
(AGENPARL) – mar 05 dicembre 2023 Gli enigmi di Turandot, opera sui misteri
della morte e dell?amore
Conversazione con Vasily Barkhatov
a cura di Dinko Fabris
Vasily Barkhatov è alla sua prima
esperienza di lavoro in un teatro italiano,
ma è giunto a Napoli accompagnato dalla
sua crescente fama europea come uno dei
più interessanti e richiesti registi della sua
generazione. Il dialogo è partito dalle origini
della sua carriera, quand?era ancora
studente a Mosca.
Quando e come è iniziato il suo rapporto
con l?opera in musica?
Come succedeva per tutti i ragazzi in
Russia nell?era sovietica, una volta i miei
genitori ebbero un biglietto per vedere
un?opera al teatro del Cremlino. Era prima
della caduta del muro di Berlino ed ero
troppo piccolo perché questo spettacolo
– doveva essere un Onegin o un?altra opera
simile, allestita sicuramente “all?antica” con
le scene dipinte ecc. – potesse avere un
impatto sulle mie decisioni future.
Sicuramente non fu la rivelazione per me.
Più tardi ho visto diverse opere, per
esempio ricordo Il principe Igor al Bol?šoj,
anche perché sono cresciuto in una
famiglia colta e intelligente, e di tanto in
tanto andavamo all?opera. Ho perfino
ricevuto una educazione musicale a scuola,
che mi sarebbe servita in seguito nella
professione. Ma non ero certo un fan
Teatro di San Carlo I 037
dell?opera in musica: il mio sogno era
diventare un programmatore di computer.
Mio padre, uno scrittore e giornalista, non
mi ha mai pressato a fare qualsiasi cosa
ma mi offriva opportunità di scoprire le arti
e la cultura e un giorno mi ha proposto di
incontrare la professoressa dell?Istituto
Russo delle Arti Teatrali. Fu una
folgorazione, perché lei era davvero una
persona straordinaria, a suo modo aveva
rivoluzionato l?Istituto accogliendo talenti
che lei stessa scopriva. Ricordo che a
quell?epoca se si voleva intraprendere con
successo una carriera di regista non
bastava il titolo, ma bisognava dimostrare
di lavorare già e questo portava ad una
gavetta molto lunga. Grazie alla mia
insegnante, invece, a me ed altri fortunati è
stato concesso di entrare nella scuola e di
lavorare anche senza esperienza
pregressa. Fu lei a scegliermi, per istinto.
E quando ha cominciato l?esperienza di
regista all?estero?
La mia prima produzione fuori dalla Russia
fu a Vilnius, alla Lithuanian National Opera:
un Evgenij Onegin nel 2012 (una
produzione che è stata poi ripresa molte
volte). Nel centro Europa il mio primo
lavoro fu a Mannheim, La damnation de
Faust. Questo avveniva undici anni fa e fu
la prima occasione in cui conobbi Dan
Ettinger, che allora dirigeva l?orchestra di
quel teatro e col quale cominciammo a
lavorare sul progetto di una Salome da
creare insieme. Poi fu cambiato quel
progetto e scelta l?opera di Berlioz, ma la
misi in scena con un altro direttore e
abbiamo dovuto attendere fino ad oggi per
lavorare insieme finalmente a Napoli.
Vi sono tanti titoli di opere russe ed europee,
anche contemporanee, nella sua carriera
038 I Teatro di San Carlo
successiva. E l?opera italiana? Sappiamo
che ha diretto un Simon Boccanegra…
Sì, l?opera di Verdi era per la Deutsche
Oper di Berlino. Ma ho curato la regia
anche per Puccini, per esempio La fanciulla
del West all?Opera di Stato Ungherese di
Budapest. Ma prima ancora Madama
Butterfly per il teatro di Basilea in Svizzera.
In quel caso ho lavorato molto sulla
drammaturgia. Ho voluto recuperare per
esempio materiali della prima versione, per
caratterizzare meglio il personaggio di
Pinkerton.
Immagino sia stato utile lavorare su
Butterfly prima di Turandot, per gli elementi
che legano queste opere, per esempio
l?esotismo.
E non solo queste due. Possiamo
considerare anche Siberia di Umberto
Giordano (di cui ho curato la regia nel 2022
al Bregenzer Festspiele), che fu
rappresentata alla Scala per la prima volta
nel 1903 al posto di Butterfly che Puccini
non aveva fatto in tempo a completare, e fu
quindi scelto un soggetto considerato
analogamente esotico di un compositore
allora molto quotato. Infatti il cast che
interpretò Siberia era lo stesso già
predisposto per Butterfly. Per quei tempi la
Siberia era probabilmente altrettanto
esotica del Giappone per il pubblico
italiano.
Ma Turandot non è soltanto un?opera di
ambientazione esotica, è una fiaba e come
tale impone un registro drammaturgico
particolare.
Nella sua ultima opera Puccini lasciò da
parte ogni esperienza che aveva già
compiuto nelle sue opere precedenti, come
se avesse voluto dire: “Bene, da questo
momento non sono più Puccini ma un altro
compositore, non so, Debussy o decidete voi
chi”; volle rinunciare alle regole e agli schemi
che oggi definiremmo “cinematografici” delle
opere che aveva composto fino ad allora per
aprirsi al simbolismo o alle altre avanguardie
europee.
Dalla porta dell?esotismo e della originalità,
eccoci dunque entrati nell?argomento
principale della sua regia al Teatro di San
Carlo. Aveva visto in precedenza altre
produzioni di Turandot, almeno come
pubblico, e che idea si era fatto?
Ho visto naturalmente molte messe in
scena di Turandot : è un?opera molto
eseguita, nelle maniere più diverse, e che
prende molto la nostra fantasia. Alcune
produzioni a volte sono divertenti, e devo
dire che ho pensato, all?uscita da quegli
spettacoli, a che cosa avrei potuto fare di
molto diverso per un?opera che amavo ma
forse non era ancora il momento giusto. Poi
è successa una cosa davvero buffa:
qualche tempo fa avevo visto un?ennesima
produzione di Turandot e la mattina dopo
stavo camminando per strada, pensando
che mi sarebbe piaciuto proporne
un?interpretazione diversa, basata
sull?umanità di questa storia, e proprio lo
stesso giorno ho ricevuto una telefonata di
Stéphane Lissner che mi proponeva la
regia di una Turandot a Napoli. Era il segno
che aspettavo e naturalmente ho accettato.
Che cosa ci può dire della sua idea
drammaturgica per lo spettacolo di Napoli,
che parte appunto dal presupposto della
“umanità” in Turandot.
Parto dalla fine. Volevo preservare la
bellezza del trionfo finale dell?amore che
sembra un “super Happy End”, un
concentrato di tutti i lieto-fine della storia
dell?opera. Certo non sappiamo quale fosse
l?intenzione reale di Puccini, perché morì
prima di completare il finale e molti
criticano la parte scritta da Alfano
contestando, senza poterlo documentare,
che Puccini probabilmente non avrebbe
voluto il lieto-fine. Io trovo due elementi
contro questa ipotesi: prima di tutto che
questa non è un?opera come tutte le
precedenti nella concezione pucciniana ma
qualcosa di nuovo; e poi ovviamente che lui
comunque non poté scrivere la fine, per cui
non conosceremo mai la sua reale volontà.
Ma certamente è molto complicato per un
regista prendere una decisione, senza
esaminare tutto il contesto. Per me è molto
rilevante che ci fosse un precedente, il
lieto-fine a sorpresa della Fanciulla del
West, quasi come un musical (o un futuro
film hollywoodiano). Dunque ero fin dal
principio orientato a salvare questo finale
ottimistico.
La mia seconda considerazione era
l?importanza di attribuire un maggiore valore
umano ai due protagonisti. Nel tempo infatti
Calaf e Turandot si sono trasformati in nomi
simbolici conosciuti da tutti, proprio come
Romeo e Giulietta, Otello e Desdemona,
ma di cui non conoscevamo l?intima
umanità. Volevo offrire più livelli, a loro e
alla storia, con ulteriori sottotesti e contesti,
ma allo stesso tempo conservare il
carattere originario, la bellezza della fiaba.
Carlo Gozzi, l?autore settecentesco di
questo racconto, non era mai stato in Cina
ma seguiva una moda del suo secolo.
Anche Puccini volle fare ricerche sul
contesto orientale in cui ambientare la sua
opera. Ma nel tempo questa ambientazione
ha creato una incrostazione per cui il rosso
e l?oro delle decorazioni “cinesi” ha finito col
prevalere su tutto il resto e a riprodurre
sempre la stessa Turandot. Un effetto simile
a quello che fa entrare in un negozio di
Teatro di San Carlo I 039
televisori, in cui si può passare da uno
schermo all?altro, anche molto diversi per
LCD e qualità di definizione, e fare zapping
tra centinaia di concerti pop, tutti diversi e
con sfarzo di effetti scenografici, ma alla
fine ci sembrerà di vedere lo stesso
programma senza alcuna differenza. Lo
stesso è avvenuto secondo me per
Turandot. A volte una buona tradizione si
trasforma in un cattivo cliché: pensiamo a
tutte le sovrapposizioni intervenute nel
corso del Novecento sul repertorio d?opera
precedente, con libertà dei cantanti
divenute regole, e cose del genere. Non
dico che un?imponente e colorata
scenografia “cinese” per Turandot non
possa essere adottata ancora con gusto e
piacere, tutt?altro. Ma il rischio è che questi
allestimenti sfarzosi nascondano la realtà
della storia raccontata e l?umanità dei
protagonisti. Lo stesso si può dire per
Butterfly, che non è certo un?opera sulla
cultura o l?architettura giapponese. Tutto
questo per dire come sono arrivato a
decidere di evitare il cliché della tradizionale
impostazione scenica “cinese”, ma senza
proporre un?alternativa troppo minimalistica
e asettica. Volevo mantenere la bellezza
estetica della fiaba ma usando un diverso
registro di fantasia, ambientandola in un
mondo fantasmagorico. Ci ho pensato per
più di un anno, almeno nella linea generale,
su come affrontare la storia umana di Calaf
e Turandot.
Qual è dunque la versione della storia di
Turandot e Calaf che propone in questo
spettacolo?
Fondamentalmente si tratta di una storia
meravigliosa che racconta di come potrà
essere salvato l?amore di Calaf e Turandot.
Vista la mia origine, ho pensato
immediatamente alla somiglianza con
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un?altra storia operistica, quella di Ruslan e
Ljudmila1. Proprio all?inizio di quell?opera,
Ljudmila viene rapita il giorno delle nozze e
Ruslan deve combattere e affrontare sfide
e pericoli di ogni tipo per riportare a casa
sua moglie. Allo stesso modo, Calaf deve
affrontare la sua sfida mortale per
conquistare Turandot ed ogni psicologo
potrebbe ricondurre questo schema
elementare alla legge universale dell?amore
per cui ogni uomo deve affrontare il suo
combattimento rituale per conquistare il suo
amore, magari soltanto a livello di
subconscio. Per portare l?attenzione su
questo livello dell?amore dei due
protagonisti, che devono combattere per
preservarlo, ho inserito all?inizio un prologo
all?opera in forma di breve film, in cui ho
immaginato questo: Calaf e Turandot sono
già una coppia, vivono insieme. Si ritrovano
con altre persone al funerale del padre di
Calaf, Timur (abbiamo girato questa scena
nella splendida chiesa di San Lorenzo
Maggiore a Napoli). Si rimettono in auto
dopo il funerale e scoppia una lite, dalla
quale si capisce che Turandot non aveva
un buon rapporto con Timur, ma anche che
lei ha un problema non risolto con gli
uomini, per via della violenza subita
dall?antenata (Lo-u-ling), tanto che
Turandot non vuole più sposarsi per paura
di diventare anche lei una vittima della
violenza maschile. Ovviamente questa
conversazione utilizza le parti che più tardi
nell?opera saranno meravigliosamente
cantate su quegli stessi argomenti. L?altro
motivo di scontro tra i due è la morte di Liù,
precedente fidanzata di Calaf che lui ha
abbandonato per Turandot, per cui la
ragazza si è uccisa tagliandosi le vene.
Dunque la coppia è entrata in crisi profonda
tanto da essere sul punto di separarsi,
quando si vede improvvisamente la luce
accecante dei fari di un camion di fronte
alla vettura e si sente il rumore di un
terribile incidente.
A questo punto si apre il sipario che
mostra, sulla scena, i resti della macchina
incidentata, Turandot illesa e il personale di
una ambulanza che cerca di intervenire sul
corpo terribilmente ferito di Calaf. Ma il
pubblico vede Calaf aggirarsi sulla scena
senza riuscire a capire perché il suo corpo
è lì per terra e perché Turandot non lo
vede. Pian piano si rende conto di essere
nella tipica situazione intermedia tra la vita
e la morte, in attesa che qualcosa accada.
A questo punto appare una equipe medica
che tenta in una sala operatoria di
intervenire sul corpo di Calaf, entrato in
coma, mentre lui fissa la sua memoria sulla
chiesa dove era appena avvenuto il
funerale del padre. In questo punto sono
stato evidentemente influenzato da un
momento chiave verso la fine di Nostalghia,
il film capolavoro di Andrej Tarkovskij, in cui
si vede una chiesa in rovina e al centro una
casa russa.
A questo punto il coma provoca una visione
distorta della realtà da parte di Calaf, che si
ritrova in uno strano luogo con personaggi
surreali come in un sogno. Mentre la
musica di Puccini inizia la vera e propria
opera, Calaf riconosce tra i personaggi per
lui sconosciuti il viso famigliare di suo
padre, che aveva seppellito poche ore
prima, e poi anche Liù, già morta da tempo
e per un attimo si crede anch?egli morto.
Ma in quel momento vede come una realtà
parallela quello che sta succedendo al suo
corpo in coma, con i medici affannati a
cercare di salvarlo, e capisce di trovarsi in
una situazione intermedia tra un universo e
l?altro. È come un?altalena per lui, perché
Timur e Liù lo spingono a non combattere
più e ad accettare la sua fine, per andare
con loro nell?altra dimensione della pace e
serenità, ma Calaf decide di vivere e di
combattere per ritrovare il suo amore,
Turandot. Naturalmente vi sono tante
situazioni intermedie e tutto quello che lui
vede nella stanza operatoria si trasforma
nel mondo parallelo del coma in una nuova
realtà distorta: per esempio i tre medici con
le mascherine diventano i ministri Ping,
Pang e Pong e la lampada chirurgica si
trasforma nella luna nel cielo di Pechino.
Questi personaggi parlano di tortura, di
morte, e pronunciano la frase che per il mio
spettacolo è una chiave fondamentale:
“Turandot non esiste!”, tentando di
scacciarlo da quel luogo come se volessero
rimandarlo nella vita vera, essendo quello
solo un miraggio, una fiaba, il nulla. Quindi
tutto il primo Atto è visto dalla prospettiva di
Calaf che lotta per restare in vita, e così
vivere accanto al suo amore Turandot, che
nel frattempo si vede lottare a sua volta,
pressando i medici per salvarlo perché non
vuole perderlo: quindi due persone sull?orlo
del divorzio, si accorgono di non voler
perdere la persona amata. Succede come
sempre nella vita – e come nella celebre
frase di Puškin in Evgenij Onegin -: non ci
curiamo mai di quel che abbiamo, se non
quando lo perdiamo.
E che cosa succede nel secondo Atto,
quando finalmente Calaf e Turandot
s?incontrano?
Nel secondo Atto succede una cosa strana,
prima della scena degli enigmi: Puccini
utilizza la stessa musica dell?inizio
dell?opera, con le stesse parole del
Mandarino: “Popolo di Pechino! La legge è
questa…”, come se stesse ricominciando
tutto. E in quel preciso momento il nostro
spettacolo torna alla scena iniziale
dell?incidente, con i fari che abbagliano e il
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rumore. Tutto come prima ma questa volta
Calaf è illeso ed è Turandot che si aggira,
mentre il suo corpo combatte tra la vita e la
morte. Poi la sala operatoria con i medici
che tentano di salvare lei questa volta.
Un meccanismo di “sliding doors”, una
seconda possibilità…
Esatto, questa volta la prospettiva è quella
di Turandot che lotta per sopravvivere e per
restare con Calaf. Risentendo in quel punto
del secondo Atto la stessa musica e le
stesse parole, mi sono detto: perché
Puccini ha voluto questa ripetizione?
Questa volta succedono cose diverse e più
rapidamente. Si risente ad esempio
Turandot cantare quell?episodio della
violenza su sua nonna (nel libretto una sua
antenata) che aveva ricordato a parole nel
video. Il secondo Atto è suo, è il sogno di
Turandot tra la morte e la vita. Ho voluto
che Turandot indossasse non un bellissimo
costume da principessa, ma un?armatura,
come Giovanna d?Arco, impenetrabile agli
uomini. Allo stesso tempo, la scena degli
enigmi è fortemente influenzata nei suoi
esiti da quel che succede nella sala
operatoria. Turandot usa tutte le strategie
per aiutare Calaf a rispondere
correttamente agli indovinelli. Per
rispondere al primo enigma gli basta
osservare che cosa muove tutti i medici, gli
operatori e i parenti a impegnarsi nel
tentativo di salvare la Turandot umana in
coma: “la speranza!”. Per il secondo guarda
Liù nell?atto di tagliarsi le vene e la risposta
è immediata: “il sangue!”. Ma il terzo
enigma è il mio preferito, ed è già chiaro in
Puccini: la principessa va verso Calaf, “si
china sul principe”, sembra quasi offrirgli la
risposta toccandolo con il suo corpo. Poi,
cosa che non aveva fatto nei due enigmi
precedenti, ripete la domanda, come per
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aiutarlo. Nella mia interpretazione, lei non
vuole perderlo, per non perdere se stessa.
E infine nel terzo Atto Calaf deve risolvere
quel che è in sospeso: incontra il padre con
Liù e fa in modo di lasciarli andare oltre.
Questo è anche il punto dove la partitura
restò interrotta per la morte di Puccini.
Anche questo elemento, la morte del suo
autore, si aggiunge al plot dell?opera, che è
un racconto di vita e di morte, tra la vita e la
morte. Calaf è scosso dalle ultime parole di
Liù e il padre Timur lo tocca, sembra per un
momento che stia per decidere di non
combattere più. Di abbandonarsi al destino
e seguire loro due: si vedono le due barche
di Timur e di Liù che passano, e poi una
terza barca, la sua, ma è vuota.
Ancora “sliding doors”, una terza possibilità.
Sì, lui potrebbe morire, ma sappiamo come
prosegue e finisce la partitura completata, il
duetto d?amore e il lieto-fine. Loro escono
dalla porta posteriore verso non si sa che
cosa, un non luogo, e mentre il coro intona
il finale, la sala resta vuota e riparte il film,
con la scena delle luci accecanti del
camion prima dell?incidente. Ma questa
volta non succede nulla, l?auto si ferma e
tutti sono salvi. Tutto quel che i due
protagonisti avevano vissuto nella
fantasmagorica visione del mondo parallelo
era stato un sogno della durata di un
istante, il tempo tra l?arrivo delle luci e la
loro fermata. Hanno immaginato tutte le
conseguenze di un incidente che non c?è
mai stato. Si guardano l?un l?altro, si
abbracciano e realizzano che vogliono
vivere il loro amore, non ha senso litigare e
combattere tra loro. Questa è la mia visione
ottimistica di come può finire la loro storia.
È importante l?uso del film, come vicenda di
un mondo parallelo, in questa Turandot
basata sull?amore umanizzato di Calaf e
Turandot, che ricorda i protagonisti del suo
primo film, Atomic Ivan girato in Russia
undici anni fa, nel 2012, basato sull?amore
di Ivan e Tania. E invece a Napoli, in
questa sua prima visita, ha trovato qualche
fonte di ispirazione per suoi lavori futuri?
Sono arrivato per la prima volta a Napoli
dopo aver letto da poco La pelle di Curzio
Malaparte. È una storia molto forte, che
parla di guerra e di persone oltre che della
città. E in qualche modo è come la nostra
Turandot : vi sono cose terribili che
accadono che diventano meravigliose e
teatrali, oppure cose terribili che sono al
limite tra la bellezza teatrale e il kitsch. La
pelle è stata quindi la mia prima esperienza
di quel che avrei potuto trovare a Napoli,
tra il tragico e il meraviglioso. So che non a
tutti piace questo libro, ma sicuramente è
stato scritto con grande amore. Non ho mai
visto il film che ne ha ricavato Liliana
Cavani, ma mi piacerebbe se un giorno si
potesse scrivere un?opera in musica tratta
da questo libro. E mi sembra davvero
possibile perché ho trovato nel romanzo
tante parti molto teatrali. A volte la
grandezza di uno scrittore è riuscire a
passare in un secondo, da cose divertenti o
anche stupide, a questioni importanti,
perfino spirituali.
1] Ruslan e Ljudmila è considerato uno dei primi capolavori russi, opera di ambientazione medievale
composta da Michail Ivanovi? Glinka su libretto tratto da un testo di Puškin, rappresentata per la
prima volta nel 1842 a San Pietroburgo.
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