
(AGENPARL) – gio 27 febbraio 2025 CAMERA DEI DEPUTATI
VI Commissione – Finanze
Testo unificato delle Proposte di legge C. 1091 Romano e C. 1240 Bagnai, recante “Introduzione dell’articolo 1857-bis del
codice civile e modifica all’articolo 33 del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, in materia di obbligo di contrarre e recesso della banca nei rapporti di conto corrente”
Audizione del Vice Direttore Generale Vicario
Dott. Gianfranco Torriero
27 febbraio 2025
Illustre Presidente, Onorevoli Deputati,
a nome del Presidente Antonio Patuelli, del Direttore generale Marco Elio Rottigni e mio personale ringrazio per la possibilità di fornire il contributo di riflessione del mondo bancario su questa proposta di testo unificato (di seguito indicata anche come DDL).
La proposta affronta una tematica su cui l’Associazione Bancaria ha già esposto le proprie considerazioni, con l’audizione svolta nella XVIII Legislatura dinanzi alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato sulla proposta di legge AS n. 1712.
Innanzitutto, riprenderei quanto illustrato nella precedente audizione e quanto rappresentato dalla stessa Banca d’Italia, sempre nello stesso ciclo di audizioni, sulle motivazioni poste a base dell’ipotizzata disciplina che non appaiono giustificare la necessità di intervento e che non appaiono considerare la natura imprenditoriale dell’attività bancaria.
A seguire, vorrei segnalare i punti di attenzione del DDL.
Concluderei, con i più recenti interventi normativi che hanno affrontato la tematica in discussione e descrivere una recente esperienza associativa, che mostra come il dialogo e la collaborazione tra banche e specifiche categorie di clientela possano costituire un positivo contributo alle questioni che oggi affrontiamo.
Le motivazioni che fondano l’intervento normativo
Le motivazioni alla base dell’intervento normativo, indicate nelle relazioni illustrative della proposta di testo unificato, sarebbero riconducibili alla esigenza di favorire l’inclusione finanziaria e ad assicurare l’applicazione delle norme sulla tracciabilità dei pagamenti e delle limitazioni all’uso del contante, nonché per permettere un accesso generalizzato al conto corrente anche a imprese che si vedono rifiutare l’apertura del conto o la sua improvvisa chiusura.
Vorrei ribadire che sulla base dei dati tempo per tempo pubblicati dalla Banca d’Italia, e già rappresentati dall’Autorità in occasione della sua precedente audizione, i casi posti a fondamento dell’esigenza dell’intervento normativo non risultano costituire un fenomeno generalizzato. Si tratta, piuttosto, di specifici episodi, motivati dalle puntuali indicazioni rivenienti dal quadro normativo che le banche sono tenute a rispettare.
Un secondo rilievo concerne il richiamo, contenuto nelle relazioni illustrative, al tema delle “segnalazioni interbancarie” (considerate ostative all’apertura di un nuovo conto). Tale richiamo, nel caso di specie, appare inconferente in quanto esso è legato ad un rapporto “creditizio”, quale ad esempio l’apertura di credito in conto corrente, e non già ad un rapporto di conto corrente “ordinario”, a cui non è automaticamente collegata alcuna forma di finanziamento e quindi a connesse segnalazioni nei sistemi di informazioni creditizie.
Con riguardo alle esigenze di bancarizzazione (e di inclusione finanziaria) della clientela consumeristica si ribadisce che queste sono già ampiamente soddisfatte dalla regolamentazione del conto di base, di cui all’art. 126 – noviesdecies del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (TUB) – introdotto dal D. Lgs. 15 marzo 2017, n. 37, di attuazione della Payment Accounts Directive (PAD) – e che, al comma 2, prevede il diritto all’apertura di un conto di base per “tutti i consumatori soggiornanti legalmente nell’Unione europea, senza discriminazioni e a prescindere dal luogo di residenza”. Tale conto, offerto obbligatoriamente da banche, Poste Italiane spa e altri intermediari finanziari, consente una tipologia e un numero di operazioni coerenti con le esigenze bancarie “basiche” dei richiedenti.
Come già rappresentato nel corso della precedente audizione, porre, invece, in via generalizzata un obbligo in capo alla banca di aprire un conto corrente evoca una funzione “pubblicistica” o “para-pubblicistica” dell’attività bancaria, in contrasto con quanto prevede l’art. 10 del Testo Unico Bancario che, in attuazione delle corrispondenti norme dell’Unione Europea, sancisce che “l’attività bancaria ha carattere di impresa”.
Dalla natura privatistica dell’attività della banca discende l’impossibilità di configurare in capo all’intermediario un generalizzato “obbligo a contrarre”, che non solo non è desumibile dai principi generali dell’ordinamento, ma finirebbe con porsi in contrasto con essi, ledendo – come anche segnalato dalla Banca d’Italia nella sua audizione sul DDL n. 1712 – la libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita (art. 41 Cost.)2.
Ne consegue che la banca ha il dovere di valutare sempre le singole richieste di apertura di conti correnti, applicando rigorosamente i criteri di diligenza professionale, buona fede e correttezza e in assoluta aderenza al dettato della disciplina antiriciclaggio europea e nazionale ciò in quanto le banche debbono essere un avamposto della legalità, sempre.
Sotto altro profilo, statuire solo in Italia un generalizzato obbligo a contrarre per le banche evidenzierebbe un forte disallineamento competitivo con gli intermediari stabiliti in altri paesi UE – che non conoscono analoga disciplina – e contrasterebbe con il principio di armonizzazione comunitaria, nonché con i principi di libertà di stabilimento e prestazione dei servizi.
Inoltre, l’obbligo sembrerebbe riferito solo alle banche e non anche ad altri operatori che offrono conti correnti, come ad esempio Poste Italiane.
Le soluzioni tecnico-giuridiche adottate nel DDL. Punti di attenzione
ll DDL interviene sul diritto di recesso della banca nei contratti a tempo indeterminato conclusi con un consumatore (modifica dell’art. 33.3 del Codice del consumo) e, nel caso di rapporti di conto corrente a tempo determinato o indeterminato (con consumatori e non consumatori), escludendo l’esercizio di tale diritto “quando i saldi siano in attivo” (eccezion fatta per motivi antiriciclaggio).
Come già evidenziato in sede di nostra audizione del 2020 e anche dall’audizione della Banca d’Italia, tale approccio non appare in linea con i principi civilistici del nostro ordinamento giuridico.
Il diritto di recesso, infatti, si configura come una tutela da riconoscere ad entrambi i contraenti, espressione della libertà contrattuale costituzionalmente garantita e oggetto di specifiche disposizioni che ne fissano termini e modalità in relazione ai singoli contratti e alla circostanza che il rapporto sia a tempo determinato (richiedendosi una giusta causa) o indeterminato (richiedendosi un preavviso).
Anche nell’esercizio di tale diritto, l’intermediario ha l’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, elementi soggetti comunque al sindacato del giudice.
In questo contesto, la circostanza che il recesso sia impedito “quando i saldi siano in attivo” non appare sufficiente a conferire alla disciplina il necessario equilibrio.
Ulteriori profili di attenzione risiedono nell’ipotizzata abrogazione dell’art. 33 comma 3 lett. a) del Codice del consumo.
Tale norma, per i contratti che hanno ad oggetto la prestazione di servizi finanziari a tempo indeterminato, introduce espressamente un regime derogatorio alla regola generale del recesso con preavviso, escludendo la vessatorietà della clausola che legittima il recesso qualora sussista un giustificato motivo.
Detta disposizione riconosce all’impresa che eroga servizi finanziari la facoltà di “reagire” all’insorgere di eventi capaci di alterare le ragioni che avevano originariamente giustificato la costituzione del vincolo negoziale.
Il disegno di legge, inoltre, non sembra tener conto che la lettera a) dell’art.33.3 del Codice del consumo costituisce la trasposizione nell’ordinamento interno delle disposizioni contenute nella Direttiva 93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. In particolare, per la Direttiva sono ammesse “(…) clausole con cui il fornitore di servizi finanziari si riserva il diritto di porre fine unilateralmente, e senza preavviso, qualora vi sia un valido motivo, a un contratto di durata indeterminata, a condizione che sia fatto obbligo al professionista di informare immediatamente l’altra o le altre parti contraenti”. Sul tema è intervenuta anche la Corte di Giustizia europea che ha indicato che tali previsioni non possono essere ridotte dal legislatore nazionale.
In considerazione di quanto precede, la proposta di abrogazione della lett. a) dell’art. 33, comma 3, del Codice del Consumo – di sostanziale derivazione dalla direttiva 93/13/CEE – si porrebbe in contrasto con l’art. 288, n. 3, TFUE e, in particolare, con l’obbligo di conformarsi alle prescrizioni delle direttive come fonti obbligatorie di diritto secondario dell’Unione europea, e in contrasto con il principio di armonizzazione comunitaria, finalizzato al progressivo riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri per coordinare le loro misure di esecuzione in relazione alle clausole abusive nei contratti.
Il testo unificato collega l’eventuale dinego di stipula del contratto di conto corrente e la possibilità di recesso da parte della banca esclusivamente all’osservanza delle norme antiriciclaggio e antiterrorismo.
Sebbene, rispetto ai precedenti DDL in materia, quello di cui si discute contiene un espresso riferimento alla normativa antiriciclaggio (e ai sottesi obblighi di astensione), tale indicazione non consente né di mitigare né di bilanciare adeguatamente l’obbligo a contrarre che si vuole introdurre.
Il provvedimento di cui si discute, inoltre, nell’imporre alla banca di “comunicare l’eventuale diniego di stipula, derivante dall’osservanza delle norme antiriciclaggio ed antiterrorismo, motivandolo per iscritto, entro dieci giorni dalla richiesta di apertura del conto corrente” non tiene correttamente in considerazione tutti gli interessi meritevoli di protezione.
In particolare, il prevedere un obbligo di motivazione del diniego (esclusivamente) fondato su ragioni collegate all’adempimento degli obblighi antiriciclaggio, rischierebbe di pregiudicare la prevenzione, l’indagine e l’accertamento di reati (ad esempio, il cliente che venisse a conoscenza delle motivazioni dell’intermediario potrebbe “modificare” i suoi comportamenti o la sua operatività con un’altra banca, per mascherarne in altro modo la natura illecita).
Sul punto è utile osservare come, in altri contesti normativi posti a tutela di soggetti più vulnerabili come i consumatori, l’esigenza di garantire la trasparenza nei confronti del potenziale cliente spesso è contemperata, a fronte del superiore interesse pubblico.
Al riguardo, è utile richiamare quanto indicato dall’art. 126-vicies, comma 2, del TUB che – con riferimento ai conti di base per i consumatori- stabilisce che “La comunicazione delle motivazioni del rifiuto non è tuttavia dovuta ove tale comunicazione sia in contrasto con obiettivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, individuati ai sensi dell’articolo 126, o ricorrano altri giustificati motivi ostativi in base alle disposizioni in materia di contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo”.
Più in generale, la disciplina antiriciclaggio vieta espressamente la disclosure di determinate informazioni, in particolare quelle relative alle segnalazioni di operazioni sospette. Faccio riferimento, in particolare, all’art. 39 del D. Lgs. 231/2007 che vieta di informare l’interessato dell’avvenuta segnalazione e l’art. 38 del medesimo Decreto, che introduce una specifica disciplina per la tutela del segnalante.