
(AGENPARL) – ven 22 settembre 2023 L’evoluzione dei business model bancari e l’attività di supervisione
Intervento di Luigi Federico Signorini
Direttore Generale della Banca d’Italia
Convegno ADEIMF
Firenze, 22 settembre 2023
Un sistema bancario capace di sviluppare una redditività adeguata e sostenibile è
necessario per assicurare la stabilità finanziaria e l’ordinato funzionamento dell’economia.
Banche redditizie hanno la possibilità di attrarre fondi, finanziare adeguatamente
le imprese, investire in innovazione, ampliare e migliorare i servizi resi alla clientela,
accumulare sufficienti buffer patrimoniali per fronteggiare shock inattesi.
Non vi è un solo modo di raggiungere l’obiettivo della redditività. Lo si può fare, anzi
è naturale che lo si faccia, con modelli di business differenti tra loro. In Italia, da anni, il
sistema bancario è caratterizzato da una significativa diversificazione. Accanto a un numero
ancora preponderante di intermediari dediti prevalentemente all’attività tradizionale, vi
sono banche specializzate in particolari forme di credito, nella gestione del risparmio,
nel recupero dei crediti deteriorati. Alle banche si affianca un gran numero di operatori
non bancari (ad esempio società di gestione del risparmio, istituti di pagamento, società
finanziarie), che ampliano e completano la struttura del sistema.
Questa “biodiversità”, che si accompagna a quella di ben più lunga data basata sulla
dimensione e la prossimità territoriale, è un punto di forza. Essa consente al sistema
finanziario di fornire un’ampia gamma di servizi e lo rende in grado di rispondere meglio
alle mutevoli condizioni macro-finanziarie, alle sfide del progresso tecnologico e della
transizione verso un’economia sostenibile, all’elevata incertezza che ha caratterizzato gli
ultimi decenni e ancor di più gli ultimi anni. Ma va ben gestita.
Spetta agli organismi aziendali identificare l’ambito di attività che meglio si adatta alla
vocazione della banca e al contesto di mercato. L’assetto del governo societario è molto
importante, perché deve mettere in grado gli intermediari di formulare strategie coerenti
e sensate. Per questo motivo, facendo leva su una regolamentazione che si è fatta negli
anni via via più stringente, la vigilanza attribuisce sempre maggiore importanza all’analisi
del funzionamento del governo societario. L’obiettivo è spingere le banche a dotarsi di
una governance che sia allo stesso tempo aperta all’innovazione, capace di formulare
strategie lungimiranti e attenta a presidiare adeguatamente i nuovi rischi non meno che
quelli vecchi. Gli approfondimenti che abbiamo condotto e stiamo conducendo presso le
banche mettono in evidenza significativi margini di miglioramento.
Una questione di rilievo tra le altre è la diversificazione dei consigli di amministrazione
per genere, età, competenze, ancora non del tutto soddisfacente. Non di rado è troppo
basso, in particolare, il numero di esponenti aziendali che dispongono di un’adeguata
esperienza in materia di nuove tecnologie, esperienza che è invece fondamentale per
ricercare, vagliare e adottare innovazioni di processo e di prodotto promettenti, e allo
stesso tempo presidiare in modo efficace i relativi rischi. Tornerò su questo punto fra
poco.
È chiaro che la consapevolezza e il presidio dei rischi restano cruciali anche per quanto
riguarda l’attività bancaria tradizionale. Debolezze del governo societario hanno
rappresentato una delle cause principali delle crisi bancarie degli ultimi anni, e non solo
in Italia. È naturale qui il riferimento agli episodi di crisi di banche regionali statunitensi
della scorsa primavera.
A questi ultimi hanno contribuito anche un’applicazione troppo estesa del principio di
proporzionalità nella normativa e una supervisione che, secondo la stessa Fed, “non
ha messo in atto un’azione sufficientemente energica”. Ma, per tornare al tema della
governance, la ricerca di redditività in un contesto di bassi tassi d’interesse aveva spinto
alcuni intermediari a sviluppare un modello di business troppo sbilanciato verso la
trasformazione delle scadenze, senza che fossero previsti presidi adeguati per mitigare i
relativi rischi; forse addirittura senza che i vertici societari ne se ne rendessero pienamente
conto.
Il rapido aumento dei tassi di interesse ha messo in luce la fragilità di questo approccio.
Lo shock si è propagato non solo e non tanto tramite le esposizioni dirette di altri
intermediari verso le banche colpite, ma soprattutto per “analogia”, cioè per il timore che
banche simili potessero presentare simili problemi. Alla fine il contagio è stato limitato,
anche grazie ad azioni delle autorità rapide e decise, benché ex post.
Il contagio ha coinvolto solo marginalmente le banche europee, incluse quelle italiane.
La legislazione bancaria dell’Unione, a differenza di quella statunitense, estende
gli standard prudenziali basati sugli accordi di Basilea anche alle banche di minore
dimensione. Combinandosi con prassi di supervisione spesso più intrusive, ciò ha
contribuito in questa occasione a mitigare i rischi e scongiurare in Europa lo scatenarsi
di un “contagio per analogia”.
La crisi di alcune banche regionali americane, nonché quella, pressoché contemporanea,
di Crédit Suisse, hanno sollecitato nuove riflessioni sull’adeguatezza degli standard
prudenziali e di risoluzione a livello globale. Sulle questioni attualmente in discussione
mi riservo di tornare con maggior dettaglio in una prossima occasione.
Le banche che svolgono principalmente l’attività di intermediazione tradizionale avevano
sofferto negli anni scorsi di una forte riduzione del margine di interesse legata al livello
eccezionalmente basso dei tassi. Nel 2022 e nei primi sei mesi di quest’anno il margine
d’interesse è notevolmente aumentato, più che compensando il calo degli altri ricavi.
L’adeguamento dei tassi sui prestiti è stato infatti più rapido di quello sui depositi.
È noto il vivace dibattito politico in merito, sul quale non entro. Mi limito a osservare
che in un mercato concorrenziale la divaricazione fra tassi attivi e passivi dovrebbe
avere aspetti transitori. La clientela sta in effetti cominciando a reagire all’inerzia dei
tassi sui depositi a vista spostando fondi su depositi a tempo o altre forme di impiego
del risparmio; le stesse banche, che fronteggiano l’invertirsi dell’espansione monetaria
degli ultimi anni e devono programmare per tempo le proprie fonti di funding, non
possono non porsi il problema di offrire ai risparmiatori prodotti competitivi.
L’abbondantissima liquidità parcheggiata nei depositi a vista in passato, quando il
costo-opportunità di detenerli era minimo, si sta riducendo, come era da attendersi.
L’ammontare di tali depositi è calato velocemente: nei dodici mesi intercorsi tra
l’inizio della fase restrittiva della politica monetaria e lo scorso giugno (ultimo mese
per cui sono disponibili i dati dei conti finanziari) essi sono diminuiti di oltre 100
miliardi (circa 60 quelli delle famiglie, più di 40 quelli delle imprese, con un calo
complessivo dell’8,7 per cento). Contestualmente sono aumentati i depositi a termine,
più remunerativi (circa 45 miliardi o 12,2 per cento), e le obbligazioni bancarie
sottoscritte da famiglie (circa 20 miliardi o 51,5 per cento). Si è fatta anche sentire la
concorrenza dei titoli di Stato, i cui acquisti netti da parte di famiglie e imprese nello
stesso periodo hanno superato i 110 miliardi.
La diminuzione complessiva dei depositi in conto corrente si è ulteriormente accentuata in
luglio (-11,7 per cento), mentre la crescita degli altri depositi ha continuato ad accelerare.
Il calo della raccolta a vista, unitamente alla restituzione dei fondi ottenuti dalla BCE
con le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, continuerà a richiedere
l’attenzione delle banche nei prossimi mesi. Abbiamo chiesto alle banche meno
significative, su cui vigiliamo direttamente, di aggiornare i piani di raccolta, già rilevati su
base sistematica dal Meccanismo di vigilanza unico per quelle significative. L’esercizio ha
consentito da un lato di innalzare il livello di consapevolezza degli intermediari riguardo
ai rischi prospettici, dall’altro di concordare eventuali azioni correttive dove necessario.
Questa raccolta di informazioni si collega a una ricognizione più generale sulla sostenibilità
dei modelli di business che la Banca d’Italia svolge ogni anno per le banche meno
significative, come fa il Meccanismo di vigilanza unico per quelle di maggiori dimensioni.
In questo periodo stiamo tra l’altro rivolgendo grande attenzione alla dinamica dei costi,
che stanno tornando ad aumentare a seguito dell’inflazione elevata e saranno influenzati
dal prossimo rinnovo contrattuale.
Torno da ultimo su un argomento dal quale non si può prescindere parlando di modelli
di business, e cioè l’effetto, o meglio gli effetti, del cambiamento tecnologico e delle
trasformazioni che esso impone al mercato dei servizi bancari (e alla gestione della
liquidità, come insegna il caso americano): le opportunità e i rischi, per usare la solita
frase, che tutto ciò comporta; le strategie con cui le banche pensano di cogliere le prime
e gestire i secondi. L’attenzione per questi aspetti non è certo nuova, ma si è via via
accresciuta negli ultimi anni.
Seppure con tempi e intensità diversi, le banche italiane, anche quelle minori, stanno
accelerando l’adozione delle nuove tecnologie e sperimentando innovazioni di prodotto
e di processo. Una spinta significativa proviene anche dalla crescente concorrenza di
operatori non bancari, anche non italiani, che non sono sottoposti a un regime di vigilanza
armonizzato europeo. Per le banche minori, inoltre, un forte incentivo alla digitalizzazione
è costituito dall’obiettivo di superare vincoli tecnici legati alle economie di scala.
Alcune banche hanno avviato partnership con operatori non bancari per offrire
prodotti tradizionali con modalità innovative. Esse generano economie di scala e di
scopo, potenzialmente anche a vantaggio della clientela, ma non sono esenti da rischi.
Le osserviamo con attenzione, specie nel caso dei servizi forniti da piattaforme in cui
vari soggetti, non sempre o non tutti sottoposti a vigilanza prudenziale, forniscono
in modo coordinato un pacchetto di servizi diversificati. Queste modalità accrescono
l’interconnessione tra il sistema bancario e gli operatori non bancari, erodendo i confini
tra soggetti più o meno regolamentati, rendendo potenzialmente di rilevanza sistemica
anche entità non necessariamente di grandi dimensioni e richiedendo al supervisore
molta cura nel definire l’applicazione del necessario principio di proporzionalità.
Anche l’affidamento all’esterno di funzioni operative è un fenomeno in crescita da anni.
I benefici economici di una simile scelta, specie per le banche di piccola dimensione, sono
spesso ovvi. Però non ci stanchiamo di ripetere, e di fare osservare nella concreta azione
di vigilanza, che questo processo deve essere gestito con oculatezza. La responsabilità
dell’attività bancaria resta sempre tutta in capo alla banca, anche per i servizi forniti da terzi,
molti dei quali sono del resto fuori dello stretto perimetro regolamentare. È importante
non solo mitigare in modo soddisfacente i rischi, in particolare quelli informatici, ma
anche conservare sempre il pieno controllo strategico dei processi.
Fermo restando il principio della responsabilità dei soggetti vigilati, l’entrata in vigore della
direttiva DORA consentirà ai supervisori di intensificare anche la propria attività diretta nei
confronti degli outsourcer, incluse le grandi società tecnologiche che forniscono servizi di
cloud computing. Sono in corso i lavori per la definizione della normativa secondaria, a cui
la Banca d’Italia partecipa attivamente, sfruttando l’esperienza e la riflessione degli ultimi
anni. L’applicazione di DORA consentirà tra l’altro di presidiare meglio i rischi sistemici, in
crescita, legati alla presenza di operatori-chiave che forniscono servizi a un gran numero
di istituzioni.
Quando si parla di innovazione, la possibilità dell’insuccesso è sempre presente. Non tutte
le iniziative adottate fino ad ora hanno avuto buon esito. Entro limiti fisiologici questo
è normale. La nostra esperienza però fa emergere un chiaro fatto, del resto tutt’altro
che sorprendente: le probabilità di insuccesso sono minori se gli organi aziendali (non
solo le funzioni tecniche, ma anche gli organi di governo) possiedono le competenze
necessarie per comprendere il fenomeno della digitalizzazione in tutte le sue dimensioni,
dalle routine operative alla tutela della clientela, alla gestione dei rischi, al controllo del
riciclaggio, alla profittabilità. In altre parole, se essi dispongono al proprio interno di
professionalità che li mettano in grado di valutare compiutamente e con cognizione
di causa il riflesso delle scelte di innovazione tecnologica sulle prospettive strategiche
dell’impresa. Le banche si stanno muovendo nella direzione di un rafforzamento di
queste capacità, anche su impulso della vigilanza. Ma è un processo ancora in corso, a
velocità differenziate e con diversi gradi di consapevolezza; in molti casi dovrà accelerare.
In generale, la Banca d’Italia continua a seguire attentamente gli sviluppi della tecnologia
applicata al sistema bancario e agli altri intermediari e operatori finanziari. Interveniamo
dove opportuno con gli strumenti disponibili, tra l’altro conducendo ispezioni anche sui
principali fornitori di servizi informatici alle banche, e coordinando la nostra azione con
le altre autorità di supervisione.
Mantenendo alta l’attenzione al presidio dei rischi, ci siamo posti anche con chiarezza
l’obiettivo di accompagnare l’innovazione in modo attivo, tra l’altro con il “Canale Fintech”
e il nostro hub tecnologico di Milano, dove si sperimentano innovazioni proposte dagli
operatori e accuratamente selezionate, nonché con il sandbox gestito in collaborazione
con le altre autorità. Il tutto senza distogliere l’attenzione dai profili prudenziali: dalla
stabilità delle banche, del sistema nel suo complesso.
Ringrazio Marcello Bofondi per avermi assistito nella preparazione di questo intervento, nonché Francesco
Cannata, Giovanni Sala e Giuseppe Siani per commenti e contributi.