
(AGENPARL) – Roma, 15 dicembre 2021 – E’ ancora attuale Gaetano Salvemini? Servono ancora le voci libere nel panorama democratico? E’ ancora lecito dubitare? E’ l’era della Scienza o della Scemenza? Solo gli allocchi possono guardare al Futuro con ottimismo?
La lettura e la lettera del 15 giugno 1898 a Carlo Placci non è altro che un occhio volto al futuro del nostro paese. Una lettera che dimostra una forte sensibilità ed esprime quel senso di ribellione che ha contraddistinto l’intera vita di Gaetano Salvemini.
Scrive Salvemini a Placci «a questo mondo si rassegna solo chi non ha bisogno di fare altrimenti. La rassegnazione è la filosofia di chi non è obbligato a lavorare sempre col dubbio di perdere il lavoro, a lottare sempre col dubbio di rimanere sconfitto nella lotta, a dormire sempre col dubbio di svegliarsi e di trovarsi affamati. La rassegnazione è la filosofia dei soddisfatti. La ricchezza fra gli altri vantaggi che procura, procura anche quello della rassegnazione. Io credo che se Lei da bambino avesse sofferta la fame e l’avesse sofferta in compagnia dei Suoi fratelli e della Sua mamma, se Lei dovesse vivere sempre nell’incertezza del domani, se Lei dovesse vedere davanti a sé sempre la minaccia di vedere i Suoi figli soffrire la fame, come Lei la soffrì quando era bambino, io credo che la filosofia della rassegnazione non sarebbe fatta per Lei. Obbligato a lottare ogni minuto, finirebbe col prendere l’abitudine alla lotta, finirebbe col dare gran valore a ogni piccolo sforzo che dovrebbe fare a ogni momento per allontanare il dolore e per avvicinarsi alla felicità, finirebbe col convincersi che l’uomo non deve sospendersi al filo tenue del soprannaturale, mentre la bufera della vita minaccia di travolgerlo».
«Io vorrei essere un rassegnato, ma non posso. Quand’anche riuscissi a diventare un arci ricchissimo e vedessi con sicurezza l’avvenire mio e della mia famiglia, io continuerei ad essere sempre un ribelle, perché il mio cervello in venticinque anni di vita oramai ha preso la sua forma. Forse vedrei i miei figli godere dei frutti del mio lavoro e fare i… rassegnati, perché nascendo troverebbero la culla piena di fiocchi di cotone, mentre io l’ho trovata piena di torsi di granturco».
Ci sono parole che si assomigliano ma hanno una differenza fondamentale. Accettazione e rassegnazione sono termini che spesso vengono confuse tra di loro.
L’accettazione significa fare i conti con le cose così come sono, cioè con la realtà stessa. E lottare contro la realtà è fonte di dolore e di stress perché può non portare ad alcun risultato. Non è invocare guai, è fare i conti con i guai che già ci sono, senza chiamarne altri in causa. Ciò non significa rimanere per sempre nello stesso punto. Può significare ripartire, quindi qualcosa di dinamico.
La rassegnazione – al contrario – è un atto statico. E’ un credere che le cose rimarranno per sempre nello stesso modo. E’ in sintesi l’accettazione con la sconfitta. Il Futuro non roseo, la rinuncia a migliorare lo stato delle cose che non cambieranno.
L’accettazione ci chiede di essere svegli, pronti, vivi, pronti ad operare.
Oggi più che mai abbiamo il diritto all’accettazione, perché è l’unica strada per poter cambiare lo stato delle cose.
Rassegnarsi vorrebbe dire abbandonare le nostre cose. Accettare vuole dire ripartire, ricostruire. Accettare vuole dire prendere coscienza dall’esperienza passata e lasciare che trasformi con saggezza la nostra vita, le nostre scelte, il nostro Paese.
Rassegnarsi vuol dire smettere di imparare, rinunciare alla bellezza dei sogni, ristagnare nel dolore, nella passività.
E’ il momento dell’accettazione, non della rassegnazione.
D’altronde il miglior modo per garantire un fallimento è quello di rinunciare.