
(AGENPARL) – Tue 15 April 2025 Commissione parlamentare di inchiesta
sugli effetti economici e sociali
derivanti dalla transizione demografica in atto
Testimonianza del Vice Capo del Dipartimento
Economia e Statistica della Banca d’Italia
Andrea Brandolini
Camera dei Deputati
Roma, 15 aprile 2025
Signor Presidente, Onorevoli Deputati,
ringrazio questa Commissione per avere invitato la Banca d’Italia a
svolgere le proprie considerazioni su un tema centrale come i cambiamenti
che potranno derivare per la società e l’economia italiana dalle attuali
tendenze demografiche1.
L’invecchiamento della popolazione è un processo globale e più veloce
di quanto non ci si aspettasse solamente dieci anni fa. È il riflesso sia di
un significativo miglioramento nello stato di salute della popolazione sia
di una diminuzione della fecondità più rapida del previsto anche in alcune
economie dell’Asia, in primis la Cina, e dell’America Latina. Nello
scenario mediano delle ultime proiezioni demografiche delle Nazioni Unite,
la popolazione mondiale dovrebbe raggiungere un picco di poco superiore ai
10 miliardi di persone intorno alla metà degli anni ottanta di questo secolo,
per poi diminuire lentamente; da quel periodo in avanti, la speranza di vita
alla nascita oltrepasserà gli 80 anni e le persone di 65 e più anni saranno più
numerose di quelle con meno di 18 anni2.
L’Italia appartiene al gruppo di paesi in cui questa evoluzione demografica
è già in corso da tempo e sarà più accentuata. Nonostante un consistente
afflusso di immigrati, la popolazione residente nel Paese è in calo dal 2015
(Fig. 1a). Secondo le proiezioni dell’Istat, tale tendenza si intensificherà da
qui al 2050, per effetto di un numero di nascite insufficiente a compensare
quello dei decessi, malgrado il saldo migratorio rimanga positivo3.
Il prolungato calo delle nascite e l’invecchiamento delle coorti del
baby-boom comporteranno una diminuzione del numero delle persone in età
da lavoro ancora più intensa: nel 2050 la popolazione di età compresa tra
Oltre ad Andrea Brandolini, alla stesura di questo documento hanno contribuito Gaetano Basso, Giulia
Bovini, Francesca Carta, Emanuele Ciani, Antonio Dalla Zuanna, Marta De Philippis, Giovanna
Messina, Stefania Romano, Martino Tasso, Pietro Tommasino ed Eliana Viviano.
Nazioni Unite, World Population Prospects 2024: Summary of Results, 2024.
Istat, “Il Paese domani: crescerà lo squilibrio tra nuove e vecchie generazioni, aumenteranno le
differenze. Previsioni della popolazione residente e delle famiglie | Base 1/1/2023”, Statistiche
Report, luglio 2024.
i 15 e i 64 anni sarà inferiore ai 30 milioni di unità, circa un milione in meno
di quanto non fosse nel 1950 (Fig. 1b); per ogni dieci persone in età da
lavoro, vi saranno otto bambini e anziani, rispetto agli attuali sei.
Il calo della popolazione e il suo invecchiamento avranno profonde
ripercussioni su molti aspetti. In questo mio intervento considererò due
questioni in particolare: le conseguenze sul mercato del lavoro, e per questa
via sulla crescita economica, e l’impatto sulle finanze pubbliche.
1. Le dinamiche demografiche, il mercato del lavoro e la crescita
economica
Gli andamenti demografici determinano il numero delle persone
potenzialmente disponibili a lavorare e così influenzano uno degli input
fondamentali del processo produttivo. La partecipazione effettiva al
mercato del lavoro dipende da molti fattori, tra cui le condizioni della
domanda di lavoro e varie scelte individuali (percorso scolastico, impegni
familiari, momento del pensionamento), ma in generale l’invecchiamento
della popolazione tende a ridurre il numero delle persone in età da lavoro,
convenzionalmente fissata tra i 15 e i 64 anni. Una minore disponibilità
di manodopera ha meccanicamente un effetto negativo sulla crescita
economica, se non è compensato da una maggiore intensità di lavoro o da
una sua maggiore produttività.
Per illustrare questo punto è utile condurre un esercizio di contabilità
della crescita. L’andamento del prodotto interno lordo (PIL) pro capite,
in termini reali, può essere scomposto nel contributo di quattro fattori:
(a) la quota di popolazione in età da lavoro; (b) la quota di questa popolazione
che è effettivamente occupata (tasso di occupazione); (c) il numero di ore
lavorate in media da ogni occupato; (d) la produttività oraria, ovvero la quantità
di beni o servizi prodotta con un’ora di lavoro4. Il primo fattore è il reciproco
del tasso di dipendenza (più 1), definito come il rapporto tra il numero dei
bambini e degli anziani e quello degli adulti in età da lavoro: è questo termine
che risente più direttamente dell’invecchiamento della popolazione.
La scomposizione si basa sull’identità:
dove POP indica la popolazione
totale, PEL la popolazione in età da lavoro, OCC l’occupazione totale e ORE le ore lavorate totali.
Per ulteriori dettagli cfr. A. Brandolini, “Declino demografico, lavoro e crescita economica in Italia”,
in S. Usai e F. Zollino (a cura di), Vecchi e nuovi progressi della statistica per l’economia, Cagliari,
UNICApress, 2024, pp. 131-165.
Dal 1950 al 2024, il PIL reale pro capite è aumentato di 6,7 volte, a un
tasso medio annuo del 2,6 per cento: l’aumento è interamente attribuibile al
miglioramento della produttività del lavoro, solo in piccola parte eroso da
una riduzione dell’orario di lavoro per addetto (Fig. 2). Considerando tre
sotto-periodi di venticinque anni, si osserva come il netto rallentamento del
PIL reale pro capite abbia essenzialmente riflesso quello della produttività
del lavoro. Il contributo delle ore lavorate per addetto è stato sempre
negativo: nei primi venticinque anni per effetto della riduzione degli orari
di lavoro contrattuali; negli anni duemila per la diffusione degli impieghi a
tempo parziale e di quelli temporanei. Il contributo del tasso di occupazione,
inizialmente negativo, è divenuto positivo nel secolo attuale. L’andamento
del tasso di dipendenza ha dato un apporto positivo allo sviluppo nell’ultimo
quarto del secolo scorso, con l’ingresso nel mercato del lavoro delle coorti
del baby-boom, ma successivamente ha avuto un effetto depressivo, con il
progressivo invecchiamento della popolazione.
Nei prossimi venticinque anni, se i tassi di occupazione, gli orari di
lavoro e la produttività oraria rimanessero immutati sui livelli attuali, il calo
della popolazione in età da lavoro implicherebbe una diminuzione dell’input
di lavoro e quindi del PIL dello 0,9 per cento all’anno. La riduzione del PIL
pro capite sarebbe più contenuta, lo 0,6 per cento annuo, per effetto della
parallela flessione della popolazione complessiva.
Quali fattori possono contrastare queste dinamiche demografiche
negative?
1.1. Le nascite
Nelle economie avanzate, il tasso di fecondità è da tempo diminuito
al di sotto della soglia di 2,1 figli per donna, il valore che manterrebbe la
popolazione stazionaria nel lungo periodo. La tendenza è particolarmente
pronunciata in Italia, dove è sceso nel 2024 al minimo storico di 1,18 figli
per donna.
L’effetto negativo sul tasso di natalità è amplificato in Italia dalla parallela forte
riduzione del numero di donne in età riproduttiva, fissata tra i 15 e i 49 anni (11,4 milioni
di donne a gennaio 2025). Nel 2024 i nati vivi sono stati 370.000; nel 1995 con un tasso
di fecondità pari a 1,19, simile a quello attuale, le nascite erano state 526.000, grazie a
un numero di donne in età riproduttiva di un quarto più alto.
Le proiezioni dell’Istat, che si basano sui giudizi espressi da un gruppo
selezionato di esperti di demografia, incorporano un recupero della fecondità
nei prossimi anni: nel 2050 il numero medio di figli per donna salirebbe
a 1,38 nello scenario mediano; a 1,59, un valore prossimo a quello della
Francia, nel limite superiore dell’intervallo di confidenza al 90 per cento
(Fig. 3a).
Nonostante la flessione della fecondità che si è realizzata, questo recupero
appare possibile se si tiene conto del fatto che la maggiore parte delle coppie
continua a desiderare due figli5. È però necessario che non solo la politica
ma anche l’intera società e il sistema produttivo riconoscano la centralità
del tema della natalità e adottino politiche e azioni concrete a sostegno dei
progetti di procreazione delle giovani coppie6.
Nel progettare le politiche a sostegno della natalità, va considerato che
non vi è più una contrapposizione tra occupazione femminile e procreazione:
al contrario, dalla metà degli anni ottanta nelle economie avanzate il tasso
di fecondità è più alto dove è più elevata la partecipazione delle donne al
mercato del lavoro7.
Questa osservazione è confermata dall’analisi dei dati italiani disaggregati per
regione o provincia. Nel 2024 il Trentino Alto-Adige era la regione italiana con il tasso
di fecondità più elevato (1,39 figli per donna), mentre il Molise e la Sardegna avevano
i tassi più bassi (rispettivamente, 1,04 e 0,91 figli per donna); il tasso di occupazione
femminile era pari al 67,2 per cento in Trentino Alto-Adige, contro il 47,3 e il 50,5 per
cento in Molise e Sardegna. La relazione a livello provinciale tra il tasso di fecondità e
il tasso di attività delle donne nella classe di età da 35 e 44 anni segue una curva a U:
la relazione è negativa nelle provincie in cui il tasso di partecipazione è inferiore alla
media, ma diventa positiva in quelle ad alta partecipazione (Fig. 3b).
Anche il basso tasso di occupazione giovanile rappresenta in Italia un
ostacolo alla realizzazione dei progetti di costruzione di una famiglia. I
giovani italiani escono tardi dal nucleo di origine, in media a 30 anni nel 2023
contro i 26,4 nell’area dell’euro; l’età media al parto delle donne italiane è
Istat, Famiglie, reti familiari, percorsi lavorativi e di vita, 2022.
A. Rosina, Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere, Milano, Vita e
Pensiero, 2021.
M. Doepke, A. Hannusch, F. Kindermann e M. Tertilt, The economics of fertility: A new era, in
S. Lundberg e A. Voena (a cura di), Handbook of the Economics of the Family. Vol. 1, Issue 1,
Amsterdam, Elsevier, 2023, pp. 151-254.
pari a 32,5 anni (nel 2023) ed è superiore ai 31,6 anni della media dell’area.
Le politiche che incoraggiano la partecipazione al lavoro dei giovani
avrebbero dunque il duplice vantaggio di sostenere l’espansione dell’input
di lavoro e di contrastare il declino della natalità.
La scelta di avere figli può essere sostenuta dai servizi alle famiglie e
dai trasferimenti monetari. Secondo la letteratura economica, l’offerta di
servizi è più efficace dei trasferimenti monetari nel permettere alle giovani
coppie di realizzare i propri desideri circa il numero di figli8. In particolare,
è importante il rafforzamento dei servizi educativi per la prima infanzia, che
facilitano la partecipazione al mercato del lavoro dei genitori, oltre ad avere
effetti positivi sui rendimenti scolastici dei bambini9.
Uno degli ostacoli alla decisione di avere un figlio è costituito dalla difficoltà delle
madri di conciliare il lavoro domestico e di cura con la propria vita professionale:
le misure che redistribuiscono o alleggeriscono il carico di lavoro domestico, quali
l’ampliamento dell’offerta di asili nido e dei relativi sussidi alla frequenza, possono
pertanto rivelarsi particolarmente efficaci nel sostenere la natalità. Secondo un modello
calibrato sull’economia italiana in cui le famiglie scelgono il numero di figli, l’offerta
di lavoro retribuito nonché quella di lavoro domestico e di cura, l’incremento della
copertura di asili nido fino al 33 per cento dei potenziali utenti a livello nazionale avrebbe
un effetto positivo sulla fecondità (1,44 figli dopo 3 anni e 1,5 dopo 9 anni rispetto a
1,41 nello scenario base) e sull’occupazione femminile (62 per cento rispetto al 60 nello
scenario base)10.
I risultati non sono invece univoci relativamente all’efficacia dei sussidi
monetari. Nei casi in cui si sono stimati effetti positivi sulla natalità, gli
M. Doepke et al., op. cit.
Cfr., fra gli altri, J. Heckman, S.H. Moon, R. Pinto, P. Savelyev, e A. Yavitz, Analyzing social
experiments as implemented: A reexamination of the evidence from the High Scope Perry Preschool
Program, “Quantitative economics”, 1, 2010, pp. 1-46; C. M. Herbst, Universal child care, maternal
employment, and children’s long-run outcomes: Evidence from the US Lanham act of 1940, “Journal
of Labor Economics”, 35(2), 2017, pp. 519-564; J. Dietrichson, I.L. Kristiansen, e B.A. Viinholt,
Universal preschool programs and long-term child outcomes: a systematic review, “Journal of
Economic Surveys”, 34(5), 2020, pp. 1007-1043; F. Carta e L. Rizzica, Early kindergarten, maternal
labour supply and children’s outcomes: evidence from Italy, “Journal of Public Economics”,
158, 2018, pp.79-102. Effetti positivi sugli apprendimenti sono associati anche all’offerta di percorsi
scolastici a tempo pieno nella scuola primaria: cfr. G. Bovini, N. Cattadori, M. De Philippis e
P. Sestito, The short and medium term effects of full-day schooling on learning and maternal labour
supply, Banca d’Italia, Temi di discussione, 1423, 2023.
A. Mattia, Can you do the dishes? Intra-household time use and division of labor, Banca d’Italia,
in preparazione.
incentivi sono di ammontare assai elevato, generalmente di un ordine di
grandezza superiore al 20 per cento del reddito medio della donna11.
Un rilevante cambiamento nelle scelte di fecondità modificherebbe
le dinamiche demografiche di lungo periodo, ma non potrebbe comunque
compensare il calo della popolazione in età da lavoro nel medio periodo.
Nell’orizzonte al 2050 qui considerato, le maggiori nascite tenderebbero
peraltro ad aumentare il tasso di dipendenza e, di conseguenza, l’impatto
negativo della demografia sulla dinamica del PIL pro capite.
1.2. I flussi migratori
Un fattore demografico che può controbilanciare il saldo naturale
negativo anche nel breve periodo è l’immigrazione. L’ingresso di cittadini
stranieri ha interamente sostenuto la crescita della popolazione residente
dall’inizio degli anni duemila fino al 2014; ciò non è più avvenuto dal 2015
quando i flussi in entrata si sono ridotti e l’emigrazione di italiani e stranieri
è aumentata (Fig. 4).
Al 1° gennaio 2024 risiedevano in Italia 5,2 milioni di cittadini stranieri e 6,7 milioni
di persone nate all’estero. Il saldo migratorio è stato relativamente elevato dai primi anni
duemila fino alla crisi finanziaria globale, quando ha raggiunto il picco di quasi l’1 per
cento della popolazione. Dopo essere diminuito per diversi anni, ha ricominciato a crescere
nel periodo successivo alla pandemia di Covid-19, sospinto dalla regolarizzazione degli
immigrati illegali ai sensi del DL 34/2020 e dal significativo afflusso di rifugiati a seguito
dell’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2022 l’afflusso di immigrati, in proporzione alla
popolazione, è stato maggiore che in Francia ma significativamente più contenuto che in
Germania, Paesi Bassi e Spagna.
L’immigrazione è stata finora cruciale per colmare i vuoti creati nel
mercato del lavoro dal declino della popolazione autoctona. Nel 2024 gli
stranieri rappresentavano il 10,5 per cento dell’occupazione totale, ma
raggiungevano il 15,1 per cento tra gli operai e gli artigiani e il 30,1 tra il
personale non qualificato; erano il 16,9 per cento nelle costruzioni e il 20,0
Hoynes, H., Miller, D. e Simon, D. (2015), Income, the earned income tax credit, and infant health,
“American Economic Journal: Economic Policy”, 7(1), pp. 172-211; Kuka, E. e Shenhav, N. A.,
Long-run effects of incentivizing work after childbirth, “American Economic Review”, 114(6), 2024,
pp. 1692-1722; Cohen, A., Dehejia, R. e Romanov, D., Financial incentives and fertility, “Review of
Economics and Statistics”, 95(1), 2013, pp. 1-20; Raute, A., Can financial incentives reduce the baby gap?
Evidence from a reform in maternity leave benefits, Journal of Public Economics, 169, 2019, pp. 203-222.
in agricoltura. I lavoratori immigrati per lo più svolgono occupazioni di bassa
qualità e peggio retribuite, meno accette ai lavoratori italiani.
Secondo dati dell’INPS per il settore privato non agricolo, nel 2019 tra i lavoratori
dipendenti che avevano una retribuzione settimanale appartenente al quinto meno pagato
dell’intera distribuzione il 35 per cento era nato all’estero, a fronte di solo il 7 per cento
nel quinto più pagato. Queste stime riguardano la componente regolare dell’occupazione
dipendente che ha un contratto dichiarato all’INPS: il quadro si aggraverebbe se fossero
considerati anche gli occupati irregolari e gli addetti dell’agricoltura.
Anche nei prossimi anni i flussi migratori svolgeranno un ruolo
determinante. Nelle proiezioni dell’Istat, l’andamento della popolazione
residente incorpora un consistente afflusso netto dall’estero: l’immigrazione
complessiva dal 2024 al 2050 è pari a 5 milioni di persone nello scenario
mediano, con un intervallo di previsione da 3,4 a 6,7 milioni.
Il saldo migratorio con l’estero si riduce da un picco di 262.000 persone nel
2024 a 198.000 nel 2030, per poi stabilizzarsi intorno a 165.000 persone all’anno dal
2039 al 2050. Questi valori possono rivelarsi molto imprecisi in entrambe le direzioni,
come suggeriscono sia l’elevata variabilità della serie storica sia l’ampio intervallo di
confidenza (al 90 per cento; Fig. 5).
Nell’ipotesi in cui il saldo migratorio con l’estero fosse invece nullo e la composizione
della popolazione straniera rimanesse esattamente quella del 2024, nel 2050 il numero
totale delle persone residenti in Italia non raggiungerebbe i 50 milioni e quello delle
persone in età da lavoro sarebbe di 3,9 milioni più basso di quanto previsto nello scenario
mediano; il tasso di dipendenza salirebbe al 92 per cento. Quest’ipotesi, per quanto
evidentemente irrealistica, mostra la rilevanza dei flussi migratori per gli equilibri
demografici nel medio periodo.
L’attrazione e l’integrazione degli stranieri sono processi complessi e
in continua evoluzione, che necessitano di strumenti efficaci e aggiornati
secondo le migliori esperienze internazionali. Sono necessarie politiche
che garantiscano flussi migratori regolari che incontrino le necessità delle
imprese e assicurino un’integrazione completa per chi arriva nel Paese12.
L’impianto normativo che tuttora regola gli ingressi e i permessi di soggiorno
(L. 40/1998 e D.lgs. 286/1998, Testo unico sull’immigrazione, come modificati dalla
L. 189/2002) e l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati (L. 39/1990 e L. 189/2002)
è stato elaborato tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente. Alcune riforme
F. Billari, Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia, Milano, Egea, 2023.
recenti hanno apportato importanti innovazioni alla gestione degli ingressi per motivi
di lavoro, anche al di fuori del meccanismo delle quote che rimane alla base del sistema
italiano. In particolare, il DL 20/2023 e il DL 145/2024 hanno ampliato le possibilità di
permanenza in Italia per gli studenti stranieri che convertono il permesso di soggiorno
per motivi di studio in uno per lavoro e per chi sostiene i corsi di lingua e di qualificazione
professionale organizzati nel paese di origine dalle regioni italiane e dalle associazioni
dei datori di lavoro. L’efficacia delle nuove norme dipenderà dalle concrete modalità con
cui verranno attuate e dall’efficienza del processo amministrativo.
Nel contesto normativo attuale permangono spazi per migliorare
significativamente l’attrattività dell’Italia, in particolare per i lavoratori
stranieri qualificati13. Interventi che, oltre alla formazione linguistica,
favoriscano il riconoscimento delle qualifiche professionali ottenute all’estero,
permetterebbero di massimizzare i benefici a lungo termine dell’immigrazione
meno qualificata, come dimostrato dall’evidenza internazionale14.
L’Italia destina meno del 25 per cento delle risorse europee del Fondo Asilo,
Migrazione e Integrazione (AMIF) a misure di integrazione attiva; nessuna a informazione,
orientamento, sportelli unici, formazione civica e di altro tipo, eccetto i corsi di lingua.
Secondo l’indagine europea sulle forze di lavoro, nel 2021 il 51,1 per cento degli
immigrati in Italia non conosceva la lingua italiana prima di trasferirsi nel nostro Paese,
quasi cinque punti percentuali in più della corrispondente media per Francia, Germania,
Paesi Bassi e Spagna; meno di un immigrato ogni cinque partecipava in Italia a corsi di
lingua, rispetto a più di uno ogni quattro negli altri principali paesi dell’area dell’euro.
1.3. La partecipazione al mercato del lavoro
L’aumento dei tassi di partecipazione può contribuire in modo sostanziale
ad accrescere l’input di lavoro, contrastando gli effetti del declino demografico.
Ciò è avvenuto dall’inizio degli anni duemila a oggi; potrà continuare a farlo
nei prossimi venticinque anni solo se ci saranno cambiamenti significativi
nella domanda e nell’offerta di lavoro. Se i tassi di partecipazione per genere
e classi di età continuassero a crescere allo stesso ritmo dell’ultimo decennio,
G. Basso, E. Gentili, S. Lattanzio e G. Roma, Flussi e politiche migratorie in Italia e in altri paesi
europei, Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, 923, 2025.
C. Gathmann e N. Keller, Access to Citizenship and the Economic Assimilation of Immigrants,
“The Economic Journal”, 128, 2018, pp. 3141-3181; H. Brücker, A. Glitz, A. Lerche e A. Romiti,
Occupational recognition and immigrant labour market outcomes, “Journal of Labor Economics”,
39, 2021, pp. 497-525; J.N. Arendt, C. Dustmann e H. Ku, Refugee migration and the labour market:
lessons from 40 years of post-arrival policies in Denmark, “Oxford Review of Economic Policy”, 38,
2022, pp. 531-556; M. Foged, L. Hasager e G. Peri, Comparing the effects of policies for the labor
market integration of refugees, “Journal of Labor Economics”, 42, 2024, pp. S335-S377.
a parità di tutte le altre condizioni, il PIL calerebbe di quasi il 9 per cento da
qui al 2050, dell’1,6 per cento in termini pro capite (Fig. 6).
Vi sono ampi margini su cui si può intervenire. Nonostante i progressi
degli ultimi quindici anni, il tasso di partecipazione italiano nel 2024 era
ancora il più basso nell’UE: pari al 66,6 per cento, era di circa 9 punti
percentuali inferiore alla media europea. Il divario era particolarmente ampio
tra le donne e i più giovani.
La partecipazione femminile – Nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni,
nel 2024 era attivo il 57,6 per cento delle donne, oltre 13 punti percentuali
in meno della media europea; nel Mezzogiorno tale quota era appena il 43,1
per cento (Fig. 7). Le donne rappresentano circa due terzi di chi non cerca né
è disponibile a lavorare. Escludendo le studentesse, i carichi di cura familiari
sono il principale ostacolo al lavoro per oltre metà di queste donne.
Vi è ampia evidenza che la nascita di un figlio abbia un impatto negativo
sia sulla probabilità che le donne rimangano nel mercato del lavoro dopo la
maternità sia sui redditi di quelle che invece continuano a lavorare (Fig. 8)15.
Queste penalizzazioni subite dalle donne con figli rispetto alle donne senza
figli, e in misura ancora più forte rispetto agli uomini, sono particolarmente
persistenti. Se in Italia si rimuovessero gli ostacoli che impediscono alla
donna di continuare a lavorare dopo la maternità, nei prossimi vent’anni si
riuscirebbe a colmare più di un terzo del divario di genere nell’occupazione16.
Per progredire verso questo obiettivo sono necessarie politiche pubbliche
mirate. Come già menzionato, tra le misure più efficaci rientrano l’ampliamento
dell’offerta di servizi per l’infanzia accessibili e di qualità, soprattutto nelle
regioni del Mezzogiorno dove la copertura è particolarmente bassa, e la
previsione che alcuni trasferimenti monetari siano condizionati all’acquisto
di servizi di cura, riservando un trattamento preferenziale ai nuclei in cui
entrambi i genitori lavorano. È inoltre fondamentale promuovere un’equa
H. Kleven, C. Landais, J. Posch, A. Steinhauer e J. Zweimuller, Child penalties across countries:
evidence and explanations, “AEA Papers and Proceedings”, 109, 2019, pp. 122-126; A. Casarico e
S. Lattanzio, Behind the child penalty: understanding what contributes to the labour markets costs of
motherhood, “Journal of Population Economics”, 36, 2023, pp. 1489-1511.
M. De Philippis e S. Lo Bello, The Ins and Outs of the Gender Employment Gap: Assessing the Role
of Fertility, Banca d’Italia, in corso di pubblicazione.
distribuzione dei compiti domestici e di cura, ad esempio incentivando un
maggiore utilizzo del congedo parentale da parte dei padri17.
Una politica incentrata solo sulle “neo-madri” avrebbe però un effetto
contenuto. Se si riuscisse a coinvolgere tutte le donne, anche quelle che
hanno avuto figli in passato e sono attualmente non occupate, si riuscirebbe a
chiudere gran parte del divario occupazionale di genere in Italia18: andrebbero
disegnati incentivi alle imprese mirati, oltre a specifiche forme di politiche
attive, come programmi di formazione e assistenza nella ricerca di lavoro.
L’allungamento della vita lavorativa – Le riforme pensionistiche
introdotte dagli anni novanta hanno sospinto la partecipazione al mercato
del lavoro nelle fasce di età più avanzate. Questa tendenza si è riflessa in
un aumento dell’età media effettiva di pensionamento per vecchiaia da
62,1 anni nel 2012 a 64,6 nel 202319.
Tra il 2004 e il 2024, il tasso di partecipazione tra i 55 e i 64 anni è aumentato dal
31,7 al 61,3 per cento, pur rimanendo di quasi otto punti percentuali inferiore alla media
dell’area dell’euro (Fig. 9a). Quello nella fascia di età tra 65 e 74 anni è cresciuto dal
5,0 al 10,7 per cento (Fig. 9b), ma è ancora inferiore a quello di paesi come la Germania
(15,9 per cento).
Il prolungamento della vita lavorativa non discende solo dalle regole
previdenziali, ma anche dal miglioramento delle condizioni di salute. Nel
2024, la speranza di vita a 65 anni era pari a 21,2 anni, quasi due in più
rispetto a vent’anni prima. Ancora più marcato è stato l’incremento della
speranza di vita in buona salute alla stessa età, passata da 7,5 anni nel 2013
a 10,1 nel 2022 (ultimo dato disponibile), un valore superiore di un anno
rispetto alla media dell’UE.
Questi dati suggeriscono che l’analisi della partecipazione al lavoro delle classi
anziane dovrebbe tenere conto del miglioramento delle capacità cognitive e fisiche
delle coorti di popolazione più recenti rispetto a quelle precedenti, una volta che sia
raggiunta l’età avanzata. Per esempio, stime recenti per l’Inghilterra suggeriscono come
le capacità di una persona di 68 anni nata nel 1950 fossero in media superiori a quelle
F. Carta, M. De Philippis, L. Rizzica ed E. Viviano, Women, labour markets and economic growth,
Banca d’Italia, Seminari e convegni, 26, 2023.
M. De Philippis e S. Lo Bello, op. cit.
INPS, XXIII Rapporto Annuale, 2024.
di una persona di 62 anni nata nel 194020. Secondo uno studio recente, l’età cronologica
è un’approssimazione inaffidabile del funzionamento fisiologico delle persone a causa
delle notevoli differenze nel modo in cui le persone invecchiano e può quindi fornire
risultati imprecisi sugli effetti economici dell’invecchiamento21.
L’allungamento ulteriore della vita lavorativa appare più facilmente
perseguibile per i lavoratori impiegati in professioni a medio-alto contenuto
cognitivo, per le quali la produttività tende a ridursi più lentamente con l’età
e non dipende dalla forza fisica. In Italia, tuttavia, persiste un’elevata quota
di occupazioni ad alta intensità manuale.
La partecipazione dei giovani – In Italia la partecipazione è particolarmente
bassa anche tra i giovani. Il divario rispetto agli altri principali paesi europei
dipende da vari fattori. Gli studenti universitari impiegano più tempo per
conseguire la laurea (in media all’età di 25,7 anni nel 2023)22 e, una volta
laureati, incontrano maggiori difficoltà nell’inserimento nel mondo del
lavoro. Inoltre, in Italia solo l’8,7 per cento degli studenti tra i 15 e i 29 anni
lavora o è in cerca di un lavoro durante gli studi, a fronte del 28,6 per cento
nella media dell’UE (dati riferiti al 2023).
In Italia, la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni che si dichiarano studenti nella
Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat è aumentata dal 27,1 per cento nel 2004
al 37,7 nella prima metà del 2024. Lo scorso anno i giovani in questa fascia di età
rappresentavano quasi la metà dei non occupati che non cercavano né desideravano un
impiego; oltre otto su dieci dichiaravano di non essere disponibili a lavorare per motivi
legati allo studio.
Questi fattori contribuiscono a spiegare perché l’aumento dei livelli di
istruzione – fenomeno in sé positivo e osservato anche nel resto d’Europa –
si sia accompagnato in Italia a un marcato calo della partecipazione giovanile
al lavoro: dal 2004 a oggi il tasso di attività nella fascia 15-34 anni è sceso di
quasi dieci punti percentuali. È importante evitare che la maggiore frequenza
degli studi superiori si rifletta in un allontanamento dei giovani dal mercato
del lavoro.
J.R. Beard, K. Hanewald, Y. Si, J.A. Thiyagarajan e D. Moreno-Agostino, Cohort trends in intrinsic
capacity in England and China, “Nature Aging”, 5, 2025, pp. 87-98.
R. Kotschy, D.E. Bloom e A.J. Scott, On the Limits of Chronological Age, NBER Working Paper,
33124, 2024.
Almalaurea, Rapporto 2024 sul profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati, 2024.
Una maggiore aderenza tra le competenze sviluppate nei corsi di studio e quelle
richieste dalle imprese faciliterebbe un più rapido inserimento occupazionale degli
studenti. Per esempio, gli Istituti Tecnici Superiori, ancora poco diffusi, sono nati per
combinare la necessità di maggiori livelli di istruzione con quella di offrire percorsi di
studio più vicini al mondo del lavoro.
Allo stesso tempo, è necessario adottare politiche che coinvolgano
l’ampio numero di giovani che non lavorano né partecipano a corsi di studio o
formazione, che rappresentano il 15,2 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni.
1.4. La produttività del lavoro
Se nel 2050 i tassi di partecipazione dei giovani e delle donne
raggiungessero quelli che si osservano attualmente nella media dell’UE,
senza un aumento della produttività del lavoro, il PIL pro capite rimarrebbe
sostanzialmente stabile, ma quello complessivo si ridurrebbe del 6,8 per
cento. Solo raggiungendo i livelli più elevati tra i paesi dell’UE (quelli
della Svezia) si riuscirebbe a compensare il calo del PIL complessivo. Una
sostanziale ripresa della produttività è quindi una condizione necessaria per
la crescita economica del Paese.
Dal 2000 la produttività (oraria) del lavoro è rimasta sostanzialmente
stagnante (Fig. 10). Da tempo la Banca d’Italia si interroga sulle cause di
questo ristagno e sulle possibili soluzioni23. La loro trattazione esula dai temi
di questa relazione, ma due aspetti meritano qui un accenno, in considerazione
della loro interazione con il lavoro come fattore produttivo: la diffusione
delle nuove tecnologie e le competenze dei lavoratori italiani.
Gli investimenti in capitale necessari ad aumentare la produttività
vanno di pari passo con l’adozione di nuove tecnologie, che possono spesso
portare alla sostituzione di lavoro umano con macchine. Il diffuso timore
che l’automazione possa portare a una massiccia distruzione di posti lavoro
Tra gli interventi più recenti, F. Panetta, Considerazioni finali sul 2023, Banca d’Italia, 2024.
Per una discussione sistematica cfr. M. Bugamelli, F. Lotti, M. Amici, E. Ciapanna, F. Colonna,
F. D’Amuri, S. Giacomelli, A. Linarello, F. Manaresi, G. Palumbo, F. Scoccianti ed E. Sette,
La crescita della produttività in Italia: la storia di un cambiamento al rallentatore, Banca d’Italia,
Questioni di Economia e Finanza, 422, 2018; A. Brandolini, M. Bugamelli, G. Barone, A. Bassanetti,
M. Bianco, E. Breda, E. Ciapanna, F. Cingano, F. D’Amuri, L. D’Aurizio, V. Di Nino, S. Federico,
A. Generale, F. Lagna, F. Lotti, G. Palumbo, E. Sette, B. Szego, A. Staderini, R. Torrini, R. Zizza,
F. Zollino e S. Zotteri, Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano, Banca d’Italia,
Questioni di Economia e Finanza, 45, 2009.
non sembra finora aver avuto conferma. In un contesto di diminuzione della
popolazione in età da lavoro, l’automazione potrebbe al contrario offrire la
possibilità di conseguire livelli di produttività più elevata, sopperendo al
ridimensionamento dell’offerta di lavoro.
In Italia, se si esclude il comparto automobilistico che ha visto una contrazione
strutturale negli anni più recenti, il tasso di adozione di robot nell’industria manifatturiera
è il più alto dell’area euro (13,4 robot per 1000 addetti, contro 12,6 in Germania nel
2021)24. Le imprese italiane sono invece in ritardo nell’adozione di tecnologie legate
all’intelligenza artificiale (IA): a inizio 2024, solo l’8 per cento di quelle con almeno
10 dipendenti dichiarava di farne utilizzo, a fronte di una media del 13,5 per cento
nell’UE e del 20 per cento in Germania25.
L’introduzione dei robot industriali non ha avuto impatti negativi sull’occupazione
complessiva, pur avendo contribuito a ridurre, fra i neoassunti, la quota di chi viene
impiegato dal settore manifatturiero26. L’utilizzo dell’IA è ancora troppo limitato per
avere avuto effetti significativi. Si stima comunque che circa il 30 per cento dei lavoratori
italiani svolgano compiti che potrebbero in qualche modo essere sostituiti dall’IA nel
futuro. Quasi il 40 per cento degli occupati svolge invece mansioni che potrebbero
essere complementari all’IA, in particolare nella sanità e nei servizi professionali:
tali occupazioni beneficerebbero quindi di un aumento sia della produttività sia della
domanda di lavoro27.
L’allungamento della vita lavorativa e il rapido progresso tecnologico
rafforzano la necessità di considerare l’accumulazione di capitale umano
come un investimento lungo tutto l’arco della vita. Nel corso di una carriera
sempre più lunga, emergeranno nuove tecniche e quelle esistenti diventeranno
rapidamente obsolete. La formazione continua e la riqualificazione dei
lavoratori adulti assumono quindi un’importanza pari a quella dell’istruzione
formale, sia per contrastare il deterioramento delle competenze acquisite
in passato sia per fornirne di nuove, necessarie ad affrontare transizioni
tecnologiche complesse. L’Italia è in questo campo in ritardo rispetto ai
paesi più avanzati.
Cfr. il riquadro: L’utilizzo di robot industriali in Italia nel confronto internazionale, in Relazione
annuale sul 2023, Banca d’Italia, 2024.
Eurostat – indagine “ICT usage and e-commerce in enterprises”, le cui statistiche sono tratte dai risultati
delle indagini condotte dagli istituti nazionali di statistica dei diversi paesi nei primi mesi del 2024.
D. Dottori, Robots and employment: Evidence from Italy, “Economia politica”, 38, 2021,
pp. 739-795. L’utilizzo di robot industriali ha contribuito per circa un quinto al calo della quota
del settore manifatturiero sui nuovi ingressi occupazionali a partire dagli anni novanta.
A. Dalla Zuanna, D. Dottori, E. Gentili, S. Lattanzi, An assessment of occupational exposure to
artificial intelligence in Italy, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, 878, 2024.
2. Demografia e welfare, tra sostenibilità finanziaria
e adeguatezza sociale
Le dinamiche demografiche sottoporranno lo stato sociale italiano a
forti tensioni, che andranno conciliate con l’esigenza di ridurre il debito.
A parità di politiche, nei prossimi venticinque anni, la spesa pubblica legata
all’invecchiamento della popolazione è destinata a crescere in rapporto al
PIL. Secondo le più recenti proiezioni dell’Ageing Report28, il totale delle
erogazioni per pensioni, sanità, assistenza a lungo termine e istruzione
passerebbe da circa il 27 per cento del prodotto nel 2022-24 a oltre il 28 nella
seconda metà degli anni trenta, per poi gradualmente scendere a poco più del
25 nel 2070, ultimo anno considerato dall’esercizio (Fig. 11).
Le proiezioni dell’Ageing Report si basano su un tasso di crescita del PIL potenziale
dell’1,1 per cento in media all’anno nel periodo 2022-2070 (con valori più bassi, intorno
allo 0,8 annuo, fino alla fine del prossimo decennio). L’inflazione convergerebbe entro il
2027 al 2 per cento annuo.
Diventeranno allo stesso tempo ancora più evidenti alcune storiche
lacune del nostro welfare, che possono essere colmate solo con riforme
potenzialmente dispendiose.
2.1. Le pensioni
La spesa pubblica legata all’età in larga parte riflette, in livello e in
dinamica, quella per pensioni. L’incidenza di queste ultime salirebbe da poco
meno del 16 per cento del PIL nel 2022-24 a un massimo superiore al 17
nel 2036; calerebbe poi sotto il 14 per cento negli anni sessanta (Fig. 12)29.
Questo profilo temporale è sostanzialmente spiegato da due fattori che in parte
interagiscono fra loro: demografia e riforme. Soprattutto nei prossimi anni
Cfr. Commissione europea, 2024 Ageing Report, Economic and budgetary projections for the EU
Member States (2022-2070), Institutional Paper, 279, 2024. L’Ageing Report – curato congiuntamente
dall’Economic Policy Committee Ageing Working Group e dalla Commissione europea e attualmente
pubblicato ogni tre anni – illustra proiezioni delle spese pubbliche connesse con l’invecchiamento
della popolazione fino al 2070, utilizzando ipotesi e metodologie uniformi tra paesi.
La più recente pubblicazione in materia della Ragioneria Generale dello Stato restituisce uno
scenario qualitativamente molto simile. Ad esempio, nel cosiddetto “scenario nazionale di base”
la spesa pubblica per pensioni sarebbe pari al 15,3 per cento del PIL nel 2025, crescerebbe fino a
poco oltre il 17 nel 2040 e convergerebbe a circa il 14 nel lungo termine. Cfr. Ragioneria Generale
dello Stato, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario.
Rapporto n. 25 – nota di aggiornamento, 2024, Roma.
le spese saranno aumentate dal pensionamento delle coorti del baby-boom,
il cui peso sarà solo parzialmente controbilanciato dal graduale passaggio dal
sistema retributivo a quello contributivo. Nel più lungo termine, l’incidenza
delle pensioni sul PIL sarà invece diminuita sia dalla piena applicazione del
nuovo regime sia dalla riduzione del numero di pensionati.
La transizione dal vecchio regime pensionistico retributivo a quello contributivo
nozionale è, come noto, graduale. Le stime dell’Ageing Report mostrano come a oggi
la parte maggiore delle nuove pensioni sia calcolata con le regole del “regime misto”.
Solo dal 2050 circa tutti i nuovi benefici saranno calcolati secondo le nuove regole30.
Nei prossimi cinquant’anni si assisterà inoltre a sensibili variazioni del numero dei
pensionati: si dovrebbe passare dai quasi 15 milioni attuali ai circa 17,5 milioni nel
periodo 2040-2055, per poi scendere a 15,5 milioni nel 2070.
Il sistema contributivo presenta numerosi aspetti positivi. Lo stretto
legame di natura attuariale tra il valore atteso dei trattamenti che si riceveranno
durante il pensionamento e i contributi versati durante la vita lavorativa
costituisce un incentivo all’offerta di lavoro, garantisce la sostenibilità
finanziaria del sistema ed evita disparità di trattamento tra generazioni.
Inoltre, visti i requisiti minimi per il pensionamento e le elevate
aliquote contributive, il contenimento della spesa non richiederebbe una
decurtazione sostanziale dei trattamenti, almeno per chi ha profili di
carriera regolare: il tasso di sostituzione netta, cioè il rapporto tra il primo
assegno pensionistico e l’ultimo stipendio (entrambi al netto di imposte
e contributi), pari oggi in media a circa l’80 per cento per un lavoratore
dipendente che acceda alla pensione di vecchiaia, si manterrebbe al 75 per
cento nel lungo periodo; per i lavoratori che aderiscono alla previdenza
complementare, il tasso di sostituzione sarebbe più alto31.
Per chi ha esperienze di lavoro discontinue e frammentarie, tuttavia, i
contributi accumulati potrebbero essere insufficienti a garantire trattamenti
adeguati.
In linea di principio, le caratteristiche del sistema contributivo potrebbero
consentire, per chi è pienamente soggetto alle nuove regole, forme ulteriori
di flessibilità in uscita; si potrebbero anche introdurre forme di rendimento
Cfr. EPC-AWG 2024 Ageing report, Italy – country fiche, Ministero dell’economia e delle finanze,
gennaio 2024.
Ragioneria Generale dello Stato, op. cit.
minimo garantito in modo da ridurre i rischi di natura macroeconomica a cui
sono esposti gli assicurati32.
Se attuate senza intaccare il principio dell’equità attuariale, queste
modifiche non metterebbero in questione la sostenibilità del sistema;
aumenterebbero però la spesa nel breve-medio periodo assorbendo risorse
che potrebbero essere altrimenti dedicate a rafforzare la protezione sociale
contro altri rischi altrettanto meritevoli di tutela.
Tra i principali paesi dell’area dell’euro, l’Italia è quello che oggi spende
di più per pensioni (cinque punti di PIL più della Germania, due della Spagna,
uno della Francia). Viceversa per la sanità e per l’assistenza di lungo termine
destina meno risorse sia della Germania sia della Francia.
2.2 La sanità
Gli oneri complessivi per la sanità sono pari attualmente a poco più del
6 per cento del PIL. L’Ageing Report, che considera un aggregato al netto
delle spese connesse con l’assistenza a lungo termine, stima nello scenario
di base una sostanziale stabilità fino al 2070. Il profilo atteso della spesa si
manterrebbe più basso di 1,7 e 2,5 punti percentuali del PIL di quelli tedesco
e francese.
La stima della spesa sanitaria nel tempo è un esercizio molto complesso: la tendenza
degli esborsi a crescere con l’invecchiamento della popolazione è in parte controbilanciata
dal numero maggiore di anni trascorsi in buona salute; inoltre, rilevano l’evoluzione dei
costi unitari delle tecnologie e l’elasticità della domanda di servizi sanitari pubblici al
reddito. L’Ageing Report riporta proiezioni alternative che illustrano bene il grado di
incertezza che caratterizza lo scenario di base. Per l’Italia, nello scenario “di rischio”
i costi evolverebbero più rapidamente, per effetto ad esempio dell’adozione di nuove
e più costose terapie, e il livello della spesa nel 2070 sarebbe più alto di 0,7 punti
percentuali di PIL rispetto alla simulazione di base. Inoltre, se si abbandonasse del tutto
l’ipotesi per la quale l’allungamento della vita avvenga “in buona salute” l’incidenza
della spesa sanitaria sul PIL sarebbe superiore a quella dello scenario di base di 0,3
punti percentuali.
In prospettiva, il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) dovrà far fronte
alla fuoriuscita per pensionamento di una quota rilevante del personale,
D. Franco e P. Tommasino, Lessons From Italy: A Good Pension System Needs an Effective Broader Social
Policy Framework, “Intereconomics: Review of European Economic Policy”, 55(2), 2020, pp. 73-81.
allo stesso tempo in cui l’invecchiamento della popolazione genererà una
domanda crescente per i suoi servizi. Nel prossimo decennio il turnover del
personale e il potenziamento dell’assistenza territoriale previsto dal Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR) genereranno un fabbisogno di
medici, compresi i medici di base e i pediatri, pari al 30 per cento dell’attuale
organico e di infermieri pari al 14 per cento33. Queste dinamiche sono ancora
più pronunciate nel Mezzogiorno.
Alla fine del 2022 operavano presso l’SSN 123 addetti ogni 10.000 abitanti. Nel
tempo, i limiti al turnover hanno fortemente inciso sulla composizione per età: nel
2022 il 16 per cento del personale dipendente aveva almeno 60 anni, il 26 per cento
considerando solamente i medici. Oltre il 40 per cento dei medici e dei pediatri di
base aveva almeno 60 anni. Si stima che nei prossimi dieci anni si pensioneranno
più di 27.000 medici, oltre 24.000 infermieri e altrettanti addetti del ruolo tecnico
e 28.000 fra medici e pediatri di base. La piena attuazione delle misure del PNRR
potrebbe richiedere almeno 19.600 infermieri e 6.300 operatori socio sanitari, perlopiù
addizionali rispetto alla dotazione attuale.
2.3. L’assistenza per cure a lungo termine
L’invecchiamento della popolazione accrescerà anche il numero delle
persone non autosufficienti, ovvero le persone che hanno perso o ridotto le
proprie capacità funzionali e non sono in grado di svolgere autonomamente
le attività quotidiane.
Per l’assistenza pubblica a lungo termine l’Italia attualmente spende
approssimativamente l’1,5 per cento del PIL, un valore più alto di quello
della Spagna (0,8 per cento), ma più basso di quello di Germania e Francia
(1,9). Secondo le proiezioni di base dell’Ageing Report, nei prossimi
decenni queste erogazioni aumenteranno in quasi tutti i paesi dell’area; per
l’Italia l’incremento sarà di circa mezzo punto percentuale, al 2,1 per cento
del PIL nel 2070.
Alla base di questa proiezione vi è un incremento da oggi al 2070 di circa il
20 per cento, da 3,4 a quasi 4 milioni, del numero di persone non autosufficienti (con un
massimo di 4,3 intorno al 2055).
Cfr. il riquadro: Il fabbisogno atteso di personale sanitario, in L’economia delle regioni italiane.
Dinamiche recenti ed aspetti strutturali, Banca d’Italia, 22, 2024.
Questa stima riflette il solo invecchiamento, sotto l’ipotesi che le politiche
restino invariate, ma vi sono motivi per prevedere che le politiche per la non
autosufficienza verranno riformate.
Se i costi unitari convergessero a quelli medi dell’UE, l’incidenza della spesa per
le cure a lungo termine salirebbe nel 2070 al 3 per cento del PIL, rispetto al 2 per cento
circa dello scenario di base. Se si considerasse anche un aumento dell’offerta di cure
formali, l’incidenza nel lungo termine potrebbe raggiungere il 3,2 per cento del prodotto.
A fronte del previsto aumento della domanda di cura, si contrarrà, in tutti
i paesi, la componente di offerta finora centrale: l’assistenza informale fornita
dai familiari. Come si è visto, il numero degli adulti per ciascun anziano è
destinato a diminuire fortemente: secondo le proiezioni dell’Istat il tasso di
dipendenza degli anziani passerà da un valore prossimo al 40 per cento al
62-63 per cento nel periodo 2050-2070. Peseranno anche la tendenza dei
nuclei familiari a diventare più piccoli e i maggiori tassi di attività delle
donne, sulle quali tradizionalmente grava il maggiore onere nella cura dei
familiari non autosufficienti.
L’ampliamento del divario tra domanda e offerta di cura si tradurrà in
una forte pressione ad accrescere l’assistenza pubblica. Oltre ai congedi
di cura per i familiari, le politiche sociali in quest’ambito si sono basate
storicamente su due pilastri: le strutture residenziali, a minore o maggiore
intensità sanitaria, e le prestazioni monetarie34.
I paesi scandinavi, che hanno incentrato gli interventi sul primo pilastro,
hanno dovuto far fronte agli alti costi delle strutture e, allo stesso tempo,
alla loro inadeguatezza nel preservare la rete di legami sociali degli anziani
ospitati. In Italia, i problemi principali delle Residenze Sanitarie Assistenziali
(RSA) sembrano essere la frammentazione dell’offerta, il finanziamento e
gli standard spesso insufficienti delle strutture.
Il costo del ricovero nelle RSA è per il 50 per cento a carico dell’SSN e per il
50 per cento a carico del soggetto; i Comuni di norma intervengono solo in casi di
estrema indigenza. Nelle RSA vivono oltre 200.000 anziani non autosufficienti35.
Cfr. C. Ranci e E. Pavolini, Le politiche di welfare, Il Mulino, Bologna, 2024.
Istat, “Le strutture residenziali socio-assistenziali e socio-sanitarie – Anno 2023”, 2025.
Anche i trasferimenti monetari (molto rilevanti nel Regno Unito e in Italia)
non sono esenti da problemi36. A fronte di una più facile attuazione rispetto
alle prestazioni in natura e alla possibilità di modularli in base al livello di
non autosufficienza e al reddito, non vi è alcuna garanzia che il beneficiario
riesca a utilizzare il sostegno ricevuto nel modo più adeguato. Nel caso di
trasferimenti monetari senza vincolo di destinazione, come in Italia l’indennità
di accompagnamento, il trasferimento può essere usato in modo addirittura
illecito utilizzando personale senza un regolare contratto di lavoro.
L’indennità di accompagnamento è attualmente pari a circa 550 euro mensili;
spetta solo a soggetti con invalidità del 100 per cento e non è commisurata al reddito.
I beneficiari sono oltre 2 milioni, per una spesa complessiva di quasi 15 miliardi all’anno.
In futuro, si potrebbero quindi sviluppare forme di intervento “ibride”,
che, da un lato, favoriscono l’assistenza domiciliare e, dall’altro, condizionano
l’utilizzo dei trasferimenti monetari a regole più stringenti, come l’acquisto
di pacchetti predefiniti di servizi, erogati da soggetti accreditati, sotto la
consulenza di un operatore pubblico.
Sembrano andare in questa direzione alcuni elementi della recente legge delega
33/2023 e del decreto legislativo 29/2024 (che attuano uno degli obiettivi del PNNR),
anche se alla riforma sono assegnate risorse molto limitate e sono mantenute invariate le
regole dell’indennità di accompagnamento37.
2.4. L’assetto istituzionale e la dimensione territoriale
Un ulteriore aspetto critico dello stato sociale italiano è la complessità
dell’assetto istituzionale, che coinvolge vari livelli di governo con modalità
insufficientemente coordinate.
Le Regioni sono responsabili dell’organizzazione e della fornitura dei servizi sanitari.
I Comuni svolgono funzioni amministrative ed erogano prestazioni socio-assistenziali per
particolari situazioni di bisogno (prima infanzia, non autosufficienza, disabilità, disagio
economico, forme di dipendenza). Lo Stato ha il compito di determinare e garantire il
finanziamento sia dei livelli essenziali di assistenza (LEA) in ambito sanitario sia dei livelli
essenziali delle prestazioni (LEP) in ambito socio-assistenziale. I LEA/LEP individuano
Per una disamina, si vedano i contributi inclusi nel numero speciale su Cash-for-care schemes in
Europe della rivista “Social Policy and Administration”, 54(4), 2019.
C. Gori, Riforma dell’assistenza agli anziani: approvata e rinviata, lavoce.info, 2024
lo standard che deve essere assicurato sull’intero territorio nazionale nell’erogazione
di servizi che riguardano la tutela dei diritti civili e sociali; essi dovrebbero assicurare
parità di trattamento indipendentemente dal luogo di residenza, consentendo allo stesso
tempo di calibrare l’erogazione dei servizi alle concrete esigenze di ciascuna comunità.
Ciò richiede che i LEA/LEP siano definiti in modo appropriato, siano adeguatamente
finanziati e siano applicati in modo coerente con i bisogni da soddisfare, condizioni non
sempre rispettate nelle limitate esperienze sin qui avviate38.
Questa complessità comporta una tensione tra le risorse finanziarie
necessarie per garantire i livelli essenziali e i vincoli di bilancio delle
Amministrazioni locali. In assenza di meccanismi perequativi adeguati,
l’erogazione dei servizi è condizionata dalla disponibilità di risorse proprie.
Le carenze di queste ultime nelle aree meno ricche del Paese, unitamente a
una minore capacità amministrativa, fanno sì che l’intervento pubblico locale
sia più debole proprio nelle aree che ne avrebbero maggiormente bisogno.
Queste forti differenze nella qualità e quantità dei servizi offerti sul
territorio possono rappresentare un fattore che influenza alcune dinamiche
demografiche e possono contribuire a spiegare perché il declino demografico
sia più accentuato nel Mezzogiorno.
Nelle regioni meridionali alla riduzione della natalità si aggiunge
un consistente deflusso di popolazione giovanile verso le regioni
centro-settentrionali39. Negli ultimi due decenni le migrazioni interne hanno
ridotto la popolazione del Mezzogiorno di oltre 900.000 persone, per più
del 70 per cento giovani fra i 15 e i 34 anni e per quasi un terzo laureate40.
Gli afflussi netti dall’estero non sono stati sufficienti a controbilanciare le
migrazioni interne, segnalando come il Mezzogiorno sia una destinazione
scarsamente attrattiva anche per gli stranieri.
Si prevede che tali tendenze si aggraveranno ulteriormente. Secondo lo scenario
mediano dell’Istat nei prossimi venticinque anni la popolazione residente nel
Mezzogiorno si ridurrà di un sesto (da 19,7 a 16,4 milioni di persone). Dalla seconda
Per maggiori dettagli cfr. “Indagine conoscitiva sulla determinazione e sull’attuazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, Audizione del Capo del Servizio
Struttura economica della Banca d’Italia, Roberto Torrini, presso la Commissione affari regionali,
18 marzo 2025.
G. Messina, Declino demografico e divari nell’offerta di servizi pubblici nel Mezzogiorno: un circolo
vizioso da disinnescare, “Rivista economica del Mezzogiorno”, 37(1), 2024, pp. 151-172.
Cfr. Svimez, L’economia e la società del Mezzogiorno. Cittadinanza, lavoro, imprese: l’inclusione fa
crescere, 2023.
metà del prossimo decennio, l’età media supererà per la prima volta quella delle regioni
centro-settentrionali; il rapporto fra il numero degli ultrasessantacinquenni e quello
dei bambini con meno di 14 anni crescerà in misura sostenuta, portandosi su livelli più
alti di quasi un quinto rispetto al resto del Paese. Entro i prossimi venticinque anni,
l’emigrazione netta verso le regioni centro-settentrionali sarà pari a quasi 1,1 milioni
di residenti e determinerà oltre un terzo del calo della popolazione del Mezzogiorno.
I flussi migratori dal Sud al Nord del Paese sono guidati da molteplici
motivazioni, economiche e non. Vi rientra la ricerca di migliori opportunità
di studio e di lavoro, ma anche fattori ambientali quali l’offerta dei servizi
pubblici locali.
Almeno fin dal classico saggio di Tiebout una consolidata letteratura economica
conferma che la qualità delle politiche pubbliche locali influenza le scelte di mobilità
delle persone. L’offerta di servizi pubblici ha un impatto diretto e significativo sulle scelte
di residenza delle persone, in particolare per quanto attiene alla qualità delle scuole,
alla funzionalità del sistema di trasporti, al grado di sicurezza del contesto urbano;
la sensibilità delle scelte localizzative rispetto alle politiche pubbliche locali dipende
inoltre da caratteristiche individuali quali l’età, il genere, la composizione del nucleo
familiare, il livello di istruzione41.
* * *
Le questioni che ho discusso non sono nuove. Da tempo i demografi ci
hanno avvisato di come la demografia del Paese si sta evolvendo e dei rischi
che può generare per l’economia e la società. Il tratto più preoccupante nei
prossimi anni è il forte ridimensionamento della popolazione in età da lavoro.
Se non vi saranno cambiamenti significativi, questo ridimensionamento
è destinato a riflettersi in una diminuzione del prodotto del Paese, rendendo
più difficile mantenere il tenore di vita sin qui acquisito.
Molti andamenti demografici non possono più essere modificati in modo
sostanziale, ma ciò non significa che traccino un destino inevitabile per
l’economia. Le considerazioni precedenti suggeriscono che la riduzione della
C. Tiebout, A Pure Theory of Local Expenditures, “Journal of Political economy”, 64, 1956, pp. 416424. Per alcuni esempi di studi successivi cfr. E.M. Gramlich e D.L. Rubinfeld, Micro Estimates of
Public Spending Demand Functions and Tests of the Tiebout and Median-Voter Hypotheses, “Journal
of Political Economy”, 90(3), 1982, pp. 536-559; W.H. Hoyt e S.S. Rosenthal, Household Location
and Tiebout: Do Families Sort According to Preferences for Locational Amenities?, “Journal of Urban
Economics”, 42, 1997. pp. 159-178; T.J. Nechyba e R.P. Strauss, Community Choice and Local Public
Services: A Discrete Choice Approach, “Regional Science and Urban Economics”,28, 1998, pp. 51-73;
M. Letdine e H.S. Shim, Location Choice, Life Cycle and Amenities, “Journal of Regional Science”, 59,
2019, pp. 567-585.
disponibilità di lavoro implicita nei trend demografici può essere contrastata in
vari modi: aumentando la partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto di
donne e giovani, ancora molto bassa nel confronto internazionale; garantendo
flussi migratori regolari e assicurando nel contempo che gli stranieri che
sono e che arriveranno nel Paese possano integrarsi pienamente; facilitando