
La recente modifica alla normativa sulla cittadinanza per discendenza, introdotta con il Decreto-Legge n. 36 del 28 marzo 2025, rappresenta una scelta profondamente sbagliata.
Pur potendo apparire come un tentativo di ridurre il carico di lavoro di tribunali e consolati, la norma tradisce i principi fondamentali della Costituzione italiana. In particolare, solleva forti dubbi di legittimità rispetto all’articolo 3 (uguaglianza davanti alla legge), all’articolo 24 (diritto alla difesa) e all’articolo 22, che vieta espressamente la privazione della cittadinanza per motivi politici o di convenienza.
L’aspetto più critico è la retroattività della norma, che incide su migliaia di persone che hanno già avviato, o erano pronte ad avviare, il percorso per il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis. Si tratta spesso di individui con solide radici italiane, che molto spesso parlano la lingua, conoscono la cultura e avrebbero potuto rappresentare una risorsa preziosa per il Paese, sia in termini umani sia economici.
Oltre a comprimere i diritti dei cittadini, la norma rischia di produrre effetti negativi sull’economia italiana, in particolare sul mercato del lavoro e sul sistema produttivo che, in molti casi, trae beneficio da competenze e professionalità provenienti dall’estero.
Faccio riferimento ai cosiddetti digital nomad, professionisti altamente qualificati che scelgono l’Italia come base di vita e lavoro, attratti dalla qualità della vita, dalla cultura e dalla possibilità di operare da remoto. Molti di loro sono discendenti di cittadini italiani e intraprendono il percorso per il riconoscimento della cittadinanza proprio per stabilirsi legalmente e contribuire al tessuto economico e sociale del Paese. Escluderli a causa di una norma retroattiva è una scelta miope, che priva intere aree — spesso a rischio spopolamento — di nuove opportunità di crescita. Inoltre con intere città che stanno muorendo, pensare di incentivare queste forme di lavoro potrebbe contribuire a un rilancio per le economie locali. Agevolazioni per chi decidesse non solo di lavorare in Italia, ma anche rivendicare quello che è un suo diritto acquisito (e adesso negato), potrebbe essere un vantaggio per economie anche locali di piccoli borghi che offrono case ad un euro.
Non va dimenticato che ogni richiesta di cittadinanza comporta il versamento di un contributo unificato di 600,00 euro a persona. Con questa riforma, lo Stato non solo limita un diritto, ma rinuncia consapevolmente a un’importante entrata economica, creando un paradosso: si chiude una porta che avrebbe potuto generare risorse, legalità e integrazione.
Una norma pensata per “semplificare”, ma che finisce per escludere, dividere e, forse, impoverire il Paese. Sarebbe opportuno un ripensamento “proattivo” e propositivo e non aspettare che la Corte Costituzionale intervenga su un provvedimento che nasce con caratteristiche degne della sua competenza per essere cancellato.