
(AGENPARL) – Wed 30 July 2025 https://www.aduc.it/articolo/meltdown+1998_39599.php
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Meltdown: 1998
Alla fine degli anni ’90 l’Occidente era ubriaco di ottimismo. Il comunismo? Morto. Il libero mercato? Trionfante. La storia? Finita, o almeno così dicevano certi intellettuali entusiasti. Il capitalismo sembrava aver vinto la partita per KO, e la globalizzazione era il premio: un mondo sempre più connesso, sempre più efficiente, sempre più… prevedibile.
E i mercati? Addomesticati. Grazie a computer sempre più potenti e modelli matematici complessi, il rischio sembrava ormai un animale da compagnia. L’innovazione finanziaria prometteva di aver finalmente capito il “codice sorgente” del capitalismo. Che cosa poteva mai andare storto?
Due mondi, una crepa comune
Da una parte c’era la Russia, ex superpotenza in coma farmacologico. Uscita a pezzi dall’era sovietica, cercava disperatamente di reinventarsi come economia di mercato, tra shock terapeutici, corruzione e petrolio venduto al chilo.
Dall’altra parte dell’oceano, a Greenwich (Connecticut), si nascondeva Long-Term Capital Management (LTCM), un hedge fund gestito da geni matematici, ex banchieri centrali e due premi Nobel. Non facevano “scommesse” – no, loro facevano “arbitraggio”, un termine elegante per dire che il mercato aveva torto e loro ragione, sempre.
Un sistema troppo interconnesso per fallire… ma lo fece comunque
Il 1998 fu il primo crash dell’era iper-globalizzata, e fu una lezione amara: quando tutto è connesso, anche il raffreddore di un Paese emergente può far venire la polmonite alla finanza globale. Una crisi sovrana in Russia mandò in tilt un hedge fund americano ultraleveraggiato. Sembravano eventi lontani e indipendenti, ma erano due facce della stessa medaglia: un sistema dove il rischio, anziché essere eliminato, era solo stato impacchettato e spedito in giro per il mondo.
Parte I – La polveriera Russa
Un’economia sull’orlo del precipizio
Nel 1991, l’Unione Sovietica si scioglieva come un gelato al sole. Quello che rimaneva – la Federazione Russa – era un colosso malconcio, traumatizzato dalla transizione a un’economia di mercato, iniziata con le “terapie d’urto” tanto care agli economisti occidentali. Solo che, invece di rilanciare la crescita, queste riforme sembravano aver staccato la spina al paziente.
Tra il 1992 e il 1998, la produzione industriale crollò del 60%. Per dare un’idea, durante la Grande Depressione americana il calo fu “solo” del 47%. In campagna non andava meglio: la produzione agricola si dimezzò rispetto al 1992. Il frigo era vuoto, e lo Stato pure.
La Russia era diventata, in pratica, un petro-Stato ante litteram: tutto il bilancio pubblico e buona parte delle riserve valutarie si reggevano sulle esportazioni di gas e petrolio. E finché il greggio galleggiava sopra i 20 dollari al barile, il castello reggeva. Ma nel 1997 i prezzi iniziarono a scendere, e con loro l’illusione che bastasse trivellare la Siberia per mantenere in piedi una nazione.
L’ultima difesa del Cremlino
Nel 1998, la strategia economica russa assomigliava sempre più a un gioco di Jenga, con il governo intento a togliere mattoncini sperando che la torre non crollasse. L’unico pilastro rimasto era il cosiddetto corridoio di cambio: un’area di tolleranza entro cui il rublo poteva fluttuare rispetto al dollaro. Una sorta di guinzaglio valutario, pensato per rassicurare gli investitori e sembrare affidabili agli occhi del mondo.
Peccato che mantenere il rublo “a posto” costasse carissimo. La Banca Centrale Russa doveva vendere dollari (e altre valute pregiate) ogni volta che qualcuno, impanicato, decideva di liberarsi della moneta locale. Il risultato? Le riserve in valuta estera calavano più velocemente della pazienza di un creditore greco nel 2011.
Nel tentativo disperato di evitare il collasso, Mosca fece l’unica cosa che fa sempre notizia: alzò i tassi d’interesse. Dal 30% al 50%. Poi, pochi giorni dopo, al 150%. Sì, centocinquanta. Se non altro, fu un modo elegante per comunicare al mondo: «siamo in crisi nera». Ma con il credito che costava più di un mutuo in lire turche, l’economia interna si spense del tutto.
Nel luglio ’98, il FMI intervenne con un pacco dono da 4,8 miliardi di dollari. Ma era tardi. E per di più, secondo alcune stime, la maggior parte di quei soldi sparì nel nulla subito dopo l’atterraggio a Mosca. Più che un salvataggio, fu un prestito a fondo perduto. Molto fondo, molto perduto.
17 Agosto 1998: il crac russo
Ad agosto, la Russia era in ginocchio. Le riserve valutarie erano finite, gli investitori scappavano come topi dalla nave e il governo, guidato dal 36enne Sergej Kirienko, si ritrovò a firmare l’inevitabile.
Il 17 agosto, arrivò il triplo annuncio che fece tremare i mercati:
1 – Il rublo sarebbe stato lasciato libero di fluttuare (spoiler: crollò).
2 – Il governo sospendeva il pagamento dei titoli di Stato, per un totale di 40 miliardi di dollari.
3 – Le banche e le imprese russe avrebbero congelato per 90 giorni i rimborsi ai creditori stranieri.
La Borsa di Mosca si schiantò, perdendo il 75% in pochi giorni. Gli investitori si svegliarono con le tasche vuote e gli occhi spalancati: l’ex superpotenza era tecnicamente in default.
Pane, rubli e rabbia
Il vero dramma, però, fu quello vissuto fuori da banche e borse. L’inflazione schizzò all’84% entro fine anno. Il prezzo del pane raddoppiò. Le pensioni, quando venivano pagate, valevano meno del biglietto del tram. Circa 43 milioni di persone – un terzo della popolazione – finirono sotto la soglia di povertà.
Ma non fu solo fame e disperazione: il crollo economico mandò in pezzi lo Stato stesso. Mosca non era più in grado di riscuotere le tasse, né di far rispettare la legge nelle sue regioni. I governatori locali iniziarono a comportarsi come piccoli feudatari: vietavano esportazioni, razionavano beni, stampavano moneta locale, prendevano prestiti senza passare dal governo centrale.
Fu in mezzo a questo caos che emerse una figura fino a quel momento poco nota: Vladimir Putin. Nominato capo dell’FSB (l’agenzia per la sicurezza interna) nel luglio 1998 da un esausto Boris Yeltsin, fu incaricato di “rimettere in riga le province”.
Parte II – La casa dei geni
Long-Term Capital Management
Dimenticate i completi Armani e i sigari cubani: Long-Term Capital Management non era il classico hedge fund. Era una sorta di monastero laico della finanza quantitativa, costruito non su pietra, ma su cervelli. Tanti. E molto brillanti.
A guidarlo, l’uomo dal pedigree leggendario: John Meriwether, ex capo dell’arbitraggio obbligazionario di Salomon Brothers. Uno che sapeva trasformare piccole inefficienze nei mercati in montagne di profitti. Il suo colpo di genio? Portare fisici e matematici – i famosi quants – dentro la sala operativa. In pratica, mise un PhD dietro ogni terminale Bloomberg.
Ma se Meriwether era il cervello da pokerista, quelli che misero il timbro scientifico a LTCM furono Robert C. Merton e Myron Scholes. Non due professori qualunque: erano gli architetti del modello Black-Scholes, la formula che aveva insegnato a Wall Street a calcolare quanto dovesse costare un’opzione – cioè, a vendere rischio in confezione matematica.
Nel 1997 – proprio mentre il fondo era nel suo momento d’oro – Merton e Scholes vinsero il Premio Nobel per l’Economia. E LTCM, a quel punto, diventò leggenda: non un hedge fund, ma un laboratorio dove si creavano profitti sulla base di leggi “scientifiche”, come se la finanza fosse una branca della meccanica quantistica.
Persino William Sharpe – sì, quello del Capital Asset Pricing Model, anche lui Nobel – descrisse LTCM come “probabilmente il miglior dipartimento di finanza accademica al mondo”.
Peccato che anche i migliori dipartimenti possono sbagliare… e alla grande.
La macchina “perfetta”: il meccanismo di LTCM
I partner del fondo non si vedevano come scommettitori, ma come correttori del caos: paladini razionali in un mondo dominato da umori e approssimazioni.
Una convinzione simile – che si potesse “scientificamente” prevedere il comportamento dei mercati – giustificava scelte operative altrimenti folli: leve finanziarie 25, 30, anche 40 volte il capitale. D’altronde, se il tuo modello dice che stai comprando banconote da 100 a 98, perché non prenderne a camionate?
Il problema? Che la realtà non legge i modelli. E a volte decide di prendersi gioco proprio di chi si crede al sicuro nei suoi assunti.
Quando nel 1998 esplose il panico globale – tra il default russo, la fuga dai mercati emergenti e la caccia disperata alla liquidità – tutte le posizioni di LTCM, che sulla carta erano scollegate tra loro, iniziarono a muoversi nella stessa direzione. Contro.
Quel famoso “evento altamente improbabile” che i loro modelli consideravano un’eccezione teorica… accadde. E fu come se tutte le porte antincendio dell’edificio fossero state costruite in cartapesta.
Il convergence trading
Alla base della strategia di LTCM c’era una filosofia semplice, elegante e – finché funzionava – terribilmente redditizia: convergence trading.
L’idea era che, ogni tanto, due titoli che dovrebbero avere lo stesso prezzo (o comunque muoversi insieme) si allontanassero temporaneamente. Gli analisti di LTCM, grazie ai loro modelli matematici e ai loro dati storici, sapevano “quando” questa deviazione era solo un’anomalia. A quel punto, bastava vendere il titolo sopravvalutato e comprare quello sottovalutato. Poi aspettare che il mercato tornasse in sé.
Il motore della leva finanziaria
Se LTCM fosse stata una macchina, la leva finanziaria sarebbe stata il motore… solo che, invece di benzina, funzionava a dinamite.
I guadagni per ogni singola operazione di convergence trading erano minuscoli – parliamo di frazioni di centesimo per dollaro investito. Un risultato troppo magro per chi aspirava a rendimenti annuali superiori al 40%, come quelli che resero LTCM una leggenda (e un benchmark d’invidia) su Wall Street.
La soluzione? Moltiplicare. Tanto.
La leva finanziaria – il meccanismo per usare soldi presi in prestito per fare investimenti più grandi – veniva spinta ben oltre i limiti del buon senso. Sulla carta, la leva “di bilancio” era già impressionante: 25 a 1. Per ogni dollaro proprio, LTCM controllava 25 dollari di asset.
Ma questa era solo la punta dell’iceberg.
Il grosso del rischio era fuori bilancio – nascosto in strumenti derivati, contratti di riacquisto (repo), swap, forward e altre meraviglie della finanza moderna che somigliano più a incantesimi che a strumenti contabili.
A inizio 1998, il fondo aveva 4,8 miliardi di dollari di capitale proprio. Ma gestiva posizioni per oltre 125 miliardi in asset… e oltre 1.250 miliardi in derivati. Sì, trilioni. Con la “t”.
In certi momenti, la leva effettiva del fondo sfiorava il rapporto 100 a 1. In pratica, bastava una variazione dell’1% nel verso sbagliato per cancellare tutto. E il “verso sbagliato”, purtroppo per loro (e per il mondo), arrivò.
A quel punto LTCM non era più solo un fondo. Aveva posizioni così ampie che, da solo, rappresentava circa il 5% del mercato mondiale del reddito fisso.
Un hedge fund con meno di cinquanta dipendenti aveva il potenziale di far tremare l’intero sistema finanziario.
E lo fece davvero.
Parte III – rotta di collisione
Il cigno nero atterra a Mosca
Il 17 agosto 1998, la Russia andò in default. Non fu solo un grattacapo geopolitico. Per LTCM, fu come se un meteorite avesse centrato la plancia comandi.
I loro modelli – brillanti, sofisticati, accademicamente inattaccabili – non lo avevano previsto. Non perché fosse un errore di calcolo, ma perché certi eventi, come i cigni neri, per definizione “non esistono”… finché non arrivano a beccarti in faccia.
Il default russo scatenò il panico: gli investitori di tutto il mondo entrarono in modalità “uscita di emergenza”. Tutto ciò che sembrava anche solo vagamente rischioso – debito emergente, bond ad alto rendimento, azioni, obbligazioni “non proprio perfette” – venne venduto. Di corsa.
Quando gli spread divergevano… e il modello si sbriciolava
Per LTCM fu uno scenario da incubo. Avevano costruito un impero finanziario sulla convinzione che, nel lungo periodo, i prezzi si allineano. Ora, invece, tutto stava esplodendo in direzioni opposte.
– Gli spread tra titoli del Tesoro on-the-run (freschi di giornata) e off-the-run (vecchiotti) si allargarono a dismisura: tutti volevano solo i primi, ignorando i secondi come se fossero yogurt scaduti.
– Le obbligazioni societarie? Schivate come la peste. Gli spread contro i titoli governativi si allargarono di botto.
– Persino i titoli di Stato europei, che teoricamente stavano per unirsi sotto la bandiera dell’euro, cominciarono a divergere.
– La volatilità? LTCM l’aveva venduta (cioè, aveva scommesso che sarebbe rimasta bassa). Peccato che, nel frattempo, i mercati si fossero messi a urlare come in un horror giapponese.
Morale: tutte le “piccole scommesse indipendenti” del fondo, in apparenza sparse e diversificate, si rivelarono in realtà parte di un’unica, gigantesca posizione iper-leveraggiata. Una scommessa titanica su una sola cosa: che il mondo avrebbe continuato a comportarsi in modo razionale.
Non successe.
La crisi russa fece saltare ogni correlazione storica. In momenti di panico assoluto, la razionalità viene messa da parte.
Agosto – settembre 1998
Il default russo fu il detonatore. Ma fu nei mesi successivi che LTCM entrò nella vera e propria spirale della morte – e non era una metafora: era un termometro che scendeva a zero con la velocità di un’ascensore senza freni.
Il 21 agosto, il fondo perse 550 milioni di dollari in un solo giorno. Per capirci: più di quanto valesse, all’epoca, l’intero patrimonio di molte banche regionali americane.
Nel solo mese di agosto, le perdite superarono 1,9 miliardi, pari al 44% del capitale.
A inizio 1998, il fondo aveva un cuscinetto di 4,7 miliardi di dollari.
A inizio settembre, ne restavano 2,3.
Il 22 settembre, il capitale si era ridotto a 600 milioni. Un’emorragia da manuale.
Più perdeva LTCM, più esplodeva il suo rapporto di leva. Una macchina iper-leveraggiata che perde la zavorra del capitale… diventa una bomba finanziaria.
Le banche, che ogni giorno facevano i conti (“mark-to-market”) sul valore delle posizioni, iniziarono a sudare freddo. Cominciarono a chiedere garanzie aggiuntive – margin call, per gli amici.
Bear Stearns, la camera di compensazione delle operazioni del fondo, bussò con una richiesta brutale: 500 milioni di dollari in garanzie. Subito.
Il problema? LTCM era paralizzato. Le sue posizioni erano gigantesche, e piazzate in mercati poco liquidi. Tradotto: non si potevano vendere senza distruggere il prezzo dell’asset stesso.
Ogni tentativo di disfare una posizione aggravava il danno.
Ogni vendita forzata generava nuove perdite.
Nuove perdite generavano nuove margin call.
E così via. La spirale era autoalimentante.
Il rischio sistemico diventa reale: il contagio arriva a Wall Street
A un certo punto, non era più “solo” il problema di un hedge fund in crisi. LTCM era diventato una mina inesplosa nel cuore del sistema finanziario globale. E il problema non era solo la dimensione – la leva era mostruosa – ma l’invisibilità del rischio: un nodo centrale, gigantesco, ma nascosto, nella rete mondiale dei derivati.
Nessuno – e sottolineo nessuno – aveva la visione completa. Ogni banca vedeva solo il suo piccolo pezzo della torta. Peccato che fosse la stessa torta (andata a male) che stavano servendo anche agli altri.
LTCM era controparte in migliaia di contratti OTC (over-the-counter), stipulati con quasi tutte le principali banche d’investimento del mondo. Le sue operazioni si intrecciavano come fili elettrici dietro un muro: nessuno sapeva quali passassero dove, ma bastava tagliare quello sbagliato per far saltare tutto.
E poi c’era la vera bomba nascosta: le clausole di cross-default.
Funzionavano così: se LTCM avesse mancato un solo pagamento con una singola controparte, allora tutte le altre controparti potevano – anzi, dovevano – considerarla in default totale. E agire di conseguenza.
Il risultato? Tutti avrebbero cercato di incassare le garanzie contemporaneamente, liquidando gli stessi asset nello stesso istante, in un mercato già semi-congelato. Una svendita di proporzioni bibliche: la famosa fire sale.
La Fed iniziò a sudare freddo. La prospettiva era chiara: se LTCM saltava, saltavano anche i prezzi dei bond, dei derivati, delle valute. E con loro, anche i bilanci di molte delle banche che lo avevano alimentato. Il sistema stava per collassare non perché LTCM era troppo grande, ma perché era troppo intrecciato.
Parte IV – Il salvataggio e la “Greenspan Put”
Quando la Fed chiama… i banchieri rispondono
A fine settembre 1998, il sistema finanziario globale era in pieno collasso nervoso. Così la Federal Reserve Bank di New York, con William McDonough al timone, fece ciò che ogni genitore esasperato prima o poi deve fare: radunò tutti in salotto.
Il Segretario al Tesoro Robert Rubin definì la situazione “la peggiore crisi finanziaria degli ultimi 50 anni”. Alan Greenspan, solitamente impassibile come uno scacchista zen, ammise candidamente: «Mai visto niente del genere». Quando anche il Maestro dello “speech indecifrabile” si lascia sfuggire una frase umana, sai che siamo messi male.
Greenspan fu chiaro nel suo messaggio pubblico: «Nessun salvataggio governativo». Nessun dollaro pubblico fu speso. La Fed – disse – aveva solo “facilitato” l’incontro tra banche per trovare una soluzione tra privati.
Formalmente, era tutto volontario. In pratica… be’, quando la Fed “invita” 14 CEO di banche a trovare un accordo nella sua sala riunioni, è come se Don Vito Corleone ti offrisse un’opportunità che non puoi rifiutare.
Il motivo dell’intervento? Evitare una svendita incontrollata (fire sale) del portafoglio gigantesco di LTCM. Se il fondo avesse cominciato a liquidare tutto, i mercati si sarebbero bloccati, i prezzi si sarebbero distorti, e mezzo mondo sarebbe finito in recessione. La Fed non voleva salvare gli investitori di LTCM. Voleva salvare la macchina.
Ma questo intervento – pur tecnicamente “privato” – fece storia. Perché fu la prima volta che la banca centrale usò il suo potere morale per influenzare attori privati in un’azione collettiva di salvataggio. Un’operazione di “volontarismo coercitivo”, che confondeva allegramente i confini tra pubblico e privato.
L’accordo da 3,625 miliardi di dollari