
(AGENPARL) – Roma, 07 maggio 2020 – “La “querelle” indotta dalla irruzione in diretta, in una nota trasmissione televisiva, dal pubblico ministero Nicola Di Matteo è una dimostrazione in più dello stato di “sofferenza” del nostro sistema giudiziario” questa la reazione a caldo della giurista d’impresa Lorenza Morello
“Durante il programma -prosegue Morello- il pm ha sostenuto che la sua mancata nomina alla direzione del Dap, annunciatagli come possibilità durante un colloquio privato dal ministro Bonafede, fosse la diretta conseguenza del fatto che quella nomina non sarebbe stata di gradimento a molti “capimafia” in detenzione. A confortare questa tesi, secondo il pm Di Matteo, sarebbero state intercettazioni emerse su alcuni boss mafiofccsi in cui si sosteneva che se Di Matteo fosse andato a dirigere il Dap per loro sarebbe stata “la fine”. Ora, senza voler entrare nel merito della vicenda, ciò che preme sottolineare invece qui sono i profili legali e giuridici ad essa collegati. Le dichiarazioni del pm Di Matteo rivelano purtroppo una “patologia” nella interpretazione del proprio ruolo da parte di alcuni magistrati requirenti che ritengono di poter esternare delle proprie, pur legittime, ipotesi senza poi riuscire a suffragarle con prove che, come recita il codice penale, devono essere “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ebbene, intercettazioni e “sentito dire” non sono prove.
Il motto di “Mani pulite” -prosegue la giurista- fu “non poteva non sapere” e purtroppo ancora oggi è il motto, non dichiarato, di alcuni magistrati requirenti. Ma non dobbiamo puntare il dito sul singolo pubblico ministero in quanto la responsabilità di atteggiamenti culturali che inducono a considerare delle pur legittime “sensazioni”, attraverso dei teoremi non dimostrati, in prove certe è unicamente dovuto alla organizzazione della magistratura dove, ancora oggi, in Italia, tra i pochi Paesi occidentali, non esiste la separazione tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti ed in virtù di questo il PM gode delle stesse tutele del Giudice.
Quando “una divisa” -conclude Morello -diventa la garanzia assoluta che l’uomo che la indossa è sempre sopra le parti, si genera ingiustizia sociale. E questa, in quanto tale, è nemica di tutti.”