
[lid] Oggi a Torino si conclude la mostra “Africa – Le collezioni dimenticate” presso i Musei Reali.
Dopo la visita Alberto Morera, Presidente Nazionale dell’ANRRA “Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa, ha dichiarato: «Ero al corrente della polemica sollevata sulla stampa cittadina a causa dell’impostazione della mostra stessa, che presentava didascalie con imprecisioni, omissioni e manipolazioni, come puntualmente riscontrato dai competenti.
Come Torinese, appassionato d’Africa, e più in particolare come presidente dell’Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa, ho apprezzato Il materiale esposto, estremamente interessante, ma leggendo i pannelli non ho potuto che confermare, con amarezza, le critiche comparse sulla stampa.»
Amarezza ma nessuno stupore per la mostra curata da Enrica Pagella, Elena De Fillipis e Cecilia Pennaccini: «Mi sarei sì atteso da parte dei curatori, per una mostra su questi materiali, un taglio un po’ ideologico fatto sulla sensibilità dei nostri tempi, anche se giudicare il passato alla luce del presente è fuorviante e, come gli storici hanno ben chiaro, errato.»
Prosegue Morera: «Oltre ad alcune ingenuità che suggeriscono un superficiale lavoro di ricerca sul tema, è evidente, per chi lo conosce, nella scelta dei termini, nelle omissioni, un atteggiamento volto a sostenere un giudizio complessivo negativo sulla presenza coloniale italiana.»
Un esempio: «I cimeli dervisci. I “Dervisci” erano i Sudanesi seguaci della sollevazione fondamentalista (islamica) del 1884 guidata dal Mahdi, un movimento che sarebbe durato una quindicina di anni coinvolgendo diverse etnie di quel paese.
La mostra espone bandiere, armi e tamburi dervisci “raccolti” – così dice la didascalia di una fotografia – dai soldati italiani. Ma il termine “raccolti” non è sufficiente allo scopo. Ecco allora che su altri pannelli gli stessi oggetti diventano “depredati”, “razziati”, “difesi eroicamente”, dando l’impressione al pubblico che l’Italia fosse andata dai Dervisci a predare… È vero l’esatto contrario!
Gli oggetti erano stati abbandonati sul campo di battaglia dai predoni schiavisti. Sì, perché questo erano i Dervisci Baggara, che venivano nelle terre che oggi sono Etiopia ed Eritrea a rubare il bestiame, a rapire uomini, donne e bambini da avviare al mercato degli schiavi (per il Mahdi ed il suo successore era lecito…), e anche ad uccidere… I curatori della mostra non lo sanno? Forse no, anche perché espongono l’armatura di un Derviscio davanti alla gigantografia di preti etiopici, nemici per i Dervisci…
L’Italia verso i Dervisci attuò una politica esclusivamente difensiva, contenendo con successo (ed apprezzamento delle popolazioni locali) le razzie, privandoli della loro principale base di operazioni (Cassala) e sconfiggendo le loro principali invasioni in forze. Non c’erano mire sul Sudan, presidiare la frontiera era oneroso. Che l’Italia abbia operato contro lo schiavismo sin da allora non si vuole dire?
Sia nella lettura della copiosa bibliografia – conclude Morera – sia per esperienza diretta, sul tema dell’esperienza coloniale italiana ho trovato maggiore serenità di giudizio, maggiore obiettività, fra le persone dell’Africa orientale che non fra gli intellettuali ed i politici italiani.
La storia dell’Italia in Africa è una storia che ha luci ed ombre. Non comprendo l’ansia di ignorare o sminuire le luci per esaltare soltanto le ombre, cercando una lettura (politica?) della storia.
Ammessa e non – ripeto non – concessa la tesi della mostra, che necessità ci sarebbe di manipolare testimonianze e fatti, cioè di barare? È troppo attendersi dagli addetti alla cultura l’onestà intellettuale? O maggiore professionalità?»
