
(AGENPARL) – mar 05 dicembre 2023 ASSEMBLEA PUBBLICA CONFIMI INDUSTRIA
05.DICEMBRE.2023
LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE PAOLO AGNELLI
Gentile Vicepresidente e Ministro delle Infrastrutture,
Gentile Ministro delle Imprese e del Made in Italy,
Egregi e gentili onorevoli, autorità tutte,
Colleghe e Colleghi, Gentili ospiti tutti:
desidero innanzitutto rivolgere il più caloroso benvenuto a tutti voi.
Quella di cui parleremo oggi è una lunga storia di dedizione e di amore per l’Italia. La storia degli imprenditori italiani che hanno costruito un marchio comune, il made in Italy.
Un amore non sempre corrisposto dalla narrazione pubblica e dalle risorse economiche allocate.
E in continuità con quanto fatto lo scorso anno parlando di biodiversità industriale, di pluralità di settori, di produzioni, di peculiarità manifatturiere, abbiamo deciso di esprimere qui oggi le nostre osservazioni sullo stato di salute dell’economia.
Ma non attraverso il PNRR o la Manovra di bilancio, per quello abbiamo avuto il piacere e l’onore di esprimerci nelle sedi opportune.
Tutte le 45 mila imprese della Confederazione che ho il privilegio di presiedere, si riconoscono e si prendono cura di quella bandiera tricolore simbolo di sacrificio, libertà e uguaglianza.
Ma chi si prende cura di loro?
La manifattura è il cuore di un sistema produttivo che ha reso la nostra economia una delle più apprezzate al mondo, ma oggi più di qualcuno sembra essersene dimenticato.
Senza dilungarmi troppo, vorrei portare alla vostra attenzione alcuni inequivocabili numeri.
Le nostre imprese hanno un carico fiscale e contributivo del 59,1%.
La media europea è al 38,9%.
Non lo dice Confimi Industria. Lo dice il Report sulla tassazione della Banca Mondiale.
I nostri imprenditori pagano il 27,9% sugli utili. La media europea è al 21,2%. Non lo dice Paolo Agnelli, lo dice l’Eurostat.
Le PMI pagano l’energia 0,16 centesimi al kwh e il 42,5% di questo costo sono imposte e accise. Le PMI europee, infatti, affrontano un costo medio di 0,12 centesimi al kwh. A renderlo noto è l’Unione Europea.
Per via di tutti gli adempimenti fiscali a cui sono soggette, le nostre imprese dedicano 30 giorni alla burocrazia.
Il tempo medio per ricevere il solo permesso o autorizzazione per l’avvio di siti produttivi varia da 6 a 12 mesi. In Francia e in Germania ci vogliono 4 ore per dare vita a una nuova azienda.
Discorso di maggior riguardo meritano i salari.
La paga media oraria in Germania è di euro 9,60, in Francia è di euro 10,25, in Spagna di euro 5,20, in Polonia di 9 zloty, poco più di 2 euro. In Italia, 7,50€
Ma se prendiamo i salari dell’industria italiana non sono bassi, come spesso si dice. Bensì in linea con le altre manifatture europee.
Se l’economia generale del nostro paese registra però numeri più bassi, con una crescita del solo 7% negli ultimi anni, lo si deve alle paghe della pubblica amministrazione e del settore dei servizi che abbassano la media.
Nessuno dice invece che a fronte dei 300 miliardi di salari lordi riconosciuti del settore privato, 180 miliardi finiscono nelle casse dello stato.
Il reale cuneo fiscale e contributivo nel settore privato è pari a 60%. La media OCSE? Arriva solo 46,5%
Purtroppo, nel dibattito pubblico questo virtuosismo non ci viene riconosciuto.
Nel commento generale, infatti, non si distingue tra i settori in cui sfruttamento del lavoro e lavoro nero sono largamente diffusi.
Nel settore dell’industria e in particolare della manifattura, il senso di responsabilità sociale, la contrattazione e il rapporto con i sindacati, nonché il legame con i collaboratori e il territorio sono tali da contenere e contrastare questi gravi fenomeni.
A tanta disparità competitiva, come se non bastasse, si sono aggiunti i tassi della BCE.
Decuplicati in appena 12 mesi.
Pensati per combattere l’ondata inflattiva si sono piuttosto dimostrati un rallentamento dell’economia. Come noi di Confimi avevamo previsto.
Nel 2023 il costo del denaro ha sostituito nel conto economico delle imprese quello che nel 2022 era il costo dell’energia.
Di certo in Europa non è così dappertutto. Al netto dello spread che incide sul costo del denaro di ogni singolo paese, ci sono poi alcune economie concorrenti che hanno ancora una propria moneta.
È il caso della Bulgaria che ha un tasso del 3,5%, della Cechia e della Romania che viaggiano al 7%, dell’Ungheria che registra perfino un 13%, della Polonia la cui banca centrale ha mantenuto il tasso a 6,75%,
Decisamente inferiori invece economie come la Svezia che ha un tasso base al 3,75% o della Danimarca, il cui costo del denaro è al 2,6%.
Perché è giusto sottolinearlo. I nostri principali competitor sono proprio i mercati europei. Sono molti i paesi dell’eurozona in cui fare impresa è nettamente meno costoso e più conveniente per via della moneta, dell’energia, della tassazione.
Ci domandiamo quindi, c’è ancora spazio per le imprese in Italia?
La domanda è ancora più legittima e assume più forza se accostata ai tanti provvedimenti che nel recente passato hanno visto misure come il “salve banche”.
Provvedimenti benedetti dalla finanza europea, che non ha certo interessi convergenti con l’industria.
Le fusioni o, meglio, gli accorpamenti tra banche ci hanno tolto persino la facoltà di scelta, altro che liberalismo e libero mercato.
Oggi abbiamo 3 grandi gruppi a cui rivolgerci, ma ancora per poco perché hanno iniziato a disfare anche le BCC.
A questo dobbiamo aggiungere il cambio di “oggetto sociale”: fare credito solo a chi ha grandi garanzie. In pratica si limitano a scontare garanzie.
Altro che sviluppo delle startup o dell’aiutare le imprese che ne hanno bisogno o finanziare le idee o i progetti.
I risultati? Splendidi! Banche risanate, utili esagerati, risultati storici.
Ma ai danni di chi?
A spese di chi?
Ma vi siete mai chiesti perché un salva banche? Perché uno spalma debiti per le società calcistiche? E mai un salva imprese?
Vero che le multinazionali si finanziano con i redditi che producono e le tasse che non versano per gli ormai meccanismi leciti di elusione geo politica europea.
Ma le micro, piccole e medie imprese versano il 52% dei propri redditi al fisco al quale si aggiunge un giochino conosciuto solo dagli addetti ai lavori: i costi indeducibili che, come tali, non detraggono l’utile ma risultano di conseguenza tassabili e che in media hanno un’incidenza intorno al 7/8% portando il totale delle imposte a circa il 59/60%
Tanto?? Vero??
Ma non è finita qui. Se volete togliere quel 40% rimasto dall’azienda come dividendi dovete pagare un ulteriore 26%. Avete così prodotto 100 per avere 30.
I nostri complimenti vanno a chi non vede tutto questo ma si chiede perché le aziende italiane si fanno comperare.
Si chiedono perché le aziende non investono in Italia.
Si chiedono perché molte multinazionali se ne vanno. Si chiedono perché qualcuno opera nel sommerso.
E perché non fare quindi un “salva imprese”? Quel provvedimento utile a salvaguardare quella parte del comparto produttivo che genera il 73,8% del PIL?
Allargando lo sguardo, ci si chiede ancora: c’è spazio per la piccola e media industria italiana in Europa?
L’Italia si trova di fronte a un bivio: salvare le industrie e le famiglie italiane o accontentare l’Europa che c’è a fasi alterne e che predilige gli interessi di qualche singolo paese o di qualche singolo potentato magari finanziario?
Di certo una scelta non facile, vista la spada di Damocle che campeggia sulla nostra testa: l’uso dell’innalzamento dello spread da parte della finanza europea per farci fare ciò che vogliono.
Poche settimane fa Moody’s ha voluto salvare i nostri titoli dal bidone della spazzatura, che però mi suona come un “o fai quello che ti diciamo o finisci lì in un attimo”.
Uno Stato, così come una azienda, non può abbassare il proprio debito se non fattura, e non fattura se non vende, e non vende se non è competitivo, e non è competitivo se non può spendere in aiuti come i nostri competitor europei che fanno quello che vogliono senza che nessuno se ne lamenti.
Come nel caso di Germania e Francia che hanno deciso di aiutare le rispettive industrie nel contrasto al caro-energia a suon di decine di miliardi di euro. Energy Release lo chiamano.
Pertanto, è impensabile poi oggi un rinnovo del patto di stabilità nel segno dell’austerity come prospettato da Bruxelles.
Le aziende italiane – come avete sentito – sono già subissate dalla tassazione più alta d’Europa, dalla decuplicazione del costo del denaro, dai costi del gas e dell’energia elettrica, dal costo del lavoro che per alcuni settori come la meccanica ha incrementato gli stipendi andando già a farsi carico dell’adeguamento inflattivo.
Si, nessuno lo dice ma tutte le associazioni della metalmeccanica, ovviamente Confimi compresa, hanno rinnovato i loro contratti aumentando le retribuzioni, adeguandole all’indice europeo dei prezzi al consumo (IPCA).
Ingessare tutti di nuovo con il rinnovo del patto di stabilità, vuol dire per l’azienda Italia affossare l’unica fonte di produzione del proprio PIL sposando una formula di austerità che non opera distinzioni tra Paese e Paese.
L’austerità senza distinguo rischia di demolire l’economia del nostro paese.
Chissà se ci si è accorti del cosiddetto “fenomeno USA”?
Le imprese guardano con sempre più interesse agli Stati Uniti come nuova frontiera per nuovi siti produttivi e/o delocalizzare.
Nel mentre, faremmo felici i fondi di investimento che da anni sono a caccia delle aziende italiane. Le acquistano, le spogliano della produzione e mantengono il marchio “Made in Italy” che sempre più sarà svuotato del suo significato.
Ne rimarrà solo il suono, l’italian sounding come da anni avviene per il comparto alimentare.
Parlo al futuro perché da industriale sono ottimista per definizione.
Ma il massacro è avviato da tempo. Basta elencare i 147 tavoli di crisi aperti al Ministero delle Imprese. Si tratta per la quasi totalità di grandi aziende in mano ai fondi che, oltre a “scippare” il nostro brand comune, usano i dipendenti come merce di scambio per ottenere facilitazioni di ogni sorta.
Se ci penso mi vengono in mente le industrie di mio nonno, quelle che hanno fatto l’Italia, e quelle di mio padre e scusate ma anche ciò che ho fatto io in 50 anni di attività.
I sacrifici che tutti noi abbiamo fatto per le aziende che abbiamo creato.
Ma oggi siamo senza identità, senza nazionalità, senza protezione, con mani e piedi legati a giocare una partita impossibile.
Solo una reazione coraggiosa, forte, dignitosa, che dica basta a questo ricatto, a questa ipocrisia può essere capace di salvare 6 milioni di imprese, le loro famiglie e le famiglie dei lavoratori che vivono al nostro fianco.
Non è più tempo di accettare qualsiasi diktat arrivi da Bruxelles.
Se parliamo oggi di Europa non è perché abbiamo dubbi o perplessità su questa Comunità, piuttosto nutriamo il timore che l’Unione Europea non riesca, o non voglia, costruire una strategia né politica né industriale comune.
Di fronte alla pandemia, l’Unione Europea ci stupì tutti. Dall’acquisto dei vaccini all’istituzione di un fondo per il mercato del lavoro, arrivò a indebitarsi, destinando 750 miliardi di euro a piani nazionali di Recovery. Ma la cooperazione si è bruscamente interrotta.
Di più, l’Unione si è ulteriormente frammentata. Quasi accanendosi contro l’industria.
Ad esempio, le politiche per il raggiungimento di stringenti obiettivi di contenimento delle emissioni o di transizione ambientale sono state definite senza considerare tutti gli interessi delle filiere produttive e l’enorme sforzo che lo shock dei prezzi del gas ci avrebbe inflitto.
Protocolli e regolamentazioni come quelli per accrescere l’indipendenza dell’industria europea sulle materie prime sono state assunte dalla Commissione UE senza una dotazione finanziaria comune.
Tutto questo mentre la politica monetaria della Bce repentinamente cambiava di segno.
È innegabile e non più procrastinabile: dobbiamo affrontare le transizioni – ambientale, energetica, digitale – ma lo stiamo facendo in condizioni impari rispetto a chi può mettere in campo risorse finanziarie imponenti, a chi ha più tempo o a chi può contare su posizioni di monopolio nella produzione di componenti fondamentali per le transizioni, dalle terre rare a commodities essenziali.
Nella grande sfida internazionale e alle sovvenzioni nazionali l’Italia rischia di perdere sé stessa, le sue eccellenze, il suo lavoro. Ma i lavoratori, le imprese e l’industria italiana non se lo meritano.
Una minaccia serissima per l’Italia, il Paese della seconda manifattura europea.
Il nostro maxi debito pubblico ci condanna in partenza.
Sono pochi a mio avviso gli scenari possibili.
La speranza è che con le prossime elezioni europee si apra uno scenario per cui l’Unione Europea sarà nuovamente in grado di riprendere un cammino comune con un nuovo Patto per la crescita; diversamente, infatti, andranno rivisti termini e obiettivi oggi fissati al 2030 e al 2050, nonché gli investimenti necessari a realizzarli in così pochi anni.
La sostenibilità ambientale è ineludibile ma a proposito di sostenibilità è “insostenibile” perseguirla senza considerare la sostenibilità economica e sociale.
Quest’ultima poi è fortemente a rischio.
Non solo per il tema sempre più scottante delle disuguaglianze fra generi, fra territori e di competenze ma perché è sempre più evidente la disuguaglianza tra generazioni. Molto spesso anche per sole questioni di numeri. Le giovani generazioni mancano di fatto all’appello.
E se ormai, operando in un contesto globale, siamo abituati a veder ruotare in azienda maestranze provenienti da tutto il mondo, è sempre più difficile organizzare e immaginare il passaggio generazionale alla guida dell’azienda.
In 10 anni sono scomparse 165 mila aziende guidate da giovani. Allo stesso tempo oltre il 25% delle imprese a conduzione familiare, emblema dell’impresa italiana, sono guidate da imprenditori che hanno ampiamente superato i 70 anni.
Chi guiderà domani il Made in Italy? Chi ne sarà artefice? Che lingua parlerà?
Già da diversi decenni vediamo colossi internazionali fare shopping di imprese italiane. Se ne vanno i marchi storici. Non si tratta di un mero cambio di bandiera. Alcuni delocalizzano la produzione, altri dismettono interi reparti e produzioni, altri ancora non coltivano il passaggio di competenze facendo andare a morire il saper fare italiano.
Cosa sta succedendo dunque alla nostra Italia? Le aziende delocalizzano, gli imprenditori passano la mano vendendo ai fondi, i più giovani cercano fortuna altrove. I cervelli fuggono. Perfino i pensionati decidono di andarsene.
C’è quindi futuro per le nostre imprese?
Dunque, e concludo, qual è la strategia dell’azienda Italia per salvare le sue imprese?