
(AGENPARL) – mer 26 febbraio 2025 Buonasera,
inoltriamo il discorso letto questa sera dal rabbino capo della Comunità Ebraica di Firenze, Gadi Piperno in occasione dell’incontro per ricordare Shiri, Ariel e Kfir Bibas:
In memoria di Shiri, Ariel e Kfir Bibas e di Oded Lifshitz
Secondo la tradizione ebraica, il lutto è un dovere per i parenti stretti di un defunto. Lo è per due motivi: il rispetto per il defunto e la gestione del proprio dolore. Chi non è parente stretto può assumere su di sé le regole del lutto come un dovere, anche per persone per le quali non ha obbligo: ad esempio per una sorta di “secondo padre” o per un maestro verso cui si sente un debito di riconoscenza. Esiste poi un dovere generico, di visitare le persone in lutto. Generico perché non è definibile in base al grado di vicinanza. Alcuni possono sentirsi più o meno vicini di altri, e non è certo possibile che tutti vadano a casa di tutte le famiglie in lutto. Ma i maestri dell’ebraismo dicono: guai a quella comunità che non sta vicina alle famiglie in lutto. È una comunità destinata a dissolversi.
La Comunità Ebraica di Firenze, insieme a tutte le comunità ebraiche del mondo, partecipano al dolore incommensurabile di Yarden Bibas per la perdita della moglie Shiri e dei due figli Ariel e il piccolo Kfir. Ma questo non basta. Di orrori ne abbiamo già visti tanti, a partire dal 7 ottobre, di lutti altrettanti, e, certamente, non possiamo fare una serata al Tempio ogni volta. Ma oggi è diverso. Non siamo solamente qui a mandare un abbraccio forte e caloroso a Yarden. Siamo qui perché siamo tutti in lutto e in lutto stretto. Lo siamo perché per un anno e mezzo abbiamo sperato che quella mamma coi due bambini dai capelli rossi potessero tornare a casa. Si contava su quel minimo sindacale di umanità che, anche in una situazione così drammatica come quella di una guerra, che anche in una situazione di rapimenti di ostaggi usati come carte da gioco, e rilasciati nel modo che abbiamo visto, che anche in un panorama orribile, e certamente di sofferenze per tutti, e con tutti intendo includere anche la popolazione palestinese, la più esposta, che anche in questo scenario una giovane madre con due bambini sarebbero stati salvaguardati. Invece abbiamo tragicamente scoperto che, non solo sono morti, ma sono stati uccisi a sangue freddo e a mani nude. Abbiamo visto il gioco terribile dello scambio di cadaveri con la madre. Insieme a loro abbiamo visto rientrare il cadavere di un uomo, Oded Lifshitz, lui sì pacifista convinto, non come coloro che alzano le bandiere e intendono la pace come cancellazione di una delle parti, un uomo che si occupava di portare i Gazawi negli ospedali israeliani, che faceva avanti e indietro a 80 anni con spirito vero di amore e fratellanza. Neanche lui è stato risparmiato.
Oggi la nostra comunità è in lutto stretto e abbiamo pensato di aprire le nostre porte a chi, con sincerità, vuol venire qui per starci vicino, e prendersi addosso una parte di questo dolore. Chi vuole credere nella cultura della vita, a prescindere dalla religione, a prescindere dalla provenienza, a prescindere dalle idee politiche, non può non vedere in questo strazio la negazione totale dell’umanità. E non parlo di quella della vittima. E se qualcuno qui in sala crede ancora alla storia del bombardamento come causa della morte, storia propugnata da un gruppo terrorista, per provare a salvarsi la faccia, dopo il referto della medicina forense israeliana, si faccia un serio esame di coscienza.
Anche se l’espressione che sto per usare la si sente spesso in tanti frangenti, oggi qui ognuno di noi si sente un po’ Yarden Bibas. Oggi sono stati sepolti i suoi famigliari, e oggi, per sette giorni, inizia la nostra shivà, i sette giorni di lutto. Non per obbligo, ma perché ce lo sentiamo dentro. Come ho detto prima, quando una famiglia è in lutto, è dovere della comunità di stare vicino a chi è in lutto, altrimenti la comunità rischia di dissolversi.
Le immagini di Shiri con in grembo i due figli, quella gioiosa, e quella terrorizzata, sono diventate dei simboli e rimarranno sempre impresse nei nostri cuori. Parlo a titolo personale, non sono un appassionato delle illuminazioni di edifici, anche se riconosco che possono rappresentare un messaggio simbolico importante. Ma, come ha detto una nostra iscritta, la solidarietà si dà, non la si chiede. Se c’è, la si accoglie. Ma una cosa voglio dirla con grande chiarezza e lo faccio partendo da un’intervista fatta questa mattina dalla televisione israeliana a un gruppo di persone che si trovava ai bordi della strada tra le ali di folla al passaggio dei feretri. Un gruppo con una bandiera scritta in arabo ed ebraico, persone dai lineamenti chiaramente arabi, donne col velo. Il gruppo si chiama ‘Atidna. L’intervistatore pone la solita domanda fatta anche in precedenza ad altri astanti: perché oggi siete qui? Rispondono che è per due ragioni. La prima è che come musulmani praticanti, vogliamo ribadire con forza che quanto compiuto dai terroristi a questa famiglia non è l’Islam. Ma soprattutto, dicono, siamo qui perché siamo parte del popolo israeliano, siamo fieramente parte di questa società, e, nonostante che l’ultimo anno sia stato pieno di tragedie che hanno colpito migliaia di persone, la storia dei Bibas va oltre ogni limite. Di fronte a un male, a una crudeltà del genere non si può stare in silenzio.
Questa è la chiave. Chi oggi non sente un forte dolore, un dolore fisico oltre che psicologico, per quanto accaduto a Shiri, Arel e Kfir, non ha quei minimi requisiti per poter essere operatore di pace. È meglio che si occupi di altro e faccia un passo indietro, e non nomini nemmeno un sindaco amato come Giorgio La Pira, che in tempi non meno complessi, si era adoperato con ogni possibile sforzo, nel favorire la comunicazione, nel tessere relazioni, non certo boicottando o tenendo fuori dalla porta una delle due parti o di non farla parlare, cosa purtroppo accaduta anche di recente in questa città.
Troviamo questi due versetti dal salmo 85: “L’amore e la verità si incontrano, la giustizia e la pace si uniscono”. Un amore parziale, un’empatia selettiva, intermittente, e soprattutto avulsa dalla realtà dei fatti è solo controproducente. L’amore non può fare a meno della verità. Allo stesso modo la ricerca incessante della giustizia può allontanare dalla pace. Ma come arrivare alla pace senza la giustizia? Il versetto successivo ci dà la chiave del problema. “La verità fiorisce dalla terra e la giustizia si affaccia dal cielo”.
La terra che oggi ha sepolto Shiri Ariel Kfir, e, ieri Oded, non nasconde, ma fa fiorire una verità, dura, straziante, dolorosa. Solo chi accetta questa verità che fiorisce dalla terra, solo chi si assume questo peso e questo dolore nel cuore, solo chi non rimane indifferente a questo scempio, potrà contribuire a portare più giustizia nel mondo.
Che il loro ricordo sia di benedizione per tutti.
Rav Gadi Piperno