
(AGENPARL) – Tue 23 September 2025 Press Material
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Martedi 23 settembre 2025
23/09//2025 | Press release |
**SI FA PRESTO A DIRE “PALESTINA”**
Dopo l’ultimo voto dell’Assemblea generale, una parte d’Europa ha scelto di trasformare la frustrazione per Gaza in un messaggio politico, e ha imboccato la via dei riconoscimenti come strumento di pressione diplomatica. L’idea, esplicita in molte capitali e rilanciata a New York dal Segretario generale delle Nazioni Unite, suona semplice: se cresce il numero dei Paesi che riconoscono la Palestina, allora la guerra perde slancio e si apre finalmente uno spazio per la soluzione a due Stati. Le parole con cui António Guterres ha salutato i nuovi atti di riconoscimento raccolgono questa scommessa e la elevano a linea di condotta, perché un’uscita dall’incubo passa solo da due Stati indipendenti e sicuri, con confini concordati e un quadro di legalità riconosciuto da tutti.
Nel crescente isolamento diplomatico di Israele, segnato dall’ondata di riconoscimenti, questa scommessa punta a produrre risultati sul terreno già nel breve termine, rallentando l’operazione su Gaza fino a fermarla. Purtroppo la “realtà effettuale” è un’altra. L’asse tra l’amministrazione Trump e il governo israeliano di Benjamin Netanyahu è più forte che mai. Il presidente americano ha detto a chiare lettere che riconoscere la Palestina sarebbe “una ricompensa ad Hamas”. In Consiglio di sicurezza il veto degli Stati Uniti ha sempre protetto Israele (l’ultima volta pochi giorni fa). In settembre è stata notificata al Congresso una vendita di armi a Tel Aviv per 6 miliardi di dollari: caccia F-15, jet da combattimento F-35, elicotteri, munizioni e bombe. L’identità di vedute si spinge fino al punto di vagheggiare la trasformazione della Striscia di Gaza, dopo “l’emigrazione volontaria” dei palestinesi, in un colossale resort mediterraneo, idea di Trump raccolta con entusiasmo dall’ultradestra israeliana che ora annuncia anche l’annessione della Cisgiordania occupata nel 1967. Persino la presenza internazionale dei dirigenti palestinesi subisce le conseguenze della posizione americana: il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas si è rivolto all’Assemblea generale da remoto, dopo essersi visto rifiutare il visto da parte degli USA. Il risultato è un paradosso: più riconoscimenti, più il conflitto si intensifica, più aumentano le vittime civili e il rischio per gli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
Nel frattempo la mappa delle capitali che hanno compiuto il passo si è allargata anche tra alleati tradizionali di Washington, con annunci coordinati e cerimonie che segnano una svolta simbolica e diplomatica; Francia, Regno Unito, Canada e Australia si sono uniti a un blocco già esteso, portando la quota dei riconoscimenti sopra i tre quarti dei membri ONU. Si tratta di un dato politicamente rilevante, perché sposta il baricentro del consenso internazionale, ma non cancella il meccanismo previsto dalla Carta né produce di per sé un cessate il fuoco, che richiede decisioni operative sui corridoi umanitari, sulle armi, sulla gestione civile di Gaza e su un’autorità palestinese riformata.
In questo contesto prende forma la posizione italiana. La Presidente Meloni conferma la soluzione a due Stati e al tempo stesso mantiene prudenza sull’atto formale di riconoscimento, con un argomento lineare: un gesto unilaterale in assenza di un perimetro di sicurezza e di un interlocutore istituzionale credibile rischia di alimentare aspettative e di produrre poca sostanza. Il Governo rivendica un approccio graduale, centrato su cessate il fuoco verificabile, ritorno degli ostaggi, accesso degli aiuti, ruolo di una Autorità palestinese rinnovata e controlli sui flussi d’armi; una linea che può apparire fredda, ma nasce anche dal calcolo dei vincoli in Consiglio di sicurezza e dal timore che riconoscimenti a cascata, senza un’architettura di garanzie, peggiorino la situazione.
Resta il nodo etico e politico. La strage di innocenti logora le coscienze, in Israele e nel mondo arabo, in Europa e in America; la richiesta che arriva dalle piazze e dalle famiglie, dagli ospedali e dalle scuole distrutte, suona sempre uguale, fermare la corsa del sangue, riportare gli ostaggi, aprire i valichi, dare regole ragionevoli a un processo di pace. Qui la scommessa dei riconoscimenti ha senso solo se si aggancia a un patto operativo che metta per iscritto responsabilità e tempi, con Stati arabi pronti a sostenere la sicurezza, con una presenza internazionale che vigili sull’attuazione, con incentivi e sanzioni legati al rispetto degli impegni.
La conclusione non consola. La leva simbolica dei riconoscimenti incide sul clima, ma non muta la sostanza delle cose finché l’ombrello americano resta aperto su Israele, senza se e senza ma. La Russia è indebolita dalla guerra in Ucraina, la Cina è lontana: il duo Trump-Netanyahu non ha rivali. Quindi la via breve non esiste, esiste una strada più lunga, fatta di pressioni coordinate, di condizioni precise, di un ritorno alla politica come mestiere paziente. In questo contesto l’esitazione italiana non equivale a indifferenza, assomiglia piuttosto a un dubbio argomentato, condiviso da Germania, Grecia, Ungheria e Paesi Bassi serve un riconoscimento che apra una porta, non un gesto che moltiplichi le illusioni. Se l’Europa vuole evitare l’ennesimo giro a vuoto, dovrà legare l’atto politico a una sequenza di fatti concreti, dagli effetti misurabili, e dovrà farlo parlando con Washington e con le capitali arabe, perché solo da quel triangolo può uscire il passaggio che ancora manca. Quando quel varco si aprirà, la Palestina entrerà davvero nella casa comune, e il riconoscimento avrà prodotto ciò per cui oggi viene invocato: meno guerra, più responsabilità, una pace che protegga gli israeliani e restituisca prospettiva ai palestinesi.
**di Paolo Giordani, Presidente Istituto Diplomatico Internazionale**
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