(AGENPARL) – gio 25 maggio 2023 museinazionaligenova.cultura.gov.it
Mostra
Highlights
Maestri dal ‘500 al ‘700 dai Musei Nazionali di Genova
a cura di Alessandra Guerrini, Luca Leoncini, Anna Manzitti, Gianluca Zanelli
Palazzo Reale, Teatro del Falcone
26 maggio – 24 settembre 2023
Schede delle cinque opere acquistate di recente dal Ministero della Cultura per la Galleria Nazionale della Liguria con sede a Palazzo Spinola ed
esposte per la prima volta al pubblico al Teatro del Falcone
Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, Aria e Fuoco (Giunone e Vulcano), olio su tela, 1653-1655 circa
Domenico Piola, Adorazione dei pastori, olio su tela, 1655-1660 circa
Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, Quo vadis Domine?, olio su tela, 1675 circa
Gregorio De Ferrari, Muzio Scevola davanti a Porsenna, olio su tela, 1700-1705 circa
Anton von Maron, Ritratto di Maria Geronima Pellegrina (Lilla) Cambiaso con la figlia Caterina, olio su tela, 1792
Opera acquistata dal Ministero della Cultura non presente in mostra ed esposta alla Galleria Nazionale della Liguria:
Giovanni Battista Paggi, Susanna e i vecchioni (Castità di Susanna), olio su tela, 1593
highlights
Maestri dai Musei
Nazionali di Genova
Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto
(Genova, 1609 – Mantova, 1664)
Aria e Fuoco (Giunone e Vulcano)
1653-1655 circa
olio su tela, cm 198 x 287
Musei Nazionali di Genova – Galleria Nazionale della Liguria, inv. GNL 142/2022
La dea Giunone è assisa su un carro dorato
giunto davanti alla soglia della fucina di Vulcano,
dio del fuoco e della forgiatura dei metalli.
Di fronte a lui è dispiegato uno straordinario
repertorio di manufatti: elementi d’armatura,
armi intere, strumenti musicali, acquamanili e
grandi bacili in rame, oltre ad alcune sculture,
tra cui un bronzo raffigurante Ercole con il
centauro Nesso ideato da Giambologna. Il carro
alato, i pavoni, l’esotico pappagallo e la veste
blu della regina dell’Olimpo la connotano
quale rappresentazione dell’Aria, contrapposta
all’arcigno Vulcano, vestito di rosso a richiamare
il Fuoco.
Questa celebre tela, firmata in basso a sinistra
«castil[…]», unitamente al pendant con Terra
e Acqua (Offerta a Cerere) di collezione privata,
è documentata nella dimora di Vincenzo
Spinola in Strada Nuova. Nell’inventario della
collezione, redatto nel 1689, sono registrati,
invero, «un quadro grande» che «rappresenta
due dei quattro elementi cioè l’Aria, et il Fuoco»,
e un dipinto «dell’Istesso Pittore, di grandezza,
e cornice simile» che «rappresenta gl’altri due
elementi cioè la Terra, e l’Acqua». Le opere
appartenevano al padre di Vincenzo, Francesco
Spinola, poiché compaiono nell’inventario
dei beni di quest’ultimo, compilato il 5
ottobre 1667 (D. Gambino, Da Strada Nuova a
Cremolino: Vitellio e il suo viaggio nei secoli, in D.
Gambino. L. Principi, Filippo Parodi 1630-1702
Genoa’s Bernini. A Bust of Vitellius, Firenze
2016, p. 98, nota 5). L’annotazione delle tele
in questo documento potrebbe suggerire una
commissione da parte dello stesso Francesco.
Nel 1818 i due «gran quadri del Castiglione,
cioè la dea Pomona» e «Venere e Vulcano», identificati nelle tele Spinola, furono descritte
nel «Palazzo del quondam Giorgio Doria» in
Strada Nuova, dove risultano segnalate dalla
letteratura otto-novecentesca.
La datazione della tela è tutt’ora controversa:
parte della critica rileva nella natura morta
l’intervento di Jan Roos, anticipando la
realizzazione del dipinto a prima del 1638, anno
di morte del maestro fiammingo. Altri studiosi
ne collocano invece l’esecuzione negli anni
quaranta del XVII secolo, in concomitanza
con il soggiorno genovese di Castiglione dopo
la permanenza romana. Per affinità stilistiche
con alcune testimonianze conservate a Palazzo
Spinola – si cita ad esempio il Viaggio di Abramo:
la benedizione di Melchisedech (Musei Nazionali
di Genova – Palazzo Spinola, inv. GNPS 7)
– si potrebbe anche ritardare di alcuni anni
l’esecuzione dell’opera, intorno cioè al 1653-1655.
Particolarmente suggestiva è l’armatura
posizionata al centro della composizione,
chiaro riferimento al personaggio di Vulcano.
Appare suggestivo richiamare lo stesso
manufatto presente nella tela di Domenico
Piola dedicata a Venere e Amore nella fucina
di Vulcano, segnalata da Federigo Alizeri
nell’Ottocento negli ambienti di Palazzo
Negrone e acquistata nel 2020 per la Galleria
Nazionale della Liguria. Si tratta di un’opera
giovanile del Piola chiaramente influenzata
anche dalla lezione di Grechetto, come
dimostra la vivace immagine del fanciullo
collocato al centro, connotato da elementi
figurativi, a partire dal cappello rosso, tipici del
repertorio di Castiglione.
Gianluca Zanelli
Bibliografia essenziale:
F. Simonetti in Il Genio
di Giovanni Benedetto
Castiglione il Grechetto,
catalogo della mostra a
cura di G. Bruno (Genova),
Genova 1990, pp. 111-113,
schede 11-11bis, con
bibliografia precedente;
A. Marengo, A. Orlando,
La quadreria dei Doria di
Montaldeo nel palazzo di
Strada Nuova. Una prima
ricostruzione storica, in La
Sacra Famiglia di Van Dyck
e gli altri dipinti nordici di
Banca Carige, a cura di A.
Orlando, Genova 2018,
pp. 109-110; G. Montanari,
Tra ‘antico sapere’ e pittura
‘moderna’: la cultura del secolo
barocco nei dipinti e nelle
lettere di Giovanni Benedetto
Castiglione (1609-1664), in
Letterati, artisti, mecenati
del Seicento e del Settecento.
Identità culturali tra Antico
e Moderno, a cura di M.
di Macco, Firenze 2020,
pp. 10-11; V. Borniotto, Il
‘secolo’ dei Centurione nel
palazzo di Strada Nuova,
5 famiglie, 5 storie, 1
dimora affascinante. Palazzo
Lomellino di Strada Nuova,
catalogo della mostra a
cura di V. Borniotto con
la collaborazione di D.
Sanguineti (Genova),
Genova 2021, pp. 32, 34, 38.
Domenico Piola
(Genova, 1628 – 1703)
Adorazione dei pastori
1655-1660 circa
olio su tela, cm 126 x 96,5
Musei Nazionali di Genova – Galleria Nazionale della Liguria, inv. GNL 146/2022
La composizione è connotata da una
profonda meditazione nei confronti della
tradizione correggesca, nota al pittore in
ambito genovese attraverso gli esiti tardi di
Luca Cambiaso, con particolare riferimento
ai suoi notturni, come, tra gli esempi possibili,
l’Adorazione dei pastori (Milano, Pinacoteca
di Brera). Si tratta di una componente
felicemente abbinata in questa singolare
testimonianza della produzione di Domenico
Piola da evidenti stimoli esercitati dalle
opere di Giovanni Benedetto Castiglione,
soprattutto dalla celebre pala di analogo
soggetto conservata presso San Luca e
realizzata per la chiesa gentilizia degli Spinola
nel 1645. Un riferimento che ha consentito
di datare la tela in esame nella fase ancora
giovanile dell’esperienza di Piola.
Considerata «la più riuscita e spettacolare fra
le variazioni che Domenico Piola dedicò, certo
sollecitato da una committenza desiderosa
di possedere composizioni ‘alla maniera’ del
Grechetto, alla pala castiglionesca in San Luca»
(D. Sanguineti, Domenico Piola e i pittori della
sua “casa”, Soncino 2004, I, p. 45; II, p. 399,
scheda I.64), l’immagine si caratterizza per
la miracolosa luce sprigionata dal corpo del
Bambino che fa emergere dall’oscurità non solo
l’ambiente in cui è stato rappresentato l’evento
sacro, ma anche le figure dei pastori e degli
animali che animano la scena, movimentata
da una straordinaria teoria di angeli. Una
luce talmente splendente da costringere il
pastore ignudo collocato in basso a sinistra a
proteggersi con entrambe le mani gli occhi,
quasi si trattasse di un lampo improvviso.
Un chiarore così dirompente da far cessare ogni brusio e interrompere anche il suono
della dulciana – strumento a fiato di origine
rinascimentale – impugnata da uno dei pastori
accorsi ad assistere all’evento miracoloso.
Uno splendore che sottolinea e dà forma ai
riflessi che solcano le vesti, definisce il tono
degli incarnati, delinea con variegata potenza
le posture delle tante figure conferendo a
ciascuna pari distinzione, equilibrata e preziosa.
È stato individuato nel dipinto un fare
dinamico, quasi “bozzettistico”, ma
per il grado di finitezza e per l’originale
articolazione compositiva la tela si
configura non tanto come studio destinato
all’esecuzione di una pala d’altare – come
nel caso della più tarda versione realizzata
nel 1669 per la chiesa di Spotorno (Oratorio
della Santissima Annunziata) –, quanto,
piuttosto, una delle rielaborazioni “da stanza”
dell’
Adorazione dei pastori che Piola realizzò
per essere esibite nelle più rilevanti quadrerie
cittadine e non solo.
Nella composizione si coglie, oltre a un’eco
della lezione di Giulio Cesare Procaccini
individuabile in particolare in corrispondenza
della figura della Vergine e a ricordi
rubensiani, un’attenzione agli esiti raggiunti
nei primissimi anni del sesto decennio del
XVII secolo da Valerio Castello, dal cui
magistero, repentino e dirompente, sembrano
derivare, ad esempio, le diafane immagini
degli angeli in volo e i soavi volti degli astanti
inginocchiati dietro la figura stante di Maria,
non poco debitori ai modi valerieschi, anche
per la innovativa vena narrativa.
Gianluca Zanelli
Bibliografia essenziale:
V. Damian, Pittura
italiana tra Sei e
Settecento, Parigi
2004, pp. 40-43; D.
Sanguineti, Domenico
Piola e i pittori della sua
“casa”, Soncino 2004, I,
p. 45; II, p. 399, scheda
I.64; V. Borniotto in
Domenico Piola 1628-
1703. Percorsi di pittura
barocca, catalogo della
mostra a cura di D.
Sanguineti (Genova),
Genova 2017, pp. 128-
129, scheda 20, con
bibliografia precedente.
Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio
(Genova, 1639 – Roma, 1709)
Quo vadis Domine?
1675 circa
olio su tela, cm 156 x 116
Musei Nazionali di Genova – Galleria Nazionale della Liguria, inv. GNL 147/2022
L’opera è concordemente ascritta a
Giovan Battista Gaulli e identificata in
un dipinto citato nel 1761 e nel 1803 nella
collezione degli eredi del pittore. La
composizione risulta infatti ricordata,
unitamente al pendant raffigurante
un Noli me tangere – noto attraverso
testimonianze grafiche conservate presso
il Kunstmuseum di Düsseldorf e a una
variante, proveniente dalla collezione del
cardinale Giovan Francesco Negrone,
rintracciata in una collezione privata
genovese –, nell’inventario del figlio di
Giovanni Battista, Giulio Gaulli, redatto
il 3 gennaio 1761 da Ludovico Mazzanti.
Il dipinto, segnalato nella dimora della
famiglia come «S. Pietro con Cristo con la
Croce in Spalle», recava una stima pari a
cinquanta scudi. Nell’inventario del 1803
relativo ai beni di Caterina Gaulli, figlia di
Giulio, risulta annotato il «quadro rappres.e
S. Pietro, quando chiese a Gesù Cristo
Domine quo vadis» (F. Petrucci, Giovan
Battista Gaulli Il Baciccio 1639-1709, Roma
2009, pp. 582-583, scheda D30). Le misure
indicate nel documento sono compatibili
con quelle dell’opera acquisita nel 2022,
che, ricordata dunque tra la seconda metà
del Settecento e l’alba del secolo successivo
in Palazzo Gaulli a Roma e sino al 1815
appartenuta a Bartolomeo Miloni, riemerse
nel 1964 a Genova per poi transitare nella
collezione Zerbone.
Il dipinto costituisce un erudito
«omaggio alla tela di analogo soggetto
[…] proveniente dalla collezione
Aldobrandini» realizzata da Annibale Carracci e sicuramente nota a Gaulli
in considerazione dei suoi contatti con
Olimpia Aldobrandini (F. Petrucci in
Giovanni Battista Gaulli il Baciccio 1639-
, catalogo della mostra a cura di M.
Fagiolo dell’Arco, D. Graf, F. Petrucci
[Ariccia], Milano 1999, pp. 206-207, scheda
48). Egli fornì in questa raffigurazione
dell’episodio desunto dai vangeli apocrifi, in
cui Cristo compare a san Pietro durante la
fuga da Roma per sfuggire al martirio, una
sapiente interpretazione della teatralità
berniniana attraverso la postura dei
protagonisti e un’ambientazione notturna
di forte impatto emotivo, accentuata dai
bagliori che accendono i manti. Preziosità
pittoriche che caratterizzano anche la resa
delle chiavi lasciate cadere dall’apostolo
sul terreno, nonché la definizione degli
elementi architettonici e vegetali che
movimentano i piani retrostanti, con
l’inserimento nel paesaggio di un «preciso
riferimento topografico alla Campagna
Romana, sotto ai Colli Albani nel tragitto di
San Pietro verso il meridione» (F. Petrucci,
Giovan Battista Gaulli Il Baciccio 1639-1709,
Roma 2009, pp. 582-583, scheda D30).
Rilevante testimonianza della produzione
“da stanza” di Gaulli, l’esecuzione del dipinto
è stata collocata in prossimità del 1675 per
evidenti connessioni stilistiche con ulteriori
tasselli pittorici dipinti in quel periodo, tra cui
la tela raffigurante Cristo e la Samaritana al
pozzo (Roma, Galleria Spada), riferita agli anni
1677-1680.
Gianluca Zanelli
Bibliografia essenziale:
M. Fagiolo dell’Arco,
La casa museo del
Baciccio, e Appendice
(a). Indice ragionato
delle opere apparse
dopo la monografia di
R. Engass (1964), in
M. Fagiolo dell’Arco,
R. Pantanella, Museo
Baciccio in margine a
quattro inventari inediti,
Roma 1996, pp. 20, 36,
nota 38, n. 33, p. 47, fig.
28; M. Fagiolo dell’Arco,
I ‘quadri da stanza’
devozionali, ‘da galleria’
in Giovan Battista Gaulli
Il Baciccio 1639-1709,
catalogo della mostra
a cura di M. Fagiolo
dell’Arco, D. Graf, F.
Petrucci (Ariccia),
Milano 1999, p. 194; F.
Petrucci in Giovanni
Battista Gaulli il Baciccio
1639-1709, catalogo
della mostra a cura di
M. Fagiolo dell’Arco,
D. Graf, F. Petrucci
(Ariccia), Milano 1999,
pp. 206-207, scheda 48;
F. Petrucci, Baciccio.
Giovan Battista Gaulli
(1639-1709), Roma
2009, pp. 582-583,
scheda D30, con
bibliografia precedente.
Gregorio De Ferrari
(Porto Maurizio, 1647 – Genova, 1726)
Muzio Scevola davanti a Porsenna
1700-1705 circa
olio su tela, cm 122,5 x 132,8
Musei Nazionali di Genova – Galleria Nazionale della Liguria, inv. GNL 134/2022
Il soggetto qui raffigurato richiama un
avvenimento della tradizione leggendaria
romana: durante l’assedio etrusco a Roma,
un giovane aristocratico, Caio Muzio
Cordo, propose al Senato di uccidere
Porsenna, il comandante dell’esercito
nemico, per liberare la città quasi allo
stremo. Entrato nell’accampamento
etrusco il giovane commise lo sbaglio di
pugnalare a morte non il re ma il suo scriba.
Dispiaciuto per il grave errore commesso,
dichiarò con onore le sue reali intenzioni
e punì la mano destra che aveva errato
mettendola in un ardente braciere finché
non fosse del tutto consumata. Porsenna
rimase profondamente colpito dal
coraggio del giovane e decise di liberarlo,
riconsegnandogli la sua spada. Da quel
giorno il valoroso nobile venne chiamato
“Scevola” ovvero “mancino”.
È questa la vicenda messa in scena dal
pennello di Gregorio De Ferrari secondo
la corretta attribuzione proposta da Mery
Newcome (Sotheby’s, Londra, Old Master
Painting, 6 dicembre 2007, lotto 280), che
ha qui riconosciuto le qualità tipiche di
uno dei più raffinati maestri della scuola
genovese. Assolutamente autografo è il
segno colore con cui le forme prendono
vita, abitando uno spazio non strutturato,
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