
(AGENPARL) – Roma, 30 settembre 2020 – Piove. Una cascata di goccioline trasparenti ed azzurrognole inaugura questa mia prima giornata D a d, in un’aula ben insaponata ma deserta.
I miei occhi si muovono lentamente come le vecchie spazzole di tergicristalli che ho riposto da tempo. Il nostro tecnico mi spia dalla postazione Zoom – no, non più- Teams e tenta un primo contatto con gli abitanti del nuovo pianeta Oltremodo ai confini del nostro: Resilienza. Li ho soprannominati “I Mascheranti”, perché mi piace la rima con Teatranti. Indossano enormi occhi blu maculati di giallo ed una nodosa capigliatura nera. Niente labbra – o così mi sembra- indovino un foro che fa gonfiare e sgonfiare e poi di nuovo gonfiare ritmicamente un pezzo di stoffa variopinta: un meraviglioso sigillo ermetico su quella specie di pozzo profondo.
Continua a piovere: ora sono pesanti e scure queste gocce d’acqua.
“Ehi, voi! Mi sentite?”.
Mi sorprende alle spalle la voce gracidante e corposa del tecnico. Lui non sa che sul pianeta Oltremodo nessuno può rispondere prima delle 8: coprifuoco!
Coprifuoco? Il fuoco c’entra poco con il copri, mi pare.
Io, intanto, gambe divaricate e braccia conserte, sono in silenzio e aspetto accanto alla LIM, low intelligence meter.
All’improvviso, dalla superficie piatta del video, piccoli ufo dalle antennine bianche mi vengono incontro, compiendo una sottile ellisse. Mi sembrano dei corpuscoli infarinati. Io sono ancora in silenzio. Rimaniamo tutti immobili. La somma delle distanze tra me e loro continua a mantenersi costante ma io non vedo i fuochi.
Non si accorgeranno mai di me, penso. Ho una trafittura alla spalla.
Il tecnico insiste:”Ehi, voi! Mi sentite?!”.
“Voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto”: mi balenano dentro la testa i versi di Dante.
Il tecnico insiste:”Ehi, voi! Mi sentite?!”.
Silenzio.
Questi ufo non mi sembrano aggressivi. Vorrei tentare un contatto ravvicinato, magari una ricognizione completa della superficie cerebrale ma quelli continuano a rimanere immobili nelle loro grigie navicelle. Forse ci sono delle anomalie gravitazionali? Sussurro al tecnico ma non mi sta ascoltando. Le sue dita si muovono veloci sulla tastiera; le mie, invece, tra pezzi di carta inceneriti dall’inchiostro e dalle mine, che avrei voluto mostrare alle nuove creature insieme con i miei bellissimi versi:
“benvenuti nel nostro mondo
dove tutti in tondo
la man ci diam
la mente alleniam
il cuore battere facciam”.
Ora, però, non mi sembrano così belli.
“Ragazzi!” Ancora lui. Che bella parola, scandisco sillabando. Il tecnico ha lanciato all’aria un grido nervoso. “Il tempo sta scadendo!”.
Il tempo. Avverto un’altra puntura sulla spalla sinistra. Il tempo: “quell’ordigno dalle rote dentate”. Vorrei tranquillizzarlo questo uomo dallo sguardo severo e saltellante, ricordandogli il “Carpe diem”: su, insistiamo; inviamo un convertitore di onde sonore in immagini quadridimensionali che “squadrino da ogni lato l’animo nostro informe”. Non smetto di citare a memoria, pensando agli occhi celesti di Montale in quest’aria grigia e tritata di pioggia.
9:37. Il mio tempo è scaduto. Vorrei fermarmi ma non posso. Time no time!
Mi allontano in fretta. Lungo il corridoio l’unico rumore che sento è quello della gettoniera del distributore automatico.
Non ho più scampo. Digito 140920: un lunghissimo tè verde fumante scende in picchiata dentro il mio bicchiere di plastica, mentre una grossa macchia di tè cade velocissima sulla mia camicia bianca.
Sorrido: finalmente un po’ di caldo sul cuore.