
(AGENPARL) – mer 16 ottobre 2024 Aderente a
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Roma, 14 ottobre 2024
Audizione CIMO
Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata
dalla diffusione epidemica del virus SARS-CoV-2 e sulle misure adottate per prevenire e
affrontare l’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2
L’evento pandemico non è prevedibile, né ha una periodicità. Nel ventesimo secolo si sono verificate
tre pandemie influenzali: nel 1918 la Spagnola, nel 1957 l’Asiatica e nel 1968 Hong Kong, causate da tre
sottotipi antigenici differenti del virus dell’influenza A (rispettivamente H1N1, H2N2, e H3N2).
La prima dichiarazione di pandemia del ventunesimo secolo risale al 2009, ma già nel novembre del
2002 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) aveva dichiarato la SARS (Severe atypical respiratory
syndrome, sindrome respiratoria atipica acuta), comparsa in Cina, una “minaccia per la salute del
mondo” a causa degli oltre 8000 casi in 32 paesi con più di 900 decessi. Da qui la necessità, da parte
della stessa OMS, di mettere in atto, nel 2003, un piano di risposta globale, insieme alle linee guida per
il controllo dell’infezione negli ospedali e per la definizione di caso.
Anche nel nostro Paese veniva redatto da una task force di esperti per il controllo della SARS un piano
nazionale di risposta alla SARS, presentato del Ministro Sirchia alle regioni il 14 maggio 2003. Alcune
Regioni si organizzarono per produrre indicazioni calate nelle singole realtà locali, ma di questi
documenti non c’è evidenza sul sito internet dell’ISS.
Successivamente, nel 2005, fu redatto il piano pandemico nazionale secondo le indicazioni dell’OMS,
con le Linee Guida per la stesura dei Piani Pandemici regionali che prevedevano una lista di azioni da
mettere in campo per contenere una eventuale pandemia da virus influenzali, quali ad esempio: stimare
il fabbisogno di DPI, mettere a punto piani di approvvigionamento e distribuzione degli stessi, recepire
i protocolli di utilizzo di DPI per le categorie professionali a rischio.
Con la nuova e recente emergenza sanitaria da SARS-CoV-2, scoppiata nel 2020, l’Italia si è trovata
improvvisamente del tutto impreparata, in quanto il Piano è risultato disatteso perché non aggiornato
né applicato nelle singole realtà regionali ed aziendali. È inoltre considerato inutilizzabile perché
ritenuto troppo specifico per le pandemie da virus influenzali.
Non è certo compito di un sindacato stimare quante regioni dal 2005 al 2020 avessero adottato un
piano pandemico regionale, ma è stato chiaramente evidente, fin dall’inizio della pandemia, che i
problemi gestionali dell’emergenza sanitaria prescindevano dalla semplice presenza e applicazione di
un piano pandemico sia al livello regionale che nazionale. È stata fin da subito evidente l’assenza della
capacità e/o della possibilità di agire in maniera coordinata ed efficace in tutto il Paese, a causa della
spiccata autonomia fortemente rivendicata dalle Regioni e della parallela marginalità del ruolo del
Ministero della Salute.
E se l’impreparazione generale è risultata tangibile nel momento in cui risultavano insufficienti, se non
addirittura assenti, le forniture negli ospedali di dispositivi di protezione individuale idonei ad affrontare
il virus, non hanno di certo aiutato le direttive fuorvianti dell’Istituto Superiore di Sanità sull’utilizzo
delle mascherine, che hanno indotto il personale sanitario ad abbassare la percezione del rischio e a
sottovalutare le possibilità di contagio: il DL “Cura Italia” n. 18 del 17 marzo 2020 autorizzava infatti
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l’utilizzo delle mascherine chirurgiche come dispositivo individuale di protezione anche negli ospedali a
seguito di una specifica indicazione dell’ISS, che ha dunque abbassato le protezioni del personale
sanitario esponendo al contagio proprio le risorse umane più preziose per contrastare il virus. Una
disposizione poi modificata, ma che ha in ogni caso causato il contagio e – molto probabilmente – il
decesso di parte dei 383 medici morti per effetto della pandemia da SARS-CoV-2.
La crisi, inoltre, è scoppiata nell’ambito di una sanità carente di risorse, personale e strutture adeguate,
frutto di venti anni di tagli e di blocco delle assunzioni che hanno portato alla riduzione dei posti letto
(-38.500) e alla grave carenza di personale e di strumentazioni. In questo scenario, la pandemia si è
dunque rivelata un vero e proprio stress test per il Servizio sanitario nazionale, il cui esito è stato del
tutto fallimentare.
Nel momento in cui si è verificato l’iperafflusso di pazienti che necessitavano di ospedalizzazione, è di
fatto scoppiato il caos: le singole Aziende si sono trovate del tutto impreparate ad affrontare la
situazione. E se in alcuni ospedali in una prima fase il problema è stato del tutto sottovalutato adottando anche provvedimenti disciplinari per aver generato allarme sociale nei confronti dei direttori
di struttura che avevano destinato una stanza apposita ai contagiati o imposto l’utilizzo delle
mascherine nei reparti –, in tutto il Paese è stato affrontato con una sostanziale improvvisazione e
dando vita alle soluzioni più fantasiose e pericolose per sanitari e pazienti.
Sono stati, ad esempio, adottati provvedimenti con cui si assegnavano turni in reparti con pazienti
Covid-19 a dirigenti medici privi della necessaria specializzazione, violando dunque i principi generali di
appropriatezza e sicurezza delle cure. Provvedimenti che continuarono ad essere assunti anche nei mesi
in cui la pandemia aveva palesemente diminuito l’intensità della sua diffusione, sguarnendo dunque i
reparti non Covid di medici, bloccando le attività elettive e allungando ulteriormente i tempi di attesa
per visite ed interventi, le cui conseguenze sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti.
Al fine di far fronte alla carenza di medici, il DL n.14/2020 del 9 marzo 2020 escludeva dalla quarantena,
con l’obbligo di continuare a lavorare, i sanitari potenzialmente infetti, prevedendo la sospensione solo
per i casi sintomatici e positivi, e fu assunto personale medico non specialista con contratti a tempo
determinato, ma senza fare riferimento agli organici, causando quindi l’impossibilità di una loro
successiva stabilizzazione.
È risultata evidente l’assenza di strumentazione idonea a curare i pazienti Covid, come i respiratori; i
reparti ordinari sono stati trasformati nottetempo in reparti di terapia intensiva e subintensiva, senza
rispettare i requisiti necessari; le gravi carenze strutturali ospedaliere, compreso il personale medico ed
infermieristico, hanno indotto le aziende ad attivare reparti cosiddetti Covid in spazi strettamente
contigui ai reparti non Covid, fino alle cosiddette “bolle Covid” interne a reparti non Covid; sono venuti
meno sistemi adeguati di filtraggio dell’aria e mancavano stanze a pressione negativa dove isolare i
“casi” per ridurre al massimo il rischio di diffusione nosocomiale dell’infezione da SARS-CoV-2. Da qui
l’espansione del virus in ambiente intraospedaliero con contagi diffusi a tutto il personale in servizio,
nonché verso i pazienti ricoverati affetti da altre patologie.
Analizzando, poi, i finanziamenti destinati alla gestione dell’emergenza, essi si sono rivelati insufficienti
e resi effettivamente disponibili tardivamente rispetto alle esigenze, finendo, con molta probabilità, per
essere destinati a spese ben diverse da quelle per le quali erano stati previsti. Basti pensare che, ad
esempio, dei 3.500 posti di terapia intensiva in più previsti dal governo Conte ne sono stati creati solo
1.600, ovvero il 47%; nei reparti di terapia subintensiva erano stati previsti 4.000 posti in più, ma ne
sono stati creati solo 1.800, il 46%.
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Il 2020 ed il 2021 sono stati anni drammatici per chi lavorava in ospedale, spingendo molti medici –
stanchi di lavorare in queste situazioni – ad abbandonare la sanità pubblica. Oltre all’assenza di una
strategia internazionale utile ad affrontare l’eventuale prossima pandemia, mancano soprattutto,
dunque, risposte concrete al risanamento delle gravi lacune presenti nel nostro Servizio sanitario
nazionale che attendiamo da tempo.
Confidiamo nel ‘Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia
influenzale (PanFlu) 2021-2023’ che inizia a tenere conto delle diverse virosi respiratorie e che risulta
utile a formulare e pianificare strategie di prevenzione e controllo, ma se questo piano resterà di fatto
inapplicato nelle singole realtà aziendali italiane e non sarà supportato da adeguate misure preventive
di controllo che ne verifichino lo stato di attuazione, la prossima pandemia potrebbe trovarci più
impreparati di quella del 2020, soprattutto se passerà, a livello nazionale, la determinazione di un
fabbisogno standard ospedaliero di personale medico e sanitario, particolarmente sottostimato per
esclusive “esigenze di cassa”, con l’unica certezza rappresentata dal non riuscire ad assicurare cure
adeguate ai cittadini né in condizioni ordinarie né, tantomeno, in condizioni di emergenza.
Guido QUICI
Presidente Nazionale CIMO