
(AGENPARL) – mar 17 maggio 2022 DOCUMENTO DI SINTESI
Indagine sulle infrastrutture ed il comparto edilizio in Italia
L’Eurispes ha realizzato Indagine sulle infrastrutture ed il comparto edilizio in Italia con l’obiettivo di esplorare lo stato di salute del settore e l’adeguatezza del sistema infrastrutturale nel nostro Paese.
Un volume di circa 560 pagine che approfondisce diversi aspetti e affronta temi di attualità come le ricadute del Recovery Plan sul comparto, la sicurezza delle infrastrutture, i problemi legati al “nanismo” delle imprese e quelli derivanti da un eccesso di burocrazia e di disposizioni legislative, le ZES, il Piano per le Città, le nuove tecnologie BIM, ma anche la necessità di vigilare sul settore in termini di mantenimento della legalità.
I FRENI ALLA CRESCITA
Nel settore edile, effettuando una comparazione tra le prime 20 imprese iscritte all’Ance trenta anni fa e quelle presenti oggi, emerge la storia dell’evoluzione dell’intero comparto delle costruzioni caratterizzata da una inarrestabile crescita di imprese medio-piccole e, al tempo stesso, di un’inarrestabile “nanismo”. Un nanismo che in assenza di occasioni di lavoro, in assenza di affidamenti non ha prodotto l’aggregazione di imprese piccole e medie, anche perché nel comparto delle costruzioni la sommatoria di imprese piccole o di imprese medie non dà origine ad una grande impresa. Il rating di una impresa, aggregandosi con altre imprese, implementa solo le garanzie e le capacità organizzative per partecipare a gare di opere con importi più rilevanti, ma non implementa le caratteristiche legate alle relative “iscrizioni”.
CHE COSA SUCCEDERÀ ORA CON L’AVVIO DEL PROGRAMMA DEFINITO DAL PNRR?
Se si prende come riferimento una soglia di lavori compresa tra i 2 e i 20 milioni di euro, scopriamo che il numero di imprese potenzialmente in grado di partecipare a tali gare si attesta su un valore pari a circa 9.000 unità; oltre i 20 milioni di euro le imprese non superano le 530 unità. D’altra parte, non si può sottovalutare il costante, forte ridimensionamento del tessuto produttivo; la scomparsa dal mercato di decine di migliaia di imprese di costruzioni (tra il 2008 e il 2016 oltre 120mila) soprattutto nelle aziende più strutturate, con conseguente perdita di competenze tecniche ed esperienze; la perdita di imprese di dimensioni medie o grandi (la media di addetti per impresa è scesa a 2,6, era 3 nel 2008), e di imprese che si occupano di costruzioni di edifici (la quota di mercato è scesa al 23%).
Paghiamo, oggi più che mai, la mancanza di progetto e non siamo ancora riusciti a far fronte alle emergenze che si sono materializzate in questi dodici anni. Abbiamo assistito alla fuga di almeno 600.000 addetti. Mancanza di manodopera, aumento dei costi delle materie prime, rischiano di frenare la crescita. Scarseggiano operai e artigiani, e negli ultimi mesi il personale è di difficile reperimento. Scarseggia il personale specializzato, soprattutto nel mantenimento di strutture edili. Siamo passati dalla mancanza di lavoro alla mancanza di manodopera.
Le piccole e medie imprese sono state duramente colpite dalla crisi economica dell’ultimo decennio: operano in un contesto di domanda debole e di forte incertezza, in un momento in cui le banche, che costituiscono la loro principale fonte di finanziamento esterno, sono sottoposte a regole più stringenti che limitano la capacità di prestito e di assunzione del rischio. Di fatto, l’accesso ai finanziamenti ? e il relativo costo ? generalmente rappresentano motivo di grave preoccupazione per le Pmi, più che per le grandi imprese e non solo per la crisi attuale, ma anche in ragione di carenze generali del mercato. Spesso, l’effettivo merito di credito di una Pmi può essere sottovalutato se, ad esempio, tra colui che riceve e il mutuatario esiste un deficit informativo. Un recente report della Bce ha messo in luce che, malgrado gli intervenuti miglioramenti, l’accesso ai finanziamenti continua ad essere il problema più importante per una gran parte delle imprese di piccole e medie dimensioni. L’imposizione di requisiti patrimoniali più severi e l’accumulo di crediti deteriorati sono le ragioni che hanno fortemente vincolato la capacità delle banche di erogare ulteriori prestiti.
Oltre alla difficoltà di accesso al credito, gli obblighi per le aziende con più di 15 dipendenti si traducono in maggiori costi e adempimenti. E questo di certo scoraggia molte realtà a crescere.
COME È CAMBIATO IL MONDO DELLE IMPRESE DI COSTRUZIONE NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI?
Da un confronto tra le prime venti imprese nel 1990 e nel 2020 ci troviamo di fronte ad una crescita, in alcuni casi, di dieci volte del fatturato. Ma, cosa ancor più grave, questo confronto mostra la scomparsa in trent’anni di molte società nella graduatoria delle prime venti imprese e nell’intero comparto.
L’ESPLOSIONE DEL NANISMO IMPRENDITORIALE
Ministeri, Comuni, Province e Città metropolitane lavorano prevalentemente con il sistema delle piccole imprese regionali, a cui corrisponde oltre il 50% dell’importo aggiudicato da questi Enti, a conferma del fatto che i sistemi locali salvaguardano le piccole imprese almeno rispetto alle piccole opere, le manutenzioni stradali, la piccola edilizia, ecc. Invece, la quasi totalità della spesa dei lavori effettuata da Rete Ferroviaria Italiana, Grandi Stazioni, Enel, Anas, Poste è acquisita dalle medio-grandi imprese, e solo in sporadici casi il sistema delle piccole e medie imprese riesce a lavorare per gruppi quali Acea, Italgas, Adr o altre grandi utilities.
Uno degli ostacoli maggiori alla partecipazione delle PMI al mercato degli appalti pubblici in Italia è rappresentato, come noto, dall’inefficienza della PA, e in particolare da un sistema iper-regolamentato e spesso farraginoso che impedisce l’attuazione degli investimenti pubblici in tempi accettabili e che finisce per rappresentare un vero e proprio ostacolo alla crescita economica. Infatti, (come rilevato da una recente indagine di Unindustria Roma e Lazio sul sistema degli appalti per le MPMI), il tempo che passa tra la decisione di avviare un progetto di intervento (che coincide con la richiesta del CUP) e l’avvio della progettazione richiede in Italia, in media, 254 giorni. Ciò significa che, una volta che si è deciso di attivare un nuovo progetto e se ne è individuata la copertura finanziaria (elemento necessario per il rilascio del codice CUP), il progetto resta in stand-by per 8-9 mesi.
Una volta partiti con la progettazione degli interventi, occorre attendere più di 1 anno (372 giorni) per avere il progetto definitivo. Gli interventi di semplificazione dovrebbero essere finalizzati a contingentare i tempi di risposta dei numerosi enti coinvolti nelle fasi autorizzatorie (stabilendo tempi massimi a seconda del valore e della dimensione del progetto) e a focalizzare l’utilizzo delle risorse incrociando l’interesse nazionale degli interventi (e l’impatto sociale) e la cantierabilità immediata o pressoché immediata delle opere. Attraverso l’elaborazione dei dati ANAC, che assumono ad unità di analisi il contratto CIGL, emerge che la durata media di questa fase è di 276 giorni, con una forte divaricazione Nord-Sud. A pesare di più (1l0 giorni) è il tempo dedicato alla preparazione e pubblicazione della gara, seguito da quello necessario per passare dall’aggiudicazione alla stipula del contratto ed all’avvio dei lavori (89 giorni). Gli ostacoli maggiori riguardano: a) la preparazione della documentazione amministrativa da parte delle imprese; b) le criticità legate alla compilazione del DGUE; c) le verifiche dei requisiti ex art.80 del Codice – che vedono coinvolti 10 tipologie di soggetti diversi a cui chiedere la conferma dei requisiti dichiarati –; d) le 7 diverse tipologie di oneri informativi in capo al RUP in fase di gara. In questa fase, semplificare è possibile solo attuando alcune modifiche sostanziali al Codice e prevedendo un’unica piattaforma, all’interno della quale inserire i dati richiesti dal DGUE, modificando di volta in volta solo quelli legati alle specificità della singola gara.
RAFFORZARE LA CAPACITA DI PARTECIPARE AGLI APPALTI PUBBLICI DELLE IMPRESE PIÙ PICCOLE È UN IMPERATIVO
È essenziale capire in che modo è possibile rafforzare a livello strutturale la capacità di partecipazione delle micro e piccole imprese alle gare degli appalti pubblici.
Si dovrebbe produrre un’articolazione delle opere in modo tale da offrire un quadro di interventi pubblici ricco di occasioni in grado di coinvolgere l’enorme numero di piccole e medie imprese e questo quadro dovrebbe essere delineato subito e contenere tutte le opere che partiranno entro i prossini 24 mesi. Un quadro che deve contenere le seguenti certezze: data di attivazione delle operazioni di gara; copertura finanziaria dell’iniziativa; data di inizio dei lavori; conclusione dei lavori e articolazioni delle varie WBS; per i subappalti la indicazione delle soglie minime degli importi messi in gara.
Tale sommatoria di dati consente da un lato la costituzione di Associazioni Temporanee di Impresa con una tempistica accettabile e, al tempo stesso, rende possibile anche una motivata scelta delle varie imprese di costruzione nel partecipare, o meno, a delle gare. Si possono conoscere, sulla base dell’elenco delle opere inserite nel Recovery Plan, le varie cadenze temporali di attivazione delle opere.
Riguardo alle opere del Recovery Plan, alcune modifiche semplificative sono significative:
· introduzione di una normativa speciale sui contratti pubblici che rafforzi le semplificazioni già varate con il n. 76/2020 e ne proroghi l’efficacia fino al 2023, con particolare riguardo alle misure concernenti l’individuazione di un termine massimo per l’aggiudicazione dei contratti (con riduzione dei tempi tra pubblicazione del bando e aggiudicazione) e l’individuazione di misure per il contenimento dei tempi dì esecuzione del contratto (in relazione alle tipologie dei contratti);
· potenziamento del database di tutti i contratti tenuto dall’Autorità nazionale anticorruzione;
· semplificazione e digitalizzazione delle procedure dei centri di committenza ed interoperabilità dei relativi dati;
· riduzione e razionalizzazione delle norme in materia di appalti pubblici e concessioni;
· riduzione degli oneri documentali ed economici a carico dei soggetti partecipanti alle procedure di evidenza pubblica;
· individuazione espressa dei casi nei quali è possibile ricorrere alla procedura negoziata senza precedente pubblicazione di un bando di gara;
· regolazione espressa dei casi in cui le Stazioni appaltanti possono ricorrere, ai fini dell’aggiudicazione, al solo criterio del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più basso o del massimo ribasso d’asta;
· realizzazione di una e-platform ai fini della valutazione della procurement capacity;
· revisione della disciplina del subappalto;
· rafforzamento degli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alle azioni dinanzi al giudice.
IL MEZZOGIORNO NON PUÒ ESSERE LASCIATO INDIETRO
Dell’importo di 54 miliardi di euro del Fondo Coesione e Sviluppo 2014-2020, quindi in sei anni, sono stati erogati e spesi appena 3,8 miliardi di euro.
Dall’analisi di tutte le risorse autorizzate nei vari periodi (2000-2006, 2007-2013, 2014-2020) è emersa una disponibilità di circa 32 miliardi di competenza dei vari Dicasteri e 47,5 miliardi delle Regioni.
Guardando le disponibilità finanziarie delle Regioni del Centro-Nord scopriamo che circa il 19% è allocato in tali realtà territoriali. La preoccupazione è che circa 9 miliardi di euro siano davvero spesi, mentre le restanti risorse destinate al Mezzogiorno (pari a circa 38,5 miliardi di euro) non lo siano in tempi quanto meno comparabili. La vera preoccupazione, in realtà, va sempre ricercata nella capacità della spesa: se il Centro-Nord riesce ad attivare la spesa entro un preciso arco temporale, mentre il Mezzogiorno non ne ha la capacità, si avrà una crescita del Pil pari allo 0,7% per il Centro-Nord e per il Sud si amplifica ulteriormente il gap. La proposta di incardinare presso ogni Amministrazione titolare di risorse, Ministeri, Regioni o Città metropolitane, uno specifico Piano Sviluppo e Coesione, è senza dubbio condivisibile: in tal modo si rende più immediata l’identificazione delle responsabilità di chi è realmente preposto alla corretta erogazione della spesa ma, bisogna evitare che, pur in presenza di scostamenti tra Centro-Nord e Sud, non scatti automaticamente un immediato azzeramento delle risorse allocate ad una determinata Regione inadempiente ed immediato subentro delle competenze dell’organo centrale. Si può, in proposito, richiamare l’attenzione su un paradosso: da più parti si sottolinea il grande successo ottenuto con la disponibilità dell’Unione europea ad assicurare un volàno di risorse a fondo perduto attraverso il PNRR pari a 68,9 miliardi di euro e scopriamo oggi una disponibilità di 79 miliardi ed una ulteriore disponibilità di prossima assegnazione del Programma 2021-2027 del Fondo di Coesione pari a circa 50 miliardi. Questi dati denotano con chiarezza una incapacità del nostro Paese nell’attivare concretamente la spesa, un’incapacità che negli ultimi sei anni ha raggiunto livelli patologici. Questo paradosso impone una immediata verifica sui punti critici dell’intera macchina dello Stato che in realtà, essendo risorse che per l’80% riguardavano il Mezzogiorno, ha praticamente deciso di annullare una crescita dell’intero territorio meridionale di circa il 4% del Pil.
GLI INVESTIMENTI DEL PNRR E LE RICADUTE SUL COMPARTO
Lo scenario delle imprese industriali e dei servizi che emerge dall’indagine Istat (“Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” ottobre – novembre 2020) riguarda circa 40mila imprese, il 24% delle imprese, con almeno tre addetti, che producono però l’84,4% del valore aggiunto nazionale, impiegano il 76,7% degli addetti (12,7 milioni) e il 91,3% dei dipendenti, costituendo, quindi, un segmento fondamentale del nostro sistema produttivo.
I livelli di spesa stimati tramite elaborazioni su dati e stime di fonte Istat, pari a poco meno di 60 mld di euro, articolati per “prodotto” secondo la classificazione CPA, vede al primo posto i prodotti delle Costruzioni, con poco meno di 31 mld di euro; seguono, a distanza i prodotti associati alla Ricerca e Sviluppo (5,1 mld di euro) e gli Autoveicoli (4,3 mld di euro).
Il valore aggiunto complessivo determinato dalle spese nei settori delle Costruzioni e in quello della Ricerca e Sviluppo (includendo anche gli effetti indiretti sugli altri settori di attività economica) è pari rispettivamente a 25.775 e 4.489 mln di euro.
L’investimento previsto nel PNRR potrebbe determinare complessivamente un’attivazione di circa 38 mld di euro di valore aggiunto sul sistema produttivo, pari al 2,4% del livello di riferimento (1,8% dovuto agli effetti diretti, 0,6% a quelli indiretti).
Il tasso di ritorno degli investimenti in Costruzioni è di circa il 77% (0,77 mln di euro di valore aggiunto generato ogni milione investito), con una produttività attivata di 53,9 mila euro per unità di lavoro, un livello relativamente contenuto. Circa il 38% dell’attivazione totale è concentrato nelle Costruzioni (14,1 mld di euro, +21,1%), in prevalenza nel comparto dell’ingegneria civile (6,3 mld di euro, +81,5%). Appare percentualmente rilevante anche l’impatto sul settore della Costruzione di edifici (+3 mld di euro, +19,8%) e sulla Ricerca e Sviluppo (3,8 mld di euro, +23,3%).
LA FRANTUMAZIONE DELLE OPERE: ALLA RICERCA DI UNA ARTICOLAZIONE GARANTISTA DELLE ASPETTATIVE DELL’INTERO COMPARTO DELLE COSTRUZIONI
Di tali importi, circa 142 miliardi di euro sono relativi a interventi nel comparto delle costruzioni, cioè quasi il 45% e, escluse le risorse inserite nel Fondo Sviluppo e Coesione, nella maggior parte dei casi sono relativi ad interventi nel comparto delle grandi opere (reti ferroviarie, reti metropolitane e impianti portuali). Ci troviamo, quindi, di fronte ad una disponibilità finanziaria che rischia di essere utilizzata solo da soglie imprenditoriali elevate.
Questo non è solo un limite per la rilevante fascia di piccole e medie imprese di costruzione, ma anche per una obbligata esigenza di attivare concretamente in tempi certi la “spesa”. Riteniamo infatti in proposito utile ricordare che solo durante il periodo di attuazione della legge 443/2001 (Legge Obiettivo) la spesa annuale media nel comparto delle costruzioni ha raggiunto la soglia dei 10-11 miliardi di euro, mentre a decorrere dal 2014 tale soglia si è attestata su un valore non superiore ai 3-4 miliardi di euro all’anno.
Allora, è necessario identificare, con la massima urgenza ? non solo per soddisfare le esigenze di un numero maggiore di imprese di costruzione ma per cercare di evitare che un volume rilevante di risorse non rispetti i limiti temporali previsti nel Recovery Fund ? un elenco dettagliato di interventi, articolati in lotti costruttivi.
Escluse alcune opere relative ad assi ferroviari e stradali, in cui sarebbe difficile e rischiosa una frantumazione dell’opera, le varie Stazioni appaltanti dovrebbero suddividere gli interventi, come detto prima, in lotti non superiori a 200 milioni di euro e dotarsi del Project Management Consultant (PMC).
Analizzando attentamente il quadro delle opere supportate dalle risorse, in particolare rileggendo le singole opere, scopriamo che è possibile dare concreto avvio almeno a:
– 45 interventi compresi tra un valore di 20 e 39 milioni di euro;
– 40 interventi compresi tra un valore di 40 e 59 milioni di euro;
– 35 interventi compresi tra un valore di 60 e 100 milioni di euro;
– 55 interventi compresi tra un valore di 101 e 200 milioni di euro.
Un approfondimento sicuramente consentirebbe una ulteriore suddivisione delle opere; tuttavia, questo primo approccio ha reso possibile l’identificazione di 175 opere che rappresentano una buona base per coinvolgere un numero rilevante di partecipanti e, al tempo stesso, un’apprezzabile proposta per evitare il mancato rispetto delle scadenze comunitarie.
ALCUNE PROPOSTE STRATEGICHE PER IL SETTORE
Per garantire la certezza delle risorse, sarebbe opportuno che il nostro Paese prevedesse una soglia fissa minima di risorse per investimenti in conto capitale nel comparto delle “opere civili”. Tale soglia dovrebbe essere pari ad almeno l’1,5% del Pil, ossia pari ad un valore fisso minimo di circa 27 miliardi di euro all’anno. In questo modo il mondo privato avrebbe certezza di un fondo pubblico garantito per legge e sarebbe disposto a proporre project financing, o PPP e, al tempo stesso, lo Stato potrebbe dare vita allo strumento del “canone di disponibilità”.
Per le infrastrutture da realizzare in quanto già previste in Programmi approvati, o già in corso di realizzazione, dopo cinque anni dalla realizzazione sarebbe opportuno applicare forme di pedaggio particolari (il bollo auto sarà incrementato, le tariffe ferroviarie saranno incrementate, lo stesso quelle marittime e quelle aeree). Questo potrà dare motivazione alla emissione da parte dello Stato di “azioni per la ottimizzazione della logistica”; azioni che potranno offrire un interesse annuale del 4-7%.
L’Iva prodotta dai nodi della logistica (porti, aeroporti, piastre logistiche), per una quota pari al 25% potrà rimanere nelle competenze delle sedi che hanno reso possibile l’accumulo dell’IVA e, nel caso delle realtà portuali, questo cespite potrà diventare capitale sociale delle sei Società portuali di seguito elencate: Società portuale dell’arco ligure-toscano (Savona, Genova, La Spezia, Livorno); Società portuale campana (Napoli, Salerno); Società portuale calabra (Gioia Tauro); Società portuale pugliese (Taranto, Bari, Brindisi); Società portuale emiliano-romagnola (Ravenna); Società portuale veneto-friulana (Venezia, Trieste). Per le altre realtà portuali, quelle insulari e alcune minori, i proventi da Iva consentiranno l’attuazione di appositi programmi di riqualificazione funzionale. Mentre, nel caso delle altre piastre logistiche (interporti, centri di stoccaggio e manipolazione delle merci, centri di accumulo e distribuzione), la quota Iva implementerà i capitali sociali delle società e sarà finalizzata al ridimensionamento delle perdite causate dalla pandemia.
Appare fondamentale dare concreta attuazione alle infrastrutture già approvate. In molti casi, si tratta di opere già affidate contrattualmente e supportate anche dai vari itinerari autorizzativi. In questo impegno, sarà opportuno evitare di invocare ancora supporti normativi e procedurali: sia il Codice degli Appalti (Decreti legislativi 50/2016 e 56/2017 varati durante il Governo guidato dal Partito Democratico), sia il Decreto Legge 32/2019 convertito in Legge 55/2019 (varato dal Governo Conte I) purtroppo non sono risolutivi e, quindi, nelle more di una riforma organica risulta preferibile il ricorso ad un Decreto Legge che recuperi temporaneamente quanto previsto dal Decreto legislativo 163/2006. Una decisione, questa, che non vuole assolutamente tornare al passato, ma solo recuperare, in tempi certi, il tempo perso in un completo blocco del comparto delle costruzioni.
Per evitare che annualmente si cerchino le risorse per garantire l’avvio parziale di determinati interventi, sarebbe utile che nel Disegno di Legge di Stabilità 2022 si inserisse una voce che garantisca un volàno di risorse annuali, per le opere infrastrutturali ubicate sulle Reti Trans European Network (TEN-T), fino al 2,5% del Pil. Una tale precisazione, non solo identifica un preciso riferimento programmatico, ma rende possibile anche un’azione congiunta con gli altri Paesi dell’Unione per definire finalmente una “golden rule”, cioè una regola di bilancio secondo la quale gli investimenti pubblici possono essere scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del Patto di Stabilità fra gli Stati membri dell’Unione europea e finanziati con il ricorso a quote crescenti di flessibilità. Solo per le opere greenfield e solo per quelle appartenenti alle Reti TEN-T; con tali vincoli la proposta potrebbe essere condivisa. Pianificare le risorse in almeno due cicli di bilancio successivo, con la previsione a 3+3 anni nel redigendo Documento di Economia e Finanza (DEF), può dare certezze di pianificazione e di copertura finanziaria alle imprese pubbliche e private del settore e contribuire sia all’avvio concreto di project financing sia a raggiungere, in Unione Europea, un tasso di inflazione vicino, ma non superiore, al 2%.
Sarebbe auspicabile, infine, istituire un Fondo Unico delle risorse destinate al Mezzogiorno. Un Fondo che aggreghi tutte le varie provenienze e tutte le possibili destinazioni e che sia, davvero, un riferimento certo e trasparente delle responsabilità di chi, a vario titolo e nelle varie sedi (Ministeri, Regioni, Province, Comuni), concretamente impegna ed utilizza tali risorse. Per evitare la consueta frammentazione di risorse ubicate in tante tessere di distinti mosaici come il Recovery Fund, il Fondo Coesione e Sviluppo, il Fondo Reti TEN-T, il Piano Junker, ecc.
GIUSTIZIA, UN PROBLEMA IRRISOLTO CHE ZAVORRA IL PAESE
Da molti anni l’Eurispes segnala, tra i temi che presentano ormai carattere di emergenza e che saranno decisivi per la ripresa e il rilancio dell’economia, quello della giustizia.
La lunghezza abnorme dei processi ha portato all’Italia numerose condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo e rappresenta un ostacolo per la competitività del Paese, ma anche per il suo livello di civiltà complessiva. Quello della giustizia è un problema di funzionalità generale di un essenziale servizio che va reso ai cittadini. Sul fronte civile, la possibilità di ottenere giustizia in tempi ragionevoli è ormai quasi inimmaginabile, ma anche sul fronte penale la lentezza della nostra macchina giudiziaria è scoraggiante.
La riforma del sistema giudiziario, in direzione di una maggiore efficienza, rappresenta quindi uno dei punti chiave sui quali il nostro Paese è chiamato ad attivarsi dall’Ue anche nella messa a terra del Recovery Plan (per l’intervento in favore dell’innovazione organizzativa della giustizia sono previsti 2 miliardi). Il primo obiettivo indicato è proprio la riduzione della durata dei processi, partendo dall’innovazione dei modelli organizzativi e puntando sull’implementazione delle tecnologie e della digitalizzazione.
Se l’Italia risente del poco invidiabile primato per produzione abnorme di leggi e leggine ed è evidente la carenza di personale di sostegno al lavoro dei Giudici, la durata del processo, la sua organizzazione e gestione, i suoi percorsi e procedure sono nodi centrali per comprendere l’origine dei problemi legati alla giustizia.
Dopo la prima indagine del 2008, a distanza di oltre un decennio l’Eurispes ha fatto il punto della situazione con una nuova Indagine sul Processo Penale in Italia ottenendo risultati estremamente chiari: dei processi penali monitorati in primo grado solo un quinto (20,5%) arriva a sentenza. Nel 78,9% dei casi, il procedimento termina con il rinvio ad altra udienza. E la durata media del rinvio si attesta intorno ai 5 mesi per i procedimenti in Aula monocratica e 4 mesi per quelli davanti al Tribunale collegiale. Rispetto al 2008, la ricerca evidenzia un aumento della percentuale dei rinvii ad altra udienza (+9,6%: nel 2008 la quota era del 69,3%). L’incidenza delle sentenze è scesa dal 29,5% al 20,5%. Peggiorata la situazione anche per quanto riguarda i tempi di rinvio ad altra udienza che risultano ulteriormente allungati rispetto al 2008: da 139 nel 2008 a 154 giorni per i procedimenti in Aula monocratica e da 117 a 129 giorni per quelli davanti al Tribunale collegiale.
L’indagine conferma, sul piano nazionale, l’inconcludenza della larga parte dei procedimenti penali e la diffusione di lungaggini ed inefficienze, che rendono ancor più farraginosa la macchina della giustizia. I risultati della ricerca dimostrano, ancora una volta, che le disfunzioni del dibattimento penale, ed in particolare la sua abnorme durata, sono in primo luogo conseguenza del dissesto degli apparati giudiziari e della disorganica gestione degli stessi. Il problema della giustizia penale non è dunque costituito da un eccesso di garanzie né dalla laboriosità della formazione dialettica della prova. Non può essere la riduzione delle garanzie dell’imputato e della funzione probatoria delle parti lo strumento corretto ed efficace per contrastare l’inefficienza della giustizia penale.
A questo quadro si sovrappone, aggravando ulteriormente la situazione, una profonda crisi del garantismo, che dovrebbe rappresentare una doverosa tutela per i singoli cittadini, per i membri delle Istituzioni, per chi fa impresa. L’Italia è l’unico Paese al mondo nel quale viene chiesto ai cittadini di certificare la loro non “mafiosità”: niente di strano se si pensa che da noi, nonostante l’enunciato costituzionale, è il cittadino a dover dimostrare la propria innocenza e non al contrario lo Stato, la colpevolezza.
LE WHITE LIST COME NECESSITÀ E CRITICITÀ NORMATIVA
Nel comparto edile, il subappalto in determinati comparti del processo produttivo presenta delle criticità che vanno risolte in maniera definitiva, come garanzia di crescita equa e concorrenziale tra imprese del settore, danneggiate in primis dalle intrusioni del crimine organizzato.
Il concerto tra imprese e tutori della legalità ha portato alle seguenti azioni: garanzia di tracciabilità dei pagamenti con riguardo ai lavori pubblici; controllo degli automezzi adibiti al trasporto dei materiali per l’attività dei cantieri, al fine di rendere facilmente individuabile la proprietà degli stessi automezzi; identificazione degli addetti presenti nei cantieri; costituzione, presso tutte le Prefetture, di elenchi di fornitori, non soggetti al rischio di inquinamento mafioso.
Le prime tre misure sono state accolte dal legislatore, che nel “Piano straordinario contro le mafie” (Legge 136/2010) ha previsto norme specifiche in materia di tracciabilità dei flussi di denaro, controllo degli automezzi adibiti al trasporto dei materiali nei cantieri e identificazione degli addetti nei cantieri.
Il tema delle white list, invece, non ha ancora trovato una adeguata collocazione nel quadro normativo, in quanto si auspica un loro utilizzo più radicale e generalizzato ad uso del settore edilizio. Bisogna fare una premessa, ovvero che il tema delle white list nasce dalla constatazione che l’infiltrazione malavitosa, più che nei contratti principali, si insinua nei sub-contratti, soprattutto in relazione a specifiche attività quali espressione del controllo del territorio esercitato dalle organizzazioni criminali. Si tratta delle succitate attività che presentano le maggiori criticità nel settore, e che interessano, in maniera particolare, il ciclo delle cave, del calcestruzzo e del bitume, i cottimi, i noli a caldo e a freddo e lo smaltimento in discarica.
Molto spesso le imprese che operano nelle citate attività si trovano ad agire sul territorio in regime di monopolio naturale, e questa condizione rende inevitabile il rapporto tra loro e le imprese che operano in quei territori. Il monopolio è giustificato da condizioni di natura tecnica necessarie per un corretto e adeguato svolgimento dell’opera.
Rappresentativo e? il ciclo del calcestruzzo: per una buona esecuzione dei lavori, e? necessario che gli impianti di betonaggio siano scelti in prossimità del luogo di utilizzo, in quanto il materiale deve essere messo in opera entro due ore dal momento in cui viene introdotta l’acqua nella miscela. La distanza, dunque, intercorrente tra l’impianto di betonaggio e il cantiere non può essere superiore ai 30/40 km e quindi, ciascun cantiere è costretto, per motivi tecnici, a rivolgersi ai fornitori presenti entro quella distanza. Per quelle attività che presentano tali caratteristiche di prossimità, quindi, appare indispensabile creare, a livello prefettizio e in ciascun àmbito territoriale, un elenco dei soggetti per i quali venga escluso il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 10 del DPR 252/98. In tali elenchi sarà possibile, da parte delle imprese operanti, ricercare partner commerciali adeguati in quello stesso territorio, senza incorrere nel rischio di soggetti in “odore” di mafia. È importante concentrare l’impegno delle Prefetture in quelle attività realmente permeabili alle infiltrazioni del crimine organizzato, attraverso il controllo, puntuale e sistematico, di un numero limitato di imprese, peraltro facilmente identificabili, per il loro stretto legame con il territorio.
Altro tema inerente la questione delle white list riguarda la loro applicazione, vale a dire la loro obbligatorietà per determinati comparti produttivi. Innanzitutto, la definizione delle attività a rischio e? senz’altro un passo importante, che però rischia di essere vanificato dalla mancanza di una esplicita obbligatorietà dell’iscrizione a tali elenchi per le imprese operanti nei settori attenzionati.
L’ art. 13 del DDL “Anticorruzione” individua le attività a maggiore rischio di infiltrazione mafiosa e ne prevede l’informazione antimafia, di cui all’art. 10 del DPR 252/1998, indipendentemente dal valore delle soglie. La stessa norma prevede l’aggiornamento periodico degli elenchi, al fine di tener conto di eventuali mutamenti nelle strategie criminali di penetrazione nell’economia.
La norma è senza dubbio un importante passo in avanti, ma andrebbe completata esplicitando chiaramente l’obbligatorietà di iscrizione alle white list delle imprese operanti nei settori a rischio. In tal modo il controllo verrebbe esteso a tutte le imprese presenti in tali comparti, sia per le forniture relative a lavori pubblici che a quelle per i lavori privati.
È stato osservato, infatti, che le white list costituite su base volontaria, ovvero quelle previste attualmente dall’ordinamento, risultano del tutto inefficaci, e anzi vengono percepite dagli operatori come una complicazione aggiuntiva, piuttosto che come una tutela di tutti i soggetti coinvolti.
L’obbligatorietà delle white list dovrebbe inoltre riguardare tutti gli investimenti relativi al settore delle costruzioni, sia pubblici che privati, e non solo quelli relativi agli appalti pubblici. Circoscrivere l’applicazione delle white list ai soli contratti sottoscritti per gli appalti pubblici, infatti, lascia al di fuori del controllo sistematico delle Prefetture la grande maggioranza degli investimenti in costruzioni. È palese che le problematiche di infiltrazione mafiosa non si limitano all’attinenza col pubblico: si stima, infatti, che gli investimenti in opere pubbliche costituiscono solo il 17% del mercato delle costruzioni, mentre il restante 83% è rappresentato da interventi di natura privata. È chiaro che il controllo sui soggetti operanti in una quota minoritaria del settore (meno del 20%) non rappresenta una strategia vincente per eradicare il fenomeno delle infiltrazioni malavitose nel settore edilizio. E la questione dei subappalti, necessari per determinare l’operatività e l’efficienza di determinati cicli produttivi, rende più labili le maglie della legalità. Gli effetti di un controllo sistematico sui materiali che hanno particolare valenza sulla qualità del prodotto edilizio, come ad esempio il calcestruzzo, evidenziano la necessita? di estendere il controllo su quel settore di mercato, e non solo su quello pubblico. Non si tratterebbe, dunque, di una questione inerente àmbiti (pubblico e privato) in cui i lavori vengono realizzati, bensì di mercati sensibili (ciclo del calcestruzzo) che fanno parte del ciclo produttivo.
Una volta stabilita la necessità di estendere l’obbligatorietà delle white list a determinati settori di attività e non solo alle imprese operanti negli appalti pubblici, si riscontrano degli avanzamenti positivi della norma in tale direzione.
Il Decreto all’art.29 (“Nuove norme in materia di iscrizione nell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa”) introduce una modifica della disciplina dello strumento delle cosiddette white list, previste a livello nazionale dalla Legge n. 190/2012. Secondo la norma, le Pubbliche amministrazioni dovranno acquisire la documentazione antimafia, sia nella forma della comunicazione che in quella dell’informazione, relativa alle imprese operanti nei settori a più alto rischio di infiltrazione mafiosa, consultando obbligatoriamente le white list. Le liste prefettizie coinvolgono vari settori considerati a rischio, come, ad esempio, i servizi funerari, la ristorazione e la gestione di mense e catering. Nel comparto delle costruzioni, le categorie di iscrizione in white list sono le seguenti: trasporto di materiali a discarica per conto di terzi; trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuti per conto di terzi; estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti; confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume; noli a freddo di macchinari; fornitura di ferro lavorato; noli a caldo; autotrasporti per conto di terzi; guardiania dei cantieri.
L’iscrizione alle white list è dunque obbligatoria per i suddetti settori nell’ambito di rapporti contrattuali, diretti o indiretti, con la Pubblica amministrazione. Se da un lato si va nella direzione della individuazione chiara dei settori “a rischio”, dall’altra ciò riguarda solo i contratti pubblici.
La norma prevede che l’iscrizione all’elenco possa essere utilizzata, ai fini della certificazione antimafia, anche per attività diverse da quelle per le quali e? stata disposta l’iscrizione. La norma prevede, inoltre, una disposizione transitoria che, in prima applicazione e per un periodo non superiore a un anno dall’entrata in vigore del decreto, stabilisce che le Pubbliche amministrazioni procedano all’affidamento di contratti o all’autorizzazione di subcontratti per le attività a rischio dopo aver accertato che sia stata presentata domanda di iscrizione presso la lista prefettizia di competenza.
QUALITÀ, REGOLARITÀ, FORMAZIONE E SICUREZZA PER UNA DIFESA PROATTIVA DELLA LEGALITÀ E LA TUTELA DEI DIRITTI COSTITUZIONALE. IL PUNTO DI VISTA DEGLI IMPRENDITORI EDILI
Il PNRR rappresenta anche per l’intero comparto edile un’opportunità storica di ripartenza e rilancio. Su un totale di 222 miliardi di euro ben 108 riguardano edilizia e costruzioni, per grandi infrastrutture, opere di manutenzione e messa in sicurezza di città e territori.
Cruciale è anche il ruolo del settore creditizio, come tutela rispetto ai rischi di penetrazione da parte della criminalità organizzata, che con la sua inesauribile liquidità troppo spesso altera i normali meccanismi della concorrenza, acquisendo e controllando, più o meno direttamente, aziende del settore. In quest’àmbito la normativa europea (Basilea 3) relativa ad esposizioni finanziarie e default rappresenta spesso un limite, laddove alle imprese occorrono maggiori garanzie fideiussorie e linee di credito adeguate alla programmazione degli interventi.
È, inoltre, in gioco una straordinaria possibilità di riscatto del settore da luoghi comuni e criminalizzazioni diffuse, attraverso trasparenza e lotta alla criminalità organizzata. Gli strumenti sono: la semplificazione, l’accorciamento delle filiere decisionali, la cooperazione tra associazioni di imprenditori, Istituzioni e parti sociali.
Occorre però promuovere un cambiamento, anche culturale, in grado di arginare quella diffusa presunzione di colpevolezza piuttosto che d’innocenza ormai radicatasi nel nostro Paese, in special modo verso il comparto edilizio, automaticamente associato a corruzione, criminalità organizzata, abusi, attacco all’ambiente.
La cruciale azione di contrasto alle infiltrazioni nel settore deve essere sempre accompagnata dal diritto alla libertà d’impresa, alla responsabilità personale, alla considerazione di innocenza fino alla sentenza di condanna definitiva.