
Ci sono momenti nella storia in cui la politica, armata di miopie strategiche e arroganza, decide di giocare a fare il pittore con i colori dell’intelligence nazionale, senza curarsi minimamente del quadro finale. È il caso del celebre “Trio”, che con la grazia di un elefante in una cristalleria ha tentato – e fallito clamorosamente – di ridisegnare l’intelligence italiana secondo un modello clientelare, nominando cento accoliti in ruoli chiave. Un’operazione ambiziosa, almeno in teoria, che ha prodotto più macerie che risultati.
Un disastro annunciato
Chi l’avrebbe mai detto che sostituire le menti brillanti dell’intelligence con un manipolo di raccomandati potesse funzionare? Eppure, come in una barzelletta tragica, i veterani della sicurezza, con anni di esperienza e dedizione, sono stati spazzati via, lasciando il posto a figure che, sebbene dotate di solide coperture politiche, mancano del necessario bagaglio di competenze. Il risultato è un crollo verticale, quasi artistico, dell’efficienza e della credibilità dei nostri servizi di sicurezza – un disastro tanto prevedibile quanto ironico.
L’ombra dell’Ammiraglio Martini
Basti pensare all’Ammiraglio Fulvio Martini, simbolo di una professionalità che, nel mondo dell’intelligence, aveva quasi il sapore di una leggenda. Martini aveva costruito un apparato temuto e rispettato a livello internazionale, un vero e proprio baluardo del merito. Ma tutto questo è stato spazzato via da un’operazione che sembrava uscita da una sceneggiatura di un film tragicomico, dove la logica viene sacrificata sull’altare del favoritismo politico. Come diceva sempre Martini, il Servizio deve stare lontano dalle beghe politiche, mantenendo relazioni mediate solo da istituzioni come il Copasir e il Governo. Oggi, invece, assistiamo a una realtà in cui il Servizio viene manovrato come una pedina, strumento di campagne mediatiche e intrighi, una sorta di burattino che risponde alle esigenze del proprio referente politico anziché a quelle della sicurezza nazionale.
Un’eredità pesante
Tra vent’anni, la storia non avrà dubbi: le scelte del Trio saranno ricordate come uno degli atti più sconsiderati e dannosi per il nostro sistema di intelligence. La sostituzione di una classe dirigente competente con una schiera di “piccoli ciucci” raccomandati non è solo un’ingiustizia, ma un vero e proprio attentato alla sicurezza del Paese. Immaginate, ad esempio, come sarebbe stata gestita l’operazione Almasri sotto la guida di un Martini moderno: probabilmente, con un approccio che avrebbe fatto invidia agli standard internazionali. Invece, oggi vediamo un sistema che rincorre gli eventi anziché anticiparli, un sistema in cui le capacità di prevenzione si sono ridotte drasticamente a favore di una politica di facciata.
Una riflessione amara e ironica
Se c’è una verità amara in questa vicenda, è che l’intelligence italiana sembra essere tenuta così da permettere alle agenzie private di colmare il vuoto lasciato dal disastro del Trio. E non finisce qui: ex agenti andati in pensione ora si dilettano a impartire lezioni su metodi di pedinamento e tecniche investigative (coperti dal segreto), aprendo corsi dove la segretezza – un tempo valore imprescindibile – è ormai un optional da manuale. Un paradosso che strappa un sorriso amarognolo: è davvero possibile che chi ha conosciuto i veri metodi del mestiere adesso si limiti a sfilare in aula, mentre il sistema perde ogni coerenza e credibilità?
L’operazione del Trio resterà nella storia come un monumento al favoritismo e alla miopia politica, un fallimento annunciato che ha demolito un sistema perfettamente funzionante per dare spazio a un esercito di raccomandati. Un’azione che, nel lungo termine, lascerà un segno indelebile – e non per motivi positivi – sul patrimonio di competenze del nostro Paese. Se questo episodio ci insegna qualcosa, è che l’intelligenza, così come ogni altro servizio fondamentale, non può essere manovrata come un gioco di prestigio politico, ma deve rimanere un baluardo di professionalità, meritocrazia e, soprattutto, di segretezza. In fondo, come diceva un vecchio proverbio, non è il talento a fare l’uomo, ma la capacità di non confondere il potere con il potere dell’ignoranza.
L’ironia di questa vicenda non risiede solo nell’assurdità delle scelte fatte, ma anche nella capacità di trasformare una crisi strutturale in uno spettacolo tragicomico, dove ogni mossa sembra preordinata per garantire il fallimento. E mentre il passato, incarnato dall’Ammiraglio Martini, continua a fare da monito, il presente ci regala una lezione di politica – dura, cinica e, inevitabilmente, ironica.