
Le recenti dichiarazioni del presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, riaccendono il dibattito sulla stabilità della Bosnia-Erzegovina e sul rispetto degli Accordi di Dayton. Al centro della polemica, le conclusioni adottate dal Partito di Azione Democratica (SDA), secondo cui il distretto di Brčko dovrebbe essere annesso alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH).
Per Dodik, questa proposta rappresenta un attacco diretto all’architettura istituzionale sancita nel 1995 a Dayton, che ha garantito la fine del conflitto ma anche un assetto estremamente delicato basato su due entità autonome e il distretto neutrale di Brčko. “Non accoglieremo una tale manovra con applausi”, ha dichiarato, sottolineando che la Republika Srpska è pronta a difendere il proprio status giuridico e territoriale.
Brčko, simbolo della fragilità post-Dayton
Il distretto di Brčko occupa un ruolo cruciale nell’equilibrio politico interno della Bosnia-Erzegovina: una sorta di microcosmo della convivenza forzata tra serbi, bosgnacchi e croati. La sua gestione separata dalle due entità principali è stata il risultato di un arbitrato internazionale volto a impedire il blocco territoriale della Republika Srpska. Qualsiasi tentativo di alterarne lo status appare, pertanto, come una minaccia alla fragile pace costruita nel dopoguerra.
Secondo Dodik, l’iniziativa dell’SDA va ben oltre la politica locale: si tratterebbe di un disegno “espansionistico” in linea con una visione della Bosnia-Erzegovina fortemente centralizzata, contraria agli equilibri multilaterali fissati a Dayton. Questa visione – sostiene Dodik – sarebbe promossa anche attraverso l’appoggio politico e religioso di parte della comunità internazionale, con un uso strumentale delle istituzioni giudiziarie e delle funzioni dell’Alto Rappresentante, Christian Schmidt.
La questione della legittimità
Un altro punto nodale sollevato da Dodik riguarda la legittimità delle istituzioni centrali e dell’Alto Rappresentante stesso. Schmidt, infatti, non è stato formalmente confermato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a causa dei veti posti da Russia e Cina, un fatto che alimenta l’accusa di “doppio standard” nelle relazioni internazionali e rafforza l’idea di una governance imposta dall’esterno.
Per Dodik, la Bosnia-Erzegovina attuale è uno Stato fittizio, incapace di esercitare una sovranità piena, mentre la Republika Srpska – a suo dire – possiede tutti gli attributi di uno Stato vero e proprio. La proposta dell’SDA su Brčko, quindi, sarebbe solo l’ennesima dimostrazione di una crisi sistemica che rende impraticabile il modello bosniaco concepito negli anni ’90.
Sovranità, divisione e futuro
Dodik si spinge a ipotizzare che l’unica soluzione sia quella di “prendere strade separate”, sottolineando però che ciò dovrebbe avvenire pacificamente, senza conflitti. È una posizione che riflette il crescente scetticismo verso la possibilità di una Bosnia-Erzegovina unitaria e funzionante. A rafforzare questa linea, Dodik richiama il cambiamento delle politiche globali, citando il disimpegno americano sotto l’amministrazione Trump dalle missioni di “state-building” all’estero.
L’eco di queste parole si inserisce in un contesto più ampio: l’indebolimento del multilateralismo classico, il ritorno della geopolitica delle sfere di influenza e il crescente disincanto verso i modelli di integrazione forzata.
Le dichiarazioni di Dodik rappresentano un chiaro segnale di allarme: senza un rispetto rigoroso degli accordi fondativi e senza un dialogo autentico tra le parti, il fragile edificio costruito a Dayton rischia di crollare su sé stesso. Il futuro della Bosnia-Erzegovina – e della stabilità nei Balcani – passa ancora una volta attraverso la questione della sovranità e del consenso, non attraverso imposizioni unilaterali o reinterpretazioni opportunistiche degli accordi di pace.