
[lid] Il 26 gennaio 2024 si è svolto a Pescasseroli, presso la sede del Parco Nazionale Lazio, Abruzzo e Molise, un incontro tra studiosi, per lo più antropologi, invitati a discutere il report commissionato un anno fa circa dallo stesso Parco dal titolo: Etnosimbiosi e centrato sui temi delle convivenze molteplici che attraversano lo spazio fisico e le pratiche quotidiane delle comunità che insistono nell’ampia porzione di territori regionali afferent al Parco. Ne è scaturita una discussione ricca, a tratti forse interna a certi temi della ricerca antropologica più recente e solo marginalmente, verso la fine, una richiesta di interventi da parte della società civile, in special modo degli allevatori, che operano e vivono dentro e ai margini dell’area protetta.
Da anni mi occupo di pastorizia e allevamento estensivo e mi confronto con regolarità, essendone parte integrante, con gruppi e associazioni in cui accanto agli studiosi partecipano pastori e allevatori, attivisti, associazioni impegnati nella difesa e sostegno a questo insieme molto variegato di attività produttive che oggi vive in modo crescente momenti di grande difficoltà sia per ragioni di natura normativa ed economica, ma anche per le conseguenze del cambiamento climatico e la trasformazione dei gusti e dei consumi alimentari. Lavoro da tempo con comunità e famiglie in Molise che hanno mantenuto attività di pastorizia estensiva e trasformazione tradizionale del latte, ma ho svolto ricerca in altre aree come quella del Gran Sasso-Monti della Laga. Mi trovo inoltre a seguire questioni inerenti la pastorizia e le transumanze anche nel quadro di progetti di ricerca nazionali e internazionali e come membro del Direttivo della Rete Appia per la Pastorizia Italiana, ma anche del Board Internazionale per l’IYRP 2026 – Anno Internazionale del Pastoralismo delle Nazioni Unite. Tutto ciò mi porta da anni a confrontarmi sia con realtà molto lontane che con innumerevoli esempi di pastorizia estensiva e di forme ibride di allevamento nostrane. Al tempo stesso, provo a riflettere da qualche anno in modo più sistematico, sui temi delle coesistenze interspecifiche sia nel quadro di progetti centrati sulle controversie animaliste in materia di cerimoniali che coinvolgono animali, sia, più recentemente, su temi relativi alle coesistenze nelle aree protette, i rischi da predazione, i processi di mediazione tra attività produttive e presenza di animali selvatici nel quadro di un Progetto di Rilevante Interesse Nazionale del MUR dal titolo “WilDebate. Coexistences, Bio-cultural Frictions and Pastoralism in Protected Areas”, appena avviatosi.
All’incontro del 26 gennaio ho accettato volentieri di partecipare per l’interesse verso il lavoro di Flavio Lorenzoni che ho avuto modo di conoscere per vari progetti, sia perché il Parco Nazionale Lazio, Abruzzo e Molise è uno dei contesti – specialmente sul confine tra Abruzzo e Molise – che ci interessa osservare nel quadro del summenzionato progetto PRIN, sia perché conosco da anni sia il Presidente che il Direttore e ho avuto modo in altre occasioni di confrontarmi con loro su alcune di queste tematiche.
L’incontro ha avuto un andamento molto ufficiale e come tale, credo, fosse stato impostato. Se l’intento fosse stato quello di attivare uno spazio di dibattito immediato con i vari attori del territorio forse si sarebbero previsti, sin dall’inizio, dei tavoli, un testo di sintesi da far pre-circolare, si sarebbero invitati a intervenire oltre alle autorità ufficiali del Parco e ad alcune/i studiose/i, anche i diversi rappresentanti di categoria come i pastori e gli allevatori dell’area, le persone impegnate nelle attività del Parco a vario titolo, gli agricoltori, gli albergatori e i gestori di attività ricettive e ludico-ricreative. Ciò non mi pare fosse stato previsto. Come studiose/i eravamo stati invitati a discutere il lavoro realizzato da Flavio Lorenzoni intorno a due specifiche aree del PNALM ritenute emblematiche di due ‘modelli’ – Pescasseroli e Picinisco sui due fronti rispettivamente abruzzese e laziale – e a valutare la praticabilità di una estensione di questo lavoro ad altre aree e comunità e nel tempo (Lorenzoni ha appena ottenuto una borsa di dottorato che lo vedrà ancora impegnato nella ricerca in quest’area su temi attinenti).
Mi chiedo se questa impostazione fosse l’unica praticabile o se si potesse pensare a una formula di confronto più capace di interloquire con tutti gli attori presenti o addirittura facilitare il coinvolgimento e la presa di parola inclusiva di tutte le categorie.
Mi chiedo se il Parco rispondesse a specifiche esigenze gestionali nel convocare questa occasione di confronto: ad esempio restituire una speciale attenzione verso un tema potenzialmente spinoso della vita delle comunità locali come i danni da predazione, la minaccia per le coltivazioni, i rischi, reali e/o percepiti, per i camminatori, visitatori e i turisti o ancora la coesistenza tra diversi modelli di attività produttive nel parco: quelle ricettivo-turistiche, quelle agro-silvo-pastorali.
Mi chiedo se con le nostre presentazioni e discussioni attente alla metodologia, all’impianto del report non abbiamo involontariamente contribuito ad allargare una distanza che talvolta si crea tra le istituzioni deputate alla conservazione e valorizzazione dei patrimoni paesaggistici e naturali protetti e le persone che materialmente li vivono e li abitano.
Un allevatore, Virgilio Morisi, verso la fine dell’incontro, ha preso la parola per sollevare questioni che anche io avevo sollevato nel mio intervento facendo riferimento alla delicata gestione delle relazioni tra pastorizia e animali selvatici o ancora tra coltivazioni e animali potenzialmente devastatori come gli ungulati, ma anche sulle condizioni di vita e produzione dei pastori, allevatori e contadini nel Parco. L’intervento verteva su questioni puntuali come la necessità di risolvere i danni da predazione non solo con le compensazioni, ma immaginando forme diverse e integrative di riconoscimento delle attività di custodia svolte da pastori e agricoltori nelle aree di parco, quelle che normalmente vengono sussunte nella categoria ampia di servizi ecosistemici e che la PAC fatica a riconoscere adeguatamente in termini monetari, ad esempio, ma anche di ruolo politico di queste categorie nella governance degli spazi protetti. L’allevatore ricordava, inoltre, come fosse importante interrogarsi e discutere sulle forme alternative di tutela delle attività produttive all’interno del Parco e invitava – come ha poi fatto successivamente in una vibrata lettera di commento e critica dell’incontro – a individuare forme di prevenzione e salvaguardia di tali attività per il futuro così da evitare ulteriore perdita di lavoro e conseguente spopolamento e indebolimento dei servizi di custodia. Si è aggiunto, più sinteticamente, l’intervento di uno zoologo, Paolo Forconi, che portava a sua volta alcune argomentazioni critiche nei confronti della gestione da parte del Parco della delicata questione delle coesistenze e della wildness.
Ai margini dell’incontro mi sono relazionata con alcuni di loro, abbiamo pensato di risentirci e confrontarci su alcune vicende specifiche che stavano raccontando di alcune delle quali ho contezza da tempo grazie alle mie ricerche e ai confronti multidisciplinari pregressi svolti nel quadro del Centro di ricerca sui Patrimoni bioculturali e lo sviluppo locale dell’Università degli Studi del Molise: la vicenda del Pantano della Zittola e dell’allevamento brado dei cavalli pentri, ad esempio, ma anche quelle dei pastori che lamentano crescenti attacchi di lupi e orsi alle loro greggi e che non di rado decidono di abbandonare il proprio mestiere perché non più sostenibile in termini economici. Tutte cose che mi vengono con regolarità rappresentate anche da altri testimoni e interlocutori appartenenti al mondo della pastorizia in altri territori prossimi e non solo.
La crisi del pastoralismo estensivo degli scorsi decenni fa parte di un insieme di processi più ampi di abbandono delle economie tradizionali del latte, delle carni e della lana, in special modo, dovuto al diffondersi ai margini delle aree protette e non solo di allevamenti intensivi in stalla che ci impongono – cosa che ho ripreso più volte nel mio intervento – un ripensamento critico dei sistemi produttivi e delle economie sia agro-silvo-pastorali che turistico-culturali delle aree protette e dei parchi.
Gli allevatori hanno non a torto criticato l’incontro per un taglio eccessivamente intellettualistico e la scarsa prossimità alla vita concreta delle comunità locali e delle aziende dell’area. In parte questa critica mi trova d’accordo e io stessa, avendo riascoltato la registrazione per intero, ho pensato che certi argomenti e certe questioni avrebbero potuto essere trattati in modo più chiaro o con un taglio meno accademico, anche se credo che in alcune occasioni è comunque importante provare a portare anche argomenti e questioni scientifiche e discuterne francamente con la popolazione locale che mi piace sempre considerare perfettamente in grado di seguire qualsiasi argomentazione e che mi rifiuto e mi rifiuterò sempre di trattare, demagogicamente, con toni semplicistici. Fa parte di un atteggiamento paritario fare uno sforzo di chiarezza delle argomentazioni, infatti, ma anche evitare di rivolgersi ai non specialisti con espressioni sommarie. Ho sempre trovato i miei interlocutori e testimoni privilegiati – pastori, allevatori, agricoltori, artigiani – nei diversi campi in cui ho lavorato persone estremamente attente e fini e perfettamente capaci non solo di comprendere, ma anche di argomentare circa le diverse questioni in campo e nell’interlocuzione con la governance dei loro territori, come d’altronde anche coloro che a Pescasseroli hanno preso la parola e poi hanno scritto il loro commento critico dimostrano bene.
Sullo sfondo del dibattito sollevato intorno all’incontro aleggiano abbastanza chiaramente dei rilievi polemici nei confronti del soggetto istituzionale referente che viene da più lontano oltre, forse, a una certa diffidenza verso la ricerca accademica. La direzione del Parco, d’altronde, chiamando un antropologo a lavorare su questi temi e quindi organizzando questo incontro sembra aver voluto fornire una cornice scientifica per le pratiche di conservazione e tutela nelle comunità locali partendo proprio da una analisi socioculturale delle sue condotte e delle sue politiche.
Ora, le discipline antropologiche, più ancora di ogni altra scienza sociale probabilmente tendono a lavorare su un sapere critico, si pongono domande e non puntano prioritariamente a fornire soluzioni, però lavorando nell’interstizio finiscono più o meno implicitamente per impostare processi di mediazione o comunque per preparare il terreno per il confronto tra le diverse parti e attori in campo. Ne hanno bisogno, in primis, di questi spazi dialogici e interstiziali, per avvicinarsi al territorio, alle comunità, per capire meglio i mondi di vita con cui lavorano.
In tal senso ritengo che l’incontro del 26 gennaio abbia assolto solo parzialmente a queste finalità avviando la riflessione sul report redatto da Lorenzoni. Di sicuro non prevedeva in origine e non ha permesso in corso d’opera un confronto reale con le parti interessate e con gli attori diversi presenti nel Parco e come tale forse ha determinato la reazione critica da parte degli allevatori. D’altro canto, forse certe critiche avanzate da questi ultimi insistono, a loro volta un po’ retoricamente, sui toni troppo eruditi dell’incontro e sull’impossibilità per gli allevatori di comprendere a fondo le argomentazioni presentate o ancora denunciando che la scelta del giorno e dell’orario non avrebbe facilitato la partecipazione di questi ultimi.
Esiste un dibattito, probabilmente un conflitto soggiacente, cosa di cui a più riprese tutti i relatori hanno parlato, ripetendo che i conflitti non possono né debbono essere sottaciuti, ma anzi fatti oggetto di una franca discussione proprio per giungere a sintesi più avanzate. La giornata e le reazioni ad essa sono atti di questo dibattito probabilmente mai davvero affrontato fino in fondo tra componenti diverse nello spazio del Parco. In fondo il tema delle convivenze/coabitazioni all’interno di un’area protetta è sempre anche questo, non solo quello della coesistenza tra wildness e attività produttive o ricettive, ma anche quello tra ordini e idee diverse in merito a ciò che si intende per tutela, protezione, conservazione, economia concreta e morale, verrebbe da dire, di una o più comunità locali.
Qui non si tratta di promuovere o bocciare né il Parco né le categorie di esperti a vario titolo coinvolte, né men che meno le aziende, le famiglie, gli individui che abitano in quei territori. Piuttosto ciò che mi pare possa servire è individuare con cura quali passaggi servano per parlarsi, capirsi, confrontarsi in modo concreto e proattivo e concedere a tali processi energie e tempi necessari di sviluppo e maturazione. Pertanto continuando a riflettere su questo incontro credo che sia importante quanto prima creare – come mi sono ripromessa di fare subito dopo proprio con gli allevatori presenti che mi hanno avvicinata – occasioni di incontro e confronto puntuale con i diversi attori con i quali è fondamentale dialogare e continuare ad approfondirei rischi, le opportunità, le criticità e le aspettative che abitano le diverse aree e ambiti del territorio interessato dal Parco Nazionale. Credo, infatti, che la ricerca antropologica sia strutturalmente legata anche a funzioni di terza missione e che chi la pratica non possa mai rifugiarsi in una posizione di osservazione distaccata dei processi proprio per quanto detto in precedenza.
Nei prossimi mesi è già previsto un ulteriore Workshop del progetto PRIN Wildebate – che abbiamo appena avviato con un kick-off nel dicembre scorso – per dare conto delle diverse aree di ricerca e approfondimento individuate e per sviluppare ulteriormente la nostra riflessione e i nostri tavoli di dialogo con i diversi attori locali e parti interessate. È nostra intenzione dare il necessario spazio a questo confronto e portare, senza estremizzazioni né contenimenti preventivi, i potenziali conflitti e le possibili vie di dialogo al cuore stesso della nostra ricerca. La ricerca ha bisogno di spazi e tempi autonomi, valutati con cura e in modo scevro da condizionamenti, nei limiti del possibile. Questa cautela posizionale, questa terzietà vale nei confronti di tutte le componenti e di tutti gli attori, pur sapendo che non equivale mai a neutralità, ma a una posizione marcata e consapevole che riflette su sé stessa in primo luogo per sentirsi abilitata a poter dire alcunché su ciò che osserva.
Letizia Bindi, antropologa – Direttrice del Centro di Ricerca BIOCULT – Università degli Studi del Molise