zona d’ombra per il bestiame, durante l’ estate), il divieto di sconfinamento degli animali da un pascolo ad un altro, l’abolizione – in alcune zone – del cosiddetto pascolo pesante (mucche e cavalli). In aggiunta a tutto questo, secondo Morisi, il rischio di non poter più pascolare nelle Zone Speciali di Conservazione (SIC), è ormai imminente, nonostante molte di queste aree siano coperte da uso civico e denominate di ‘Classe A’, ovvero, dove i diritti dei nativi residenti sono inviolabili. La cosa più preoccupante è che le aree che il Parco oggi chiede in affitto ai Comuni, rientrano – in gran parte – nella perimetrazione di quelle che, dopo l’eventuale approvazione del Piano, potrebbero diventare le future ‘riserve integrali’, quindi interdette al pascolo. Tale osservazione, durante il Convegno, è stata sollevata anche da Loreto Policella, Consigliere Comunale di Campoli Appennino (FR.) che, nell’ambito della sua stessa giunta, si è già opposto all’approvazione delle Riserve Integrali all’interno del territorio comunale.
Sono ormai, in tanti, gli allevatori che ritengono che lo strapotere del Parco (PNALM), è già diventato una realtà. Ad esempio Orazio Tantangelo allevatore di mucche allo stato brado/semibrado dichiara: “oggi siamo costretti a chiedere il nulla osta per il pascolo non più al Comune, ma al Parco, e questo non va affatto bene“. A questo riguardo, Giuseppe Francazi (Presidente dell’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Frosinone) e moderatore del Convegno, ritiene che – secondo le procedure correnti – se il Parco si esprime negativamente, la Regione può decidere di non assegnare una determinata area richiesta per il pascolo. Tale procedura, però, secondo gli allevatori, darebbe al Parco carta bianca per ‘punire’ quegli allevatori che contrastano da anni gli abusi e la mala-gestione del Parco.
Secondo Riccardo Frattaroli (Sindaco di Settefrati, Fr.) la cosa è ben più complessa “dobbiamo sempre capire chi è il Parco verso la Regione, verso il Governo….(in realtà) non è nessuno…noi sbagliamo sempre obiettivo, andiamo a prendercela con il Parco, quando il Parco non c’entra niente, dobbiamo andare più su, dobbiamo andare in Regione, al Governo. Il Parco non legifera fa delle proposte, ovviamente, al Ministero….” (https://vimeo.com/872829547?share=copy). Purtroppo, secondo Morisi, le Regioni si stanno passivamente uniformando alle linee guide del Parco, in quanto a causa della loro carenza di personale, non hanno neppure il tempo di vagliarle nei dettagli. Gli fa seguito Carmelo Gentile (tecnico del PNALM), anch’egli conferma che l’ufficio della Regione Lazio, in carico di processare determinate pratiche relative al settore agropastorale, è assolutamente incapace di svolgere questa funzione. Infatti, il completamento di un singolo procedimento può talvolta richiedere fino a 8/9 mesi. Afferma Gentile “noi (Parco) siamo i gestori dell’ex sito SIC Abruzzese e Laziale…però (la Regione è quella che rilascia) il parere finale…possiamo superare il tutto…facendo un solo referente (ovvero il Parco), perché siamo un pelo più veloci” (https://vimeo.com/872313640?share=copy). Ancora una volta, nell’ambito del Convegno si è assistito ad un chiaro tentativo, da parte del Parco, di acquisire ulteriori poteri e mansioni che, invece, fino a questo momento, la legge delega alle Regioni. Tuttavia, come sostengono gli allevatori che hanno partecipato al Convegno, ne’ le Regioni, ne’ i Comuni e tantomeno i Parchi, nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano, possono invadere con norma legislativa la disciplina degli assetti fondiari collettivi, estinguendoli, modificandoli e alienandoli, nemmeno dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione (sentenza 228/2021 Corte Costituzionale). A maggior ragione, come si potrebbe ignorare la legge n.168 del 2017, la quale evidenzia la sussistenza di “uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici”, nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio (sentenza n.46 del 1995). Tutto ciò, secondo l’art. 3, comma 5 della Costituzione, deve avvenire nel rispetto “delle regole consuetudinarie, al fine della conservazione dell’assetto giuridico tradizionale del territorio e, dunque, della continuità del dominio collettivo, così come configurato ab immemorabile”.
La VIncA. Nuove Norme e Restrizioni stanno Mettendo in Ginocchio l’Allevamento Estensivo
La VIncA (Valutazione di Incidenza Ambientale) è ormai diventata una procedura obbligatoria prevista dall’Unione Europea ai sensi del DPR 357/97 e sue successive modifiche e integrazioni. La valutazione di incidenza, come riportato sullo stesso sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, “è pertanto il procedimento di carattere preventivo al quale è necessario sottoporre qualsiasi piano, programma, progetto, intervento o attività…..che possa avere incidenze significative su un sito o proposto sito della rete Natura 2000, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti e tenuto conto degli obiettivi di conservazione del sito stesso”. Le misure restrittive e i vincoli proposti dalla VIncA stanno avendo ripercussioni molto deleterie sull’allevamento estensivo. Ad esempio, l’allevatore molisano Guglielmo Lauro dichiara (https://vimeo.com/872070511?share=copy) che, a causa dei parametri proposti dalla VIncA, dal 2021 ad oggi, è stato costretto a ridurre la sua azienda del 30% e dovrà procedere presto ad un ulteriore taglio del 20%. Questo si traduce in una consistente riduzione del numero di bestiame e, conseguentemente, in un calo significativo del reddito. Lauro afferma che il parametro per il carico di bestiame di 1UBA per ettaro e stato ridotto a 0,3 UBA per ettaro, ciò significa che per ogni mucca ci vogliono oggi 3,3 ettari di pascolo. Questi parametri sono stati calcolati per il pascolo perennale e, quindi, non sono applicabili a chi, come i pastori transumanti, utilizza i pascoli di montagna per un periodo che va generalmente dai 60 ai 120 giorni.
In aggiunta, Lauro puntualizza che, sul versante Molisano del Parco, il periodo di accesso ai pascoli di altitudine è stato spostato dal 1 Giugno/1 Novembre al 15 Giugno/15 Ottobre. Ciò ha comportato una riduzione di 30 giorni del periodo di pascolo in alpeggio, con significative ricadute sugli allevatori che si sono visti costretti ad incrementare, con notevole dispendio economico, l’acquisto di foraggi secchi. Va fatto notare che la riduzione del periodo del pascolo non tiene assolutamente in considerazione i cambiamenti climatici ed altri fattori ambientali, che potrebbero causare un anticipo o un ritardo nell’uso dei pascoli. Ad esempio, a causa dell’eccezionale piovosità primaverile di quest’anno, la crescita dell’erba in altura è stata particolarmente abbondante, ciò potrebbe consentire agli animali di alimentarsi di essenze spontanee per un periodo ben più lungo. Tuttavia, le date rigide imposte dalla VIncA non permettono questo, costringendo gli allevatori a calare le loro mandrie a valle quando c’è ancora tanta disponibilità di erba in altura. A tutto questo, si aggiunge una burocrazia letargica che tende a ritardare l’approvazione della VIncA in molti comuni, con risvolti negativi sugli allevatori, le cui richieste di anticipo e/o posticipo dell’accesso ai pascoli vengono spesso bocciate.
A questo riguardo, durante il convegno, il tecnico del Parco, Carmelo Gentile, ha rimproverato l’agronomo Giuseppe Francazzi di essere l’autore di pratiche VIncA di oltre 100 pagine, che invece di velocizzare non fanno altro che ritardare l’approvazione delle stesse. Francazi ha confermando che una pratica VIncA da lui scritta consisteva di 190 pagine e ha ribadito, sorridendo: “a me piace fare la VIncA”. A nessuno, però, sembra interessare che le vittime anzi le ‘cavie’ di questi virtuosismi tecnici sono, ancora una volta, gli allevatori. Ma ancora più grave, è la ‘pretesa’ da parte del Parco di potersi arrogare illegittimamente tutta una serie di competenze che, in realtà – per legge – spetterebbero ai Comitati Tecnici istituiti all’uopo dalle rispettive Regioni e alle quali la norma statale affida tale vincolo. In definitiva, la competenza in materia di VIncA spetta alle Regioni e, invece, l’onnipotente Parco continua a fare ciò che vuole con la compiacenza e sudditanza dei suoi collaboratori.
Durante il convegno, l’esasperazione degli allevatori è sfociata in tutta la sua potenza nell’intervento di Orazio Tatangelo di Gioia Dei Marsi (AQ.), che afferma: “già la VIncA ci restringe, perché continuate ad affittare le terre civiche, i pascoli, invece di darli a noi…che ci dovete fare con questi pascoli?“. In modo perentorio Carmelo Gentile del PNALM, ha risposto “Noi (il Parco) non stiamo sottraendo pascoli agli allevatori, il Comune di Gioia dei Marsi non ha fatto osservazioni su questo“. Questo apparente rimbalzo di responsabilità, secondo Tatangelo, indica la volontà esplicita del Parco di voler cacciare gli allevatori/pastori dal proprio territorio.
Oggi la VIncA è anche all’interno del Piano del Parco. Malauguratamente, tra vincoli e restrizioni di ogni sorta, oggi si sta costringendo gli allevatori a cambiare tipologie di allevamento, passando da un modello estensivo brado/semi-brado (a bassissimo impatto ambientale e responsabile di numerosi servizi ecosistemici) ad un sistema decisamente intensivo. Va comunque chiarito che, al momento, non esiste alcun riferimento o menzione specifica sul fatto che la VIncA debba necessariamente estendersi a pratiche tradizionali quali il pascolo che, ovviamente, non deve considerarsi come attività di trasformazione del territorio ma bensì di mantenimento e gestione di terreni già sottoposti a tale uso, spesso da tempi immemorabili. Da un punto di vista teorico-sostanziale, andrebbe quindi verificato fino a che punto l’applicazione della VIncA al pascolamento di animali domestici, sia davvero rispettosa dei principi fondamentali della carta costituzionale e se, nello specifico, non entri in conflitto con i diritti inalienabili agli usi civici garantiti dalla nostra costituzione e con il rispetto delle regole consuetudinarie (art. 3, comma 5).
Allevamento Estensivo e Produzione: Soluzioni Inadeguate a Problemi Complessi
L’intervento del Consigliere Regionale Daniele Maura al Convegno (https://vimeo.com/872313640?share=copy) si è incentrato sulla necessità di promuovere uno sviluppo turistico legato all’enogastronomia del territorio ciociaro, incrementando la vendita di prodotti locali associati ad un marchio territoriale, al fine di facilitare la vendita oltre i confini dell’Italia. Maura sostiene che è difficilissimo entrare da soli in un mercato globalizzato. L’approccio di Maura, in riferimento alle potenzialità produttive del territorio, sembra basarsi su un assunto sbagliato. Infatti, si da’ per scontato che il problema che affligge le aziende zootecniche sia legato alla mancanza di sbocchi di mercato. La realtà, invece, è ben diversa. Nella provincia di Frosinone, ad esempio, esistono – in larga parte – aziende a gestione familiare con piccole produzioni casearie assolutamente di nicchia che, a mala pena, riescono a soddisfare il mercato locale. L’idea di allargare la vendita di questi prodotti all’estero, è qualcosa che gli stessi allevatori ritengono impensabile, non per problemi di competizione sul mercato o assenza di marchi, ma semplicemente perché la quantità prodotta è veramente esigua, e non ci sarebbe comunque la possibilità di incrementarla, in modo sostanziale. Tali quantitativi subiscono anche delle inflessioni stagionali, ad esempio, a causa del calo del latte (ovicaprini), circa cinque mesi dopo la nascita della prole. La produzione del latte può essere influenzata anche da vari parametri (riduzione della durata del giorno) e, quindi, in condizioni di allevamento tradizionale, è impossibile garantire una produzione annuale costante. Così, la vendita dei prodotti derivati del latte, rimane, esclusivamente circoscritta al mercato regionale.
Per quanto riguarda lo smercio di bovini destinati al macello gli allevatori incontrano notevoli difficoltà; anche la vendita di capretti e agnelli deve affrontare la concorrenza sleale di prodotti a basso prezzo, del mercato estero. Sicuramente, il conferimento di marchi particolari (es. per gli animali da carne) non riuscirebbe a risolvere la concorrenza di mercato. Difatti anche gli iscritti al consorzio IGP del “Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale”, non riescono ad incrementare in modo significativo le loro vendite. Ancor più difficile è la situazione sperimentata da molti allevatori abruzzesi dell’entroterra che devono affrontare forti costi di produzione ed anche una maggiore difficolta circa l’approvvigionamento di fieno, per sostenere il bestiame durante i rigidi mesi invernali. Inoltre la decurtazione dei fondi della PAC, la crescente burocrazia, l’aumento del costo di lavoro del personale, in aggiunta a vincoli e restrizioni imposte dai Parchi e dalla Comunità Europea hanno contribuito, in modo significativo, al calo della produzione di tutte le aziende zootecniche locali. “Altro che marchi e filiere di mercato, qui ci vorrebbero misure economiche decise a sostegno del settore” dice l’allevatore Virgilio Morisi “soprattutto noi che stiamo all’interno del Parco abbiamo problemi strutturali e di sopravvivenza; qui a stento riusciamo a fare reddito con quel poco di animali che ci sono rimasti!”. A queste condizioni, aggiunge Michele Tagliente (allevatore di Settefrati, Fr.) è impensabile fare dei prodotti di qualità, soprattutto perché il modus operandi dello stesso Parco sta costringendo gli allevatori a modificare il proprio modello di allevamento da estensivo ad intensivo, con la conseguente perdita di tutte la peculiarità legate alle eccellenze casearie locali.
L’Impatto delle Predazioni da Fauna Selvatica sulle Aziende Zootecniche
Anche se in modo marginale, il convegno ha anche discusso l’impatto che le predazioni da fauna selvatica stanno avendo sulle aziende zootecniche (https://vimeo.com/872849380?share=copy). L’agronomo Giuseppe Francazi, usando un tono impersonale, ha introdotto l’argomento con la seguente affermazione. “organizziamoci e organizzatevi affinché quando qualcuno fa il ritrovamento dell’animale…possiamo vedere in che modo…qualcuno riconosca…il giusto valore dell’esemplare e non celo paghi solo come meticcio…quindi dobbiamo migliorare anche un po’…la genetica“. Dietro il termine ‘qualcuno’, vanno identificati rispettivamente i guardaparco e l’Ente Parco. Facendo slittare il discorso sulla genetica (ovvero sull’iscrizione dei singoli animali ai libri genealogici delle rispettive razze) Francazi ha fatto intuire che il miglioramento genetico può influire positivamente su una maggiorazione della quota indennizzata. In tal modo, Francazi ha eluso altri aspetti fondamentali, quali l’aumento vorticoso delle predazioni da lupo che, in alcuni Comuni, stanno mettendo gli allevatori letteralmente in ginocchio. Gli allevatori non credono ai dati recenti presentati da ISPRA, secondo cui l’impatto delle predazione da lupo sulle aziende zootecniche italiane sarebbe molto esiguo. Al contrario, tali dati sono messi in discussione sulla base del fatto che, soprattutto fuori dal perimetro del Parco, una buona percentuale di allevatori non denuncia più i casi di predazione subiti, poiché gli indennizzi sono estremamente esigui. Spesso, nonostante il versamento di marche da bollo e il tempo perso nello svolgimento delle pratiche burocratiche necessarie, gli indennizzi, fuori dal Parco, restano del tutto irrisori o, addirittura, non vengono neppure elargiti. In alcuni casi, quando le predazioni avvengono in aree non lontane da strade e centri abitati, gli allevatori sono costretti a pagare loro le spese dello smaltimento delle carcasse. Quindi, per evitare tutto questo, molti allevatori non denunciano più le perdite, soprattutto quando le carcasse degli animali predati non sono ritrovate, perché divorate da branchi di cinghiali che, nottetempo, cancellano quasi ogni evidenza della predazione subita.
All’interno del Parco, l’Ente paga gli indennizzi sulle predazioni soltanto quando la carcassa è stata ritrovata, ma spesso vengono tirate in ballo tutta una serie di condizionalità, pur di non risarcire gli allevatori delle perdite subite. Ad esempio, se non si è in possesso di una concimaia a norma, se non si è in possesso di VIncA, se l’animale predato aveva sconfinato dall’area fidata, o per altri cavilli burocratici, l’allevatore potrebbe non essere indennizzato. Associare il pagamento dei danni a queste, ed altre condizionalità, appare una violazione della Legge Quadro sulle Aree Protette (394/91) che al comma 3 e 4 recita che ” l’ente parco è tenuto a indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del parco” e “stabilisce le modalità per la liquidazione e la corresponsione degli indennizzi, da corrispondersi entro novanta giorni…”. In particolare, la legge non fa’ alcun riferimento a condizionalità specifiche che potrebbero limitare o annullare la corresponsione degli indennizzi. Nel corso del convegno, il racconto di Marco Rizzi, allevatore di Cerro al Volturno (IS.) ha dato una testimonianza lampante di tutto questo.
Inoltre, gli allevatori lamentano che i danni indiretti da predazione non vengono assolutamente indennizzati. Tali danni includono la perdita di latte e aborti tra gli animali sopravvissuti, ma comunque fortemente stressati dagli attacchi. Quello che gli allevatori richiedono, non sono indennizzi economici ma la tranquillità di pascolare il proprio bestiame come hanno fatto per decenni, senza dover fare, giorno per giorno, la macabra conta degli animali predati. Infatti, nessun risarcimento potrà mai ripagare gli allevatori dalla vista dei loro animali agonizzanti e straziati dai morsi ricevuti. Gli animali predati spesso muoiono con sofferenze atroci e, agli allevatori, non resta altro che farsi il segno della croce, nella speranza che il giorno seguente non succeda la stessa cosa. Frequentemente, i lupi eliminano le migliori fattrici, e questo compromette la continuità della stessa azienda. Allevatori come G. Lauro stanno lavorando anche sul miglioramento della genetica, e sono iscritti al consorzio IGP del “Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale” che garantisce un marchio di qualità per le carni bovine fresche, approvato dalla Comunità Europea per l’Italia. Lauro specifica che lo stesso Consorzio prevede due condizioni essenziali: il pascolo per gli animali selezionati e l’allattamento naturale del vitello per almeno sei mesi. E’ chiaro, spiega G. Lauro, che le restrizioni imposte dalla VIncA sui tempi di permanenza degli animali in altura, spesso non sono compatibili con le condizioni dettate dal Consorzio.
La Replica dell’Ente Parco
Durante il Convegno, il Dott. Giovanni Cannata, Presidente del PNALM, ha tentato di rassicurare i presenti che “il Parco è tenuto a rispettare le leggi dello Stato” e uno dei suoi obblighi principali è appunto quello “di accompagnare i cittadini del Parco e le amministrazioni nel viaggiare attraverso queste leggi“. Inoltre, ha affermato (https://vimeo.com/871357095?share=copy), che il Piano del Parco è stato stilato seguendo un percorso che, in tutti i tempi, ha coinvolto le amministrazioni comunali, le quali – secondo le sue testuali parole – rappresentano, per l’Ente Parco “il riferimento primario“. Il Presidente ha anche ribadito che le principali associazioni di categoria come Coldiretti e Confagricoltura sono state coinvolte in questo processo e che il piano del Parco è poi stato pubblicato dalle ‘case comunali’. A testimonianza di questo, dice Cannata, le osservazioni che erano state fatte in merito al Piano ci sono tutte, nonché le controdeduzioni che sono state poi considerate nella gestione del documento finale inviato alle Regioni competenti. Nell’affermare questo, il Presidente sostiene che il Parco ha cercato di accogliere intelligentemente tutto quello che poteva accogliere e scremate quelle cose che erano contro-legge.
Le parole di Cannata delineano un modus operandi che presuppone, e da’ per scontato, che un Sindaco possa rappresentare necessariamente le idee, il volere e le aspirazioni di tutti i suoi cittadini e che, in modo analogo, anche le Associazioni di Categoria rappresentino la volontà e le istanze di tutti i suoi iscritti ed, in particolare, degli esponenti del mondo allevatoriale estensivo. In base a questo falso assunto, l’Ente Parco ha ritenuto superfluo coinvolgere le piccole associazioni e i coordinamenti di agricoltori e allevatori del territorio, nonché i rappresentanti di altre realtà produttive locali. In altre parole, le metodologie di coinvolgimento adottate dal Parco, anche per la stesura del suo stesso Piano, sono lontane anni luce dalle pratiche di democrazia partecipative in cui semplici cittadini, agricoltori, allevatori, etc. sono trasformati in soggetti partecipativi nell’ambito di tutte le decisioni che hanno a che fare con il proprio territorio.
In modo analogo, durante il convegno, un intervento di Giuseppe Francazi (Agronomo) ha lasciato molti dei partecipanti letteralmente a bocca aperta. Egli ha affermato, testualmente, quanto segue: “il Piano Socio-Economico io lo devo ancora fare e dentro il piano socio-economico ci devo andare a mettere delle cose che possono essere vincolanti e restrittive“. In altre parole il Dott. Francazi ha voluto far crede di essere l’attore principale di un piano che, invece, in base all’art. 11bis, comma 2, della Legge 394/1991, dovrebbe essere redatto dal Consiglio Direttivo e la Comunità del Parco’. Partendo da questa affermazione, Francazi ha detto “questo il momento in cui possiamo chiedere al Presidente: ascoltaci! fai in modo che in quella stesura del piano non ci siano soltanto tecnici incaricati con un bando pubblico… ma anche rappresentanti portatori d’interesse…” (https://vimeo.com/871741731?share=copy). Appare quanto mai patetico che la richiesta da parte degli allevatori di essere ascoltati debba essere proferita quasi alla stregua di una supplica. Invece, l’inclusione di tutti i portatori d’interesse doveva essere inserita, ab initio, nel processo consultivo/partecipativo su cui fondare, poi, il Piano Socio-Economico.
E’ dunque ormai evidente ed indisputabile che le decisioni finali adottate dal Parco, non sono altro che il risultato di processi verticali anziché orizzontali. Va fatto notare che le pratiche partecipative, che coinvolgono i cittadini nelle scelte pubbliche, sono ormai raccomandate da molti organismi internazionali e hanno iniziato a fare capolino anche nella legislazione italiana. Di questo il Parco dovrebbe tenerne atto, come anche del fatto che, tra le finalità contemplate dalla Legge Quadro sui Parchi (articolo 1, comma b), viene menzionata “l’applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo pastorali tradizionali”. La proposta del Presidente Cannata di avere tre momenti di forum territoriale per le tre parti del territorio del Parco, per raccogliere dai territori suggerimenti ed osservazioni al Piano, non può quindi rappresentare la strada maestra per garantire una partecipazione dal basso. Differentemente da quello che il Presidente Cannata si auspicherebbe, non è pertanto possibile procedere velocemente all’approvazione del Piano Parco, ma è necessario – invece – ricominciare da capo, in modo da mettere in atto dei veri processi partecipativi, attenendosi strettamente ai dettami della Legge Quadro sulle Aree Protette (394/91) e rispettando gli usi civici dei nativi del territorio.
Allo stesso tempo, il Presidente Cannata ha eluso le argomentazioni sollevate dagli allevatori circa l’incostituzionalità del Piano del Parco, affermando che, qualora si ravvisino profili di incostituzionalità, questi dovrebbero essere fatti valere nelle sedi dovute (https://vimeo.com/871357095?share=copy). Insomma, attraverso un giro di parole, Giovanni Cannata evita di ammettere che la proposta di Piano violi principi costituzionali già acclarati (es. sentenza C. Cost. 119/2023, Sent. C. Cost. 103/2017, etc.). Cannata, affermando che “il Piano Socio-Economico viene a valle del Piano del Parco” ha così reso palese la volontà dell’Ente di continuare ad agire contrariamente all’art. 11bis, comma 2, della Legge 394/1991, il quale stabilisce che i due strumenti devono essere elaborati contestualmente. Inoltre, Cannata ha sostenuto, testualmente che “il Piano Socio Economico lo fa la Comunità del Parco e noi, come amministratori, accompagneremo e sosterremo…”. Quest’affermazione è in contraddizione con l’art. 11bis, comma 2, della Legge 394/1991, il quale stabilisce che il ‘piano socio-economico’ lo fanno insieme il Consiglio Direttivo e la Comunità del Parco’. Per ‘Comunità del Parco’ si intende l’organo consultivo e propositivo dell’Ente Parco costituita dai presidenti delle regioni e delle province, dai sindaci dei comuni e dai presidenti delle comunità montane. Il Piano Socio-Economico, per legge, doveva essere pubblicato nel 2022 ma, in realtà, ciò non è mai avvenuto. In risposta ai dubbi sollevati da Morisi, circa il ruolo del Dott. Carmelo Gentile (tecnico PNALM), il Presidente ribadisce, poi, che quest’ultimo è il Direttore del Servizio Tecnico-Scientifico. Tuttavia, il fatto stesso, che il Dott. C. Gentile continui a firmare i suoi atti con l’incarico di responsabile dell’Ufficio Attività Agrosilvopastorali suggerisce, invece, la necessità di chiedere un ulteriore verifica della sua posizione nei confronti dell’art. 323 del Codice Penale, in quanto egli risulta redattore di concetto e materiale dei provvedimenti di pronunciamento positivo o negativo sulle istanze di recupero legnatico di uso civico – es. provvedimento n. 085PD22 del 05.09.2022.
Replicando agli allevatori, il Presidente ha inoltre affermato che “tutte le riflessioni sull’uso dei suoli sono esattamente già state fatte nella predisposizione del Piano del Parco“. In realtà, la presenza di alcune tavole di analisi, come la menzionata ‘carta dell’uso del suolo’, non sopperisce alla mancanza di altri documenti essenziali per il completamento della base informativa sulla quale sviluppare lo strumento di pianificazione (ex art. 12 L. 394/1991). Le informazioni sulla qualità demaniale o no dei suoli, sull’esistenza o no dei gravami di uso civico anche sui terreni non appartenenti al demanio, sul carico di bestiame storicamente sostenuto, sono tuttora assenti. Va fatto notare che la normativa attuale sulla nullità degli atti per mancanza degli elementi essenziali non si esaurisce con l’art. 1 della L. 241/1991. Per quanto riguarda gli atti di pianificazione, la norma di settore è specifica e perentoria: le proposte prive delle dovute analisi non sono procedibili. Quindi, la proposta di Piano del Parco non è legittimamente procedibile.
In merito all’approvazione definitiva del Piano, il Presidente spiega che la Regione Molise ha già fatto tutti gli adempimenti con i comuni interessati, la Regione Lazio è in ritardo mentre la Regione Abbruzzo è quasi in fase di conclusione, maccherebbero – a suo avviso – soltanto due o tre comuni, a causa dell’assenza di alcuni membri delle segreterie comunali. Quest’ultima affermazione è clamorosamente smentita dall’ultimo rifiuto del Consiglio Comunale di Bisegna (AQ) che, con delibera del 28/07/2023, ha respinto la proposta di “approvazione dell’intesa sul piano parco” poiché gravemente lesiva degli interessi dei residenti. Tra le varie affermazioni del Presidente Cannata, vale sicuramente la pena soffermarsi sulla sua idea di Parco come laboratorio e, nello specifico, “un laboratorio di sviluppo sostenibile…nel quale sperimentare le cose che si possono fare” e mettere a frutto le bellissime qualità del territorio. L’idea di Parco come laboratorio non piace affatto agli allevatori, soprattutto quando essi stessi sono oggi diventati le ‘cavie’ per la sperimentazione di norme, restrizioni e vincoli che stanno avendo un impatto estremamente serio sulla produttività delle loro aziende, mettendo a rischio la stabilità socio-economica di un intero territorio. Inoltre ci si è azzardati ad interferire negativamente sulle pratiche consuetudinarie di gestione dell’ambiente, praticate – con successo – da tempi immemorabili e che hanno permesso di mantenere in ottimo stato di conservazione il territorio del Parco. Tali attività tradizionali sono state soppiantate da metodologie e pratiche agro-silvo pastorali del tutto aliene e mai sperimentate. Ciò rischia di mettere a repentaglio la delicata stabilità ecologica degli habitat, invece di tutelarli; la responsabilità di tutto questo, secondo gli allevatori non può che essere attribuita unicamente all’Ente Parco.
Nulla di Fatto al Convegno: la Partita è ancora tutta da Giocare
Purtroppo il convegno si è concluso con una ‘fumata nera’ ed il tavolo di discussione non ha prodotto la lista di priorità tematiche che il mediatore Giuseppe Francazi, avrebbe voluto stilare per poi presentarle all’Ente Parco. Il motivo di questa ‘defiance‘ – a detta dei pastori – è stata la fuga dei rappresentanti del Parco dal tavolo di discussione, poiché il Presidente, e il suo staff, hanno abbandonato il Convegno al termine dell’ultima sessione diurna, lasciando la responsabilità di continuare il dialogo con gli allevatori ad un unico interlocutore: il Dott. Francazi. Così, in mancanza dei rappresentati del Parco, il Convegno, ha perso la sua aurea di ufficialità. Inoltre gli allevatori non hanno ritenuto opportuno essere trascinati dal Dott. Francazi nella discussioni di questioni minori, sebbene fondamentali, (impatto della VIncA, delle predazioni, etc.) volendo, invece, rimanere ancorati a una priorità percepita come irrinunciabile: la richiesta di rigetto del Piano del Parco. A questo riguardo, dice Morisi: “una cosa fondamentale è che, oggi, noi abbiamo capito che l’Ente Parco non ha rispettato la Legge Quadro sulle Aree Protette (394/91)…e, per questa carenza, l’intera procedura deve essere annullata“; se questo strumento di pianificazione territoriale dovesse, malauguratamente, essere approvato “noi ci troveremo nel nostro territorio con un unico padrone: l’Ente Parco” (https://vimeo.com/872829547?share=copy).
Così, con la scusa dell’urgenza di avere un piano, il Parco sta spingendo le altre istituzioni a dire di SI ad un progetto mancante di elementi essenziali e messo in itinere attraverso una procedura gravemente illegittima, che – di fatto – ha impedito e sta impedendo la partecipazione democratica delle parti interessate e dei vari portatori d’interesse. L’attuale Progetto di Piano da una parte descrive minuziosamente e definisce chiaramente i meccanismi di ‘un potere assoluto di fare e di disfare’, assegnandolo ai dirigenti e al personale dell’Ente (contro ogni legge e principio democratico) e, dall’altro canto, lascia volutamente il vuoto su molti aspetti che, invece, dovrebbero essere definiti a garanzia di tutte le parti. Con un’eventuale approvazione del Piano, i poteri dell’intero sistema gestionale e dirigenziale dell’Ente, sarebbero resi incontrollati e incontrollabili. Si costituirebbe, così, un’ inquietante enclave di ‘diritto alternativo’ a quello dello Stato italiano, all’interno del territorio del PNALM. Tutto questo, gli allevatori non vogliono assolutamente permetterlo.
In ultima analisi, il modello di conservazione che finora è stato promosso dal Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM) non ha più motivo di esistere. Tra l’altro, tale approccio ha dimostrato di non contenere misure efficaci per proteggere gli ecosistemi, per gestire efficacemente la fauna selvatica e per tutelare i diritti ed i mezzi di sussistenza di coloro, come pastori/allevatori, che ancora dipendono dalla terra. Come ormai dimostrano numerosi studi scientifici, coloro i quali praticano l’allevamento estensivo sono i migliori custodi dell’ambiente montano, ed esiste un legame diretto e vitale tra diversità culturale e biodiversità. Non è un caso che l’80 per cento della biodiversità del pianeta si trovi proprio nei territori abitati da comunità tradizionali.
Va ricordato che questa tipologia di persone (popolazioni indigene, pastori transumanti, etc.) non rappresenta che una percentuale bassissima rispetto al resto della popolazione mondale, eppure – con i loro servizi ecosistemici contribuiscono – in modo fondamentale – a tenere in vita un pianeta che appartiene a tutti. In Italia, come altrove, esiste un luogo comune, ovvero, quello di dire che ‘ognuno deve cedere un po’ del suo e fare la sua parte per salvare l’ambiente’. Ovvero l’impegno per prendersi cura degli ecosistemi dovrebbe essere equamente condiviso da tutti, e ‘spalmato’ sull’intera società civile. Allora viene naturale porsi una domanda: il cittadino comune, l’impiegato statale, il personale di un’organizzazione ambientalista, i rappresentanti del mondo rurale e coloro che praticano l’allevamento estensivo, stanno tutti dando lo stesso contributo per la salvaguardia delle nostre montagne? Decisamente, la risposta è NO. L’onere e la responsabilità di salvaguardare il territorio e il paesaggio naturale ricade, in una forma infinitamente più significativa, su coloro (es. pastori/allevatori) che ‘in’ e ‘con’ quel territorio ci vivono e lo custodiscono abitualmente da generazioni. E allora, al netto di tutto questo, cosa offrirebbe lo Stato Italiano, i Parchi e l’intero mondo ambientalista a queste categorie, per farsi carico della tutela di quelle aree isolate e marginali (es. territori pascolivi e praterie) del nostro paese? La risposta, purtroppo, si traduce nell’aumento incontrollato di una burocrazia opprimente e cavillosa, unitamente ad una lista infinita di restrizioni e limitazioni, sempre più vincolanti, che invece di garantire il delicato equilibrio tra salvaguardia ambientale e protezione delle pratiche di gestione tradizionali, lo alterano in modo irreversibile.
A queste punto, la battaglia degli allevatori non subirà cambiamenti di rotta, ne cederà ad alcun compromesso ed ammiccamento della politica. E’ chiaro che le questioni emerse durante il convegno dovranno essere presto portate all’attenzione dei più alti tavoli istituzionali. Il territorio del Parco deve ritornare ad essere un luogo in cui le persone che, per generazioni l’hanno abitato, possano sentirsi pienamente a casa loro, possano viverci e sfamarci le proprie famiglie e usare l’ambiente naturale come hanno fatto, responsabilmente, per secoli. I pastori, e coloro che praticano l’allevamento brado/semi-brado, non vivono soltanto ‘in montagna’, vivono ‘con la montagna’, ne conoscono profondamente la sua biologia, le sue caratteristiche intrinseche, mutamenti e trasformazioni. Continuare a negare questo immenso bagaglio di pratiche e conoscenze sostituendolo, invece, con la gestione scellerata di pseudo-esperti e tecnocrati dell’ambiente, non è soltanto una follia ma significherebbe accantonare una parte fondamentale del nostro stesso patrimonio culturale, un aspetto pregnante di quel retaggio storico di noi italiani. Bisogna, quindi, voltare pagina e ripensare radicalmente a nuove strategie e politiche di conservazione che siano rispettose dei diritti di uso civico e delle aspirazioni dei residenti. In questo contesto, l’opposizione ed il rigetto dell’attuale Piano del Parco non è un’opzione auspicabile, ma una necessità inderogabile.






