
(AGENPARL) – ven 12 gennaio 2024 Francisco José de Goya y Lucientes, Il Parasole, 1777, olio su tela, cm 104 x 152, Madrid, Museo Nazionale del Prado, inv. 773
Realizzato come cartone preparatorio per uno dei dieci arazzi destinati a decorare la sala da pranzo del Palazzo del Pardo a Madrid, fu consegnato alla Real Fabbrica di Santa Barbara il 12 agosto 1777. Nel 1856-1857 fu trasferito al Palazzo Reale di Madrid e nel 1870, per ordine reale, entrò a far parte delle collezioni del Prado.
El Quitasol è il titolo spagnolo di questo dipinto, uno dei cartoni preparatori per il ciclo di arazzi commissionati a Goya nel 1774 per decorare la sala da pranzo del Palazzo del Pardo a Madrid, la residenza di caccia dei principi delle Asturie: il futuro re Carlo IV e sua moglie Maria Luisa di Parma. Il bozzetto del Parasole fu consegnato alla Real Fabrica di Santa Barbara il 12 agosto 1777 e il soggetto fu così descritto da Goya nella ricevuta di consegna: “Rappresenta una ragazza seduta su una riva, con un cagnolino e con un ragazzo al suo fianco che le fa ombra con un parasole”.
Seppure destinato a modello per arazzo, il dipinto costituisce uno dei migliori esempi della pittura chiara giovanile del maestro spagnolo e della sua capacità creativa quando l’artista è ancora fortemente influenzato dalle opere di Giambattista Tiepolo, allora impegnato a Madrid a decorare le sale del Palazzo Reale, e di Anton Raphael Mengs, allora direttore della Real Fabrica di Santa Barbara.
Alla semplicità del soggetto fa riscontro l’assoluta libertà dell’invenzione, non più temi di caccia o composizioni allegoriche come voleva la tradizionale arazzeria fiamminga, ma scene e figure ispirate al mondo reale e alla società contemporanea spagnola. La giovane donna protetta dall’ombrellino, oggetto di gran moda nel XVIII secolo, è infatti una maja, una donna del popolo, vestita con un elegante e sfarzoso abito di foggia francese, come era d’uso in Spagna nei giorni di festa. La donna, che regge in mano un ventaglio chiuso, oggetto di vezzo, si mostra in tutta la sua bellezza al giovane uomo, un majo raffigurato con il tipico abbigliamento madrileno, ma anche al pubblico verso il quale sta rivolgendo il suo civettuolo sguardo.
Il formato dell’opera, la prospettiva dal basso verso l’alto, la composizione piramidale e il taglio diagonale del muro, che chiude come una quinta la scena a sinistra, contribuiscono a concentrare lo sguardo sulle due figure in primo piano e a focalizzare l’attenzione sul gioco di seduzione messo in atto dalla ragazza. Tutto è studiato per amplificare l’energia amorosa che traspare dall’opera: i colori sgargianti dell’arancio della sottana e del corpetto azzurro della donna, il cagnolino accucciato sul suo grembo, il sottile gioco di luci e riverberi che l’ombrellino crea sul volto della ragazza.
La luce e i colori sono senza dubbio i protagonisti del dipinto e rivelano la conoscenza di Goya della pittura classica italiana, in particolare di quella rinascimentale veneziana, ma non solo. Se l’influenza di Tiepolo e della pittura francese – in particolare del Vertumno e Pomona del pittore Jean Ranc, spesso messo in relazione con il Parasole – appare evidente nell’ariosità del dipinto, altrettanto manifesta è l’interpretazione profondamente realistica e naturalistica del soggetto a cui l’impostazione triangolare derivata dai modelli italiani conferisce equilibrio e armonia.
La tecnica pittorica con il colore steso direttamente sulla tela e la preparazione lasciata in certi tratti a vista, come gli effetti di luce ottenuti con il bianco di piombo, rivelano la profonda conoscenza dell’arte italiana sia rinascimentale che del Seicento, filtrata però attraverso l’occhio moderno di Goya. Peraltro, anche il Parasole sembra sottendere un significato allegorico: quello della “Vanitas”, che ci ricorda la transitorietà della bellezza e della giovinezza così pienamente espresse dai due giovani nel dipinto.
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Buona Ventura, 1597, olio su tela, cm 115 x 150, Roma, Musei Capitolini, inv. PC 131
Il dipinto appartenne in origine al cardinale Francesco Maria del Monte nella cui collezione è documentato nel 1627. Venduto dagli eredi all’asta, fu acquistato nel 1628 dal cardinale Carlo Emanuele Pio (1585-1641) nella cui raccolta rimase fino al 1750. Ceduto insieme a gran parte della quadreria dal principe Giberto II (1717-1776) alla Reverenda Camera Apostolica, la tela entrò a far parte della Galleria dei Quadri fondata sul Campidoglio da papa Benedetto XIV nel 1748.
La Buona Ventura è tra le prime opere certe eseguite da Caravaggio nei primi anni romani ed è datata al 1597. Il dipinto costituisce uno dei più importanti esempi delle novità dirompenti introdotte in pittura dall’artista. Il soggetto del quadro è un episodio di vita quotidiana cui sembra di poter assistere in un giorno qualunque inoltrandosi tra i vicoli e le piazze della Roma di fine Cinquecento. Partendo dal fondo della tela, Caravaggio costruisce uno spazio indefinito ma reso reale dalla luce naturale che, invadendo il campo pittorico, costruisce forme e volumi.
I personaggi sono una zingara e un giovane cavaliere, modelli viventi, vestiti con abiti contemporanei, tratti dall’osservazione del vero. Il soggetto è dunque la verità di ciò che si vede, è la realtà come si presenta ai nostri occhi e la pittura la ricrea applicandovi correttamente le leggi dell’ottica.
Ma la chiave di lettura del quadro non è solo quella della trasposizione su tela di una scena di genere: il dipinto cela anche un altro significato, un’allegoria morale che risponde in pieno al clima controriformistico del tempo. La giovane e seducente zingara, con il pretesto di leggere il futuro al cavaliere, gli prende la mano e, con un gesto rapido, gli sfila l’anello dall’anulare destro: dunque un chiaro monito a non farsi ingannare dall’apparenza delle cose né a cedere alla seduzione dei falsi profeti.