[lid] Il convegno parlava del convivere, riferito al rapporto uomo-natura, ma le acute e puntuali riflessioni di Morisi, pubblicate da Agenparl (https://agenparl.eu/2024/02/03/abruzzo-gli-allevatori-bocciano-gli-antropologi-al-convegno-di-pescasseroli-sul-tema-convivere-le-scienze-sociali-ed-il-rapporto-uomo-natura/) hanno spostato l’ago della bilancia su altre forme di convivere e coabitare, molto più usuali e quotidiane e che, tuttora, evidenziano faglie profonde ed irrisolte, come il convivere di varie tipologie umane (nello specifico: ricercatori e attori – gestori per la conservazione di aree naturali e rappresentanti delle comunità locali, etc.). Morisi non è dovuto andare altrove e lontano, come tanti antropologi, per approdare a certe conclusioni; gli è bastato sederti su una poltroncina della sala convegni esercitando una capacità di ascolto non indifferente, considerando che il seminario si è trascinato per quasi tre ore. Osservando e ascoltando, Morisi ha dovuto costatare che c’era un cortocircuito nella comunicazione e che ci sarebbero voluti immediati interventi di ‘equilibratura’ e ‘convergenza’ per riportare la conversazione a un basilare livello di comprensione. Ciò, purtroppo, non è avvenuto.
Proprio al fine di evitare grossi paroloni, mi è venuto in mente di usare questi due termini: ‘equilibratura’ e ‘convergenza’ perché, sicuramente, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha avuto modo di sentirli, se non altro quando ha cambiato i pneumatici alla sua auto, cosa che io ho fatto proprio l’altro ieri! Il meccanico, a parole sue, mi ha spiegato che la perfetta equilibratura delle ruote, ovvero quella condizione che permette a tutte le ruote di girare in sincronia, per evitare una governabilità falsata, è un’operazione indispensabile che deve essere eseguita, necessariamente, da personale altamente qualificato. A parole sue, il mio meccanico ha espresso un concetto fondamentale che, nel suo caso, era strettamente legato al campo della ‘meccanica’ ma che si potrebbe utilizzare anche in tanti altri campi e, nel caso specifico, in quello inerente la conservazione e gestione del territorio. Infatti, molte delle cose scritte da Morisi hanno appunto a che fare con la ricerca di un’ equilibratura o ‘sinergia tra attori e istituzioni’, ricercatori e gente comune che, evidentemente, nel corso degli anni, è venuta a mancare (e questo convegno ne è una prova lampante).
Gli Enti Parco, e non per ultimo il PNALM, avrebbero dovuto fare almeno un tentativo per concretizzare una sorta di cogestione delle risorse naturali, tenendo in seria considerazione le conoscenze e pratiche consuetudinarie, affinché Parco e attori locali avessero potuto relazionarsi tra di loro e con l’Ente, apprendendo gli uni dagli altri, nella massima trasparenza. A quella che avrebbe dovuto essere un’auspicata cogestione del patrimonio naturale, si è sostituita, invece, una ‘governabilità falsata’, in cui il Parco, dichiarando di aver interpellato sempre le parti sociali (associazioni di categoria) e Sindaci, ha fatto intendere che ‘il mondo degli agricoltori e allevatori e chi li rappresentava’, nonché ‘la cittadinanza’, erano stati sempre coinvolti e consultati in ogni scelta importante che avesse riguardato il territorio. Da queste consultazioni, però, i piccoli comitati di pastori e allevatori, e le associazioni di semplici cittadini, sono state – in larga parte – tagliate fuori. La realtà, come Morisi sa benissimo, è ben diversa dalle dichiarazioni del Parco che alludono, spesso e volentieri, al buon compimento dei processi consultivi. Le associazioni di categoria, invece, non rappresentano (o almeno non sono riusciti a rappresentare) le istanze di coloro che praticano l’allevamento estensivo, nella stessa misura in cui i Sindaci, pur essendo primi cittadini, non hanno saputo rappresentare i diritti di tutti i loro costituenti. Ad esempio, nel suo articolo, Morisi ha parlato di sindaci compiacenti che hanno violato i diritti d’uso civico, affittando aree di territorio comunale e pascoli al Parco, sottraendole, così, agli allevatori. E’ qualcosa di raccapricciante che lascia senza parole!
Il mio meccanico (che ha soltanto la terza media) – a certi concetti – c’era già arrivato da solo, quando – ad esempio – mi ha detto che la ‘perfetta equilibratura’ va fatta da personale altamente specializzato e, dunque, da persone competenti. Il Parco, che è composto da dirigenti che hanno, sicuramente, una qualifica di gran lunga superiore a quella del mio meccanico, avrebbe dovuto creare ‘vera equilibratura’ e sinergia tra loro stessi e gli attori del territorio, ma la realtà dimostra che, a questo riguardo, sono stati ben poco lungimiranti. Ci si domanda, infatti, chi, all’interno del Parco, avrebbe dovuto avere quelle competenze per ‘equilibrare’ e ricucire diverse visioni del mondo, prospettive e aspirazioni – per evitare che la mancanza di una ‘sintesi’ degenerasse in conflittualità. E se c’era qualcuno che avrebbe dovuto farlo, perché non l’ha fatto? Chi, dunque, avrebbe potuto permettere all’ultimo pastore di Pescasseroli – Renato Colasante detto Renaticcio – di sopravvivere e trasmettere le sue conoscenze alle future generazioni? Sicuramente, chi avrebbe dovuto trovare una ‘quadratura d’interessi’, tra tutte le parti in gioco; o meglio coloro che avrebbero dovuto ‘equilibrare’ saperi tradizionali/esigenze locali con la necessità di proteggere e conservare la biodiversità o non lo hanno fatto o non l’hanno saputo fare. Così, i risultati tragici di questa inerzia (forse voluta, pianificata e poi stratificatasi negli anni) sono, oggi, sotto gli occhi di tutti.
Non sarà più necessaria ne’ l’arguzia e ne’ lo spirito critico di studiosi e giornalisti per prendere nota di tutto quello che è accaduto negli anni, a giudicare lo scarso interesse del Parco nel sostenere le economie tradizionali del territorio ci penserà la storia. Una storia che parla attraverso un paesaggio progressivamente depauperato della sua componente antropica tradizionale, dove attività consuetudinario di utilizzo delle risorse sono state giudicate come non più compatibili con la nuova idea di conservazione della natura. Così, territori di vita e di tradizioni sono stati progressivamente soppiattati da ‘paesaggi ideologici’, dove la vecchia dicotomia natura-cultura ha trovato nuovi slanci, coniugandosi alla perfezione con le logiche di un ambientalismo oltranzista, che vede ogni tentativo di gestione della natura e della flora e fauna, come una minaccia al ‘mondo selvaggio’. Cosi, ad un territorio antico, è stato sovrapposto un ‘paesaggio turistico’ dove la natura viene relegata al ruolo di commodity (merce).
Non dimentichiamo che in Abruzzo, ma anche in tante altre aree del nostro paese, la ricchezza si contava in pecore e capi di bestiame che garantivano l’autosufficienza ed una gestione oculata delle terre marginali. E’ interessante notare come lo stesso termine latino ‘pecunia‘ (denaro) si origina dalla parola ‘pecus‘, ovvero bestiame. Non c’è da stupirsi che, per almeno un millennio, la pastorizia con le sue transumanze, ha rappresentato il perno dell’economia abruzzese e dell’intera Italia. Siamo stati da sempre anche un popolo di pastori ma lo abbiamo dimenticato! Quello che oggi rimane del più duraturo ‘boom economico’ che la storia abbia mai raccontato, va ricercato nelle piccole realtà pastorali che ancora tentano di sopravvivere, nonostante Parco e istituzioni varie non offrano alcun incentivo ed incoraggiamento al loro prosieguo.
Tuttora, molti Parchi stentano a comprendere gli effetti dell’influenza antropogenica nel modellare paesaggi cosiddetti ‘naturali’ i quali si presentano, cosi come sono ai nostri occhi, proprio perché quelle comunità locali li hanno sapientemente gestiti nel corso di centinaia di anni. Questi, di fatto, sono ‘paesaggi culturali’ impregnati di relazioni sociali, eventi e narrazioni stratificatisi nel tempo. Sono queste relazioni e narrazioni che definiscono, e danno un senso ad ogni aspetto del territorio. Di riflesso, la visione di paesaggio proposta dal mondo della conservazione e dai fautori del cosiddetto ‘rewilding’, non ha nessuna forma di radicamento storico e culturale. La stessa zonizzazione ha creato un paesaggio altamente ‘ingegnerizzato’ di categorie e zone con vari livelli di protezione, dove tutte le regole di ciò che è permesso e ciò che è proibito, sono già state stabilite – ab-initio – dagli ‘esperti’. Invece, pastori e allevatori non vedono il loro paesaggio come una tabula rasa, che può essere inscritta, misurata, suddivisa in zone e sperimentata di conseguenza. Al contrario, la gente – da sempre – ha percepito il paesaggio attraverso le lenti dei rapporti sociali, delle storie e pratiche consolidate e, tutte queste componenti, sono ancora impregnate nella memoria delle comunità locali. La zonizzazione ha messo in atto, invece, un paesaggio prefabbricato di ‘zone’ e ‘categorie’ che si è sovrapposto al ‘paesaggio culturale’, senza nessun tentativo, da parte dei gestori della conservazione, di tenere in considerazione le visioni, le definizioni e le esperienze dei custodi del territorio. In altre parole, la zonizzazione, se pur necessaria per la conservazione di ambienti ecologicamente vulnerabili, ha inevitabilmente favorito un’immagine anonimizzata e destoricizzata dell’idea di convivenza tra uomo e natura.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, se il vecchio Renaticcio, che era lì al convegno, è rimasto in silenzio tutto il tempo mentre elaborate definizioni e astratte concettualizzazioni legate al rapporto uomo-natura, venivano presentate a lui e al pubblico, senza alcuna possibilità di contraddittorio (se non altro, perché il linguaggio dei relatori era spesso incomprensibile a molti dei presenti). In quella sala, quando i luminari delle scienze sociali facevano sfoggio della loro sapienza, Renaticcio si sarà forse domandato che cosa stessero dicendo costoro e se la dirigenza del Parco di oggi non fosse altro che la naturale appendice di quel sistema integral-ambientalista che, oltre 40 anni prima, l’aveva alienato dal suo antico mestiere condannandolo a disfarsi delle sue pecore e a dire addio alla transumanza verso le Puglie. Morisi ha poi chiarito a Renaticcio che, dagli anni in cui egli dovette rinunciare a tutto ciò che amava (le sue montagne e il suo gregge), molte cose sono cambiate; da allora tanta neve è caduta in quelle valli! Morisi ha anche raccontato a Renaticcio che, oggi, molti pastori e allevatori di animali allo stato brado e semibrado hanno costituito legalmente i loro comitati a livello regionale, e che nulla sarà mai uguale a prima. Insomma, dalla Ciociaria alla Campania, dal Molise all’Abruzzo, stanno nascendo movimenti fatti di uomini e di donne che con i loro sogni, le proprie idee e speranze hanno deciso che l’allevamento estensivo non deve morire e sono disposti a battersi fino in fondo per difenderlo. Con queste realtà, prima o poi, il Parco dovrà pur confrontarsi!
Rispetto ai tempi di Renaticcio sono cambiate anche altre cose. Ad esempio, la figura del pastore – nell’immaginario collettivo – sta per essere riscoperta e rivalutata. Molti hanno iniziato a comprendere che pastori e allevatori estensivi, sono degli straordinari mediatori tra passato e presente, tra pratiche culturali millenarie e sistemi economici e produttivi radicalmente diversi, che li incoraggiano costantemente a trovare una sintesi, a riadattare le proprie produzioni e strategie di allevamento, ad adattarsi a nuovi equilibri o ‘disquilibri’ di mercato, a nuove e spesso drammatiche trasformazioni ambientali, a fenomeni di portata globale come i cambiamenti climatici. Insomma, a dispetto di quell’idea che relega la pastorizia ad un passato irripetibile, abbiamo invece a che fare con un attività quanto mai dinamica, in continuo mutamento. La pastorizia è forse l’unica attività che ancora riesce a contrastare e arginare i danni di un’economia intensiva, garantendo un rapporto bilanciato tra sostenibilità ambientale, qualità alimentare e identità culturale. Peccato, però, che la Dirigenza del PNALM, come quella di tante altre aree protette, continui a mantenere una visione stereotipata dall’allevamento brado e semibrado, comparando spesso gli allevatori a ‘cacciatori di contributi comunitari’ e a ‘cowboys moderni’ che trasformano il territorio in una sorta di Far-West senza legge e senza regole, insomma degli abusivi del suolo pubblico e, nella peggiore delle ipotesi, i primi responsabili del degrado ambientale.
Questa mancanza di conoscenza della realtà pastorale continua ad alimentare una serie di pregiudizi che le scienze sociali potrebbero sicuramente dipanare attraverso la ricerca sul campo, come già sta avvenendo. Non sarà, infatti, un caso, che il Presidente del PNALM, Giovanni Cannata, nella sua introduzione al Convegno di Pescasseroli ha affermato che, nonostante 100 anni di ricerca scientifica nel PNALM, resta tuttora un buco, quello delle discipline sociali, e questo va assolutamente colmato. Così, si deduce che, per la realizzazione del piano-socio economico del Parco, bisognerà colmare questo buco (molto più simile ad una voragine) avvalendosi di esperti delle scienze sociali, in modo da far ‘convergere’ ed ‘equilibrare’ le esigenze e le aspettative di tutti gli attori e rilanciare la macchina della partecipazione, i cui ingranaggi sono ormai arrugginiti, a causa del protratto disuso. Come già sarebbe dovuto avvenire, anni orsono, spuntano, così, gli esperti di scienze sociali e gli antropologi per riprendere le redini di una partita che si sarebbe dovuta giocare molto prima, al fine di evitare i conflitti e le forti divergenze di vedute, a cui noi oggi assistiamo, come – ad esempio – tra Ente parco e allevatori. Morisi, però, sembra nutrire seri dubbi sull’operato di tali esperti, poiché ritiene che questi “per necessità di carriera, si sarebbero già appiattiti in modo acritico sulle posizioni e aspettative del Parco, dimenticando che l’ente che li sta ingaggiando ha già violato e continua a violare i diritti di uso civico degli allevatori di montagna”. Con le sue affermazioni coraggiose, Morisi ha scoperchiato un enorme vaso di Pandora. Non ci sono dubbi, infatti, che l’atteggiamento di molti ricercatori (anche nell’ambito delle scienze sociali) è fortemente condizionato dalle esigenze dei loro committenti. Ho visto antropologi accettare consulenze per grandi organizzazioni come la Banca Mondiale senza particolari remore di ordine etico, pur sapendo che tali istituzioni, avevano finanziato progetti scellerati causando la distruzione di habitat importantissimi e l’impoverimento delle popolazioni indigene e pastorali che lì vivevano. E quindi ci si domanda: quale ricercatore, oggi, con la penuria di posti di lavoro e fondi per la ricerca, rinuncerebbe a consulenze ben pagate per motivi di ordine etico?
Ovviamente l’antropologia, come tutte le altre discipline, ha un codice deontologico preciso; ne esiste uno chiaro e ben scritto, anche per quanto riguarda l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (https://anpia.it/chi-siamo/codice-deontologico/). Queste linee guida, ad esempio, dicono che “l’antropologo professionale deve essere disposto a fare scelte eticamente attente e preparato a difenderle, argomentando le considerazioni, le assunzioni, le ipotesi e i fatti che l’hanno guidato in tale senso e deve essere, allo stesso tempo, pronto a rispondere delle conseguenze”, oppure che è responsabilità degli antropologi “fare in modo che le opinioni e la visione dei gruppi coinvolti (vengano restituite) ai committenti e i (loro) rapporti di ricerca siano chiari, precisi, puntuali e senza distorsioni da parte (loro), al fine di preservare opzioni e scelte di tali gruppi” e che gli antropologi si “impegniamo a riportare con chiarezza e precisione, con un linguaggio chiaro e comprensibile, la (loro) attività professionale“, etc. etc. Tuttavia, dietro i codici e le linee guida ci sono gli uomini, e quindi una distorsione di questi valori e principi di riferimento risulta spesso inevitabile, anzi è ormai all’ordine del giorno. Soprattutto in Italia, dove i fondi per la ricerca sono quanto mai limitati, se un ricercatore vuole andare avanti con il suo lavoro deve riuscire a saper mantenere un buon rapporto con le istituzioni locali e soprattutto con gli Enti Parco, evitando che il risultato delle proprie ricerche vada ad imbarazzare e mettere direttamente in discussione l’operato dei committenti. Insomma, oggi, un ricercatore per sopravvivere deve barcamenarsi in scenari complessi che coinvolgono interessi in conflitto e dove sono in atto forti cambiamenti: trasformazione della gente e dei luoghi, delle comunità e delle persone coinvolte, etc. Quindi la tendenza di molti ricercatori, come si suol dire, è quella ‘di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte’, e questo – in alcuni casi – si traduce – nel presentare una versione più blanda di conflitti e violazioni identificate sul campo o addirittura nello smussare o omettere critiche troppo ‘aspre’ su argomenti ‘spinosi’, soprattutto su quelli che potrebbero mettere in cattiva luce i committenti della ricerca. E allora come si può uscire da questo impasse?
Non esiste, purtroppo, una ricetta magica su come gestire la complessità di queste problematiche. Credo, però, che sarebbe auspicabile se gli allevatori, all’interno delle loro esistenti, nascenti e future associazioni, creassero dei comitati tecno-scientifici indipendenti fatti da persone qualificate che non abbiano paura di esporsi per la difesa di una causa in cui credono profondamente. Tali comitati tecno-scientifici, possibilmente multidisciplinari, dovrebbero essere limitati a persone di comprovata fiducia, le quali potrebbero anche prendersi la briga di offrire agli allevatori quei semplici strumenti per orientarsi meglio nel complicato panorama burocratico ma anche gli strumenti per documentare, con maggiore dettaglio, eventi di cui sono quotidianamente testimoni, ad esempio predazioni da fauna selvatica. Insomma, bisognerebbe creare quelle condizioni affinché pastori ed allevatori diventino sempre più soggetti e parte attiva di progetti di ricerca coniati soprattutto in basate alle loro priorità e necessità, e non calati dall’alto, come spesso avviene.
Tuttavia, al di là di qualsiasi critica e perplessità sollevata, la disciplina antropologica ha sicuramente tanto da offrire al mondo dell’allevamento estensivo, sia da un punto di vista teorico che metodologico. L’antropologia – in modo esemplare – sa abbinare un approccio qualitativo alla raccolta dei dati con un analisi quantitativa, in modo da ottenere una prospettiva unitaria per comprendere meglio dinamiche complesse, come quelle che sottendono la pastorizia. Nel caso specifico dei Parchi, il contributo dell’antropologia può promuovere una rimodulazione e riconfigurazione della gestione del territorio volta a recuperare la dimensione socio-culturale e quindi le prospettive di coloro che lo vivono, in prima persona. Quest’attenzione e sensibilità nei confronti degli attori (in questo caso i pastori) – che è propria della disciplina antropologica – può contribuire anche a scardinare una visione della ‘Scienza’ come patrimonio esclusivo di tecnici ed esperti, introducendo invece la nozione di ‘etnoscienza’: ovvero quel compendio di conoscenze tradizionali utilizzate da un determinato popolo, comunità o etnia per categorizzare e classificare il mondo naturale. Per l’antropologia, la diversità è una ricchezza, una risorsa preziosa a cui attingere per realizzare progetti dal basso che riflettano realmente le necessità ed il punto di vista delle comunità.
Si resta, però, perplessi nel vedere come tanti antropologi, continuino a trasformare tematiche su cui si discute ormai da decenni (es. la restituzione comprensibile dei dati di ricerca, il coinvolgimento delle comunità in grandi operazioni di trasparenza, il fornire agli attori strumenti per affrontare meglio le sfide del presente, la co-costruzione di nuovi modi di creare conoscenza…etc.) in ulteriori motivi di riflessione ed elaborazione intellettuale, creando – così – una catena infinita di riflessioni che mai si risolvono in soluzioni concrete ma vanno a stratificarsi una sull’altra, aggiungendo nuova complessità ed ulteriore ‘ingarbugliamento celebrale’. Lo dimostra l’enorme divario riscontrato durante il convegno di Pescasseroli tra relatori eruditi (i portatori di conoscenze) ed un pubblico ‘passivo’ fatto di gente comune, ma anch’esso assetato di conoscenza, se pur alienato dai virtuosismi verbali e sofisticate argomentazioni, elargite impietosamente dall’élite degli scienziati sociali. Ha fatto bene il Morisi, ad affermare che un tale parlare erudito doveva essere confinato all’interno di un’aula accademica e, sicuramente, non manifestato nell’ambito di un evento pubblico. Tutto questo, sicuramente, la dice lunga su una certa antropologia radical-chic, ormai ineluttabilmente imbrigliata in quello stesso meccanismo di potere e conoscenza che, apertamente, dichiarerebbe di voler smantellare.
Dario Novellino (https://www.kent.ac.uk/anthropology-conservation/people/1046/novellino-dario) è antropologo e Difensore dei Diritti Ambientali ed Umani. Nel 2021 ha vinto il Premio Ostrom per la ‘Governance Collettiva dei Beni Comuni’ (https://www.elinorostromaward.org/2021-awardees).