(AGENPARL) – Roma, 15 ottobre 2021 – Come è noto nel marzo 2019 l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina sulla cooperazione nell’ambito della Belt and Road Initiative.
«La parte cinese elogia vivamente la sottoscrizione da parte dell’Italia del memorandum d’intesa, assumendo un ruolo guida tra i principali paesi occidentali», si legge sul Belt and road forum.
E così il porto di Trieste e di Genova entrano nella Belt and Road cinese, infatti il memorandum è stato accompagnato da una serie di accordi commerciali, compresi due accordi che sia il Porto di Genova sia il Porto di Trieste hanno concluso con l’impresa di stato cinese China Communications Construction Company (Cccc).
Sia l’Unione europea che gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione per questi accordi, temendo che la Cccc alla fine possa ottenere una quota di controllo dei porti, analogamente a quanto accaduto di recente tra la China Ocean Shipping Company (Cosco) e il porto greco del Pireo.
Più in particolare Garret Marquis, assistente speciale dell’ex presidente americano Donald Trump e portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, aveva dichiarato.: «L’Italia è un’importante economia globale e una grande destinazione per gli investimenti, non c’è bisogno che il governo italiano dia legittimità al progetto di vanità cinese per le infrastrutture».
La partnership è stata siglata tra il presidente del porto di Trieste, Zeno D’Agostino, e l’omologo della China Communications Construction Company, Song Hailang.
Interessante e proprio per questo motivo va letta fino in fondo è l’audizione di mercoledì 27 novembre 2019, di D’Agostino alla III Commissione della camera dei deputati (Affari esteri e comunitari), in merito all’indagine conoscitiva sulle dinamiche del commercio internazionale e interesse nazionale.
D’Agostino afferma «l’ulteriore elemento importante che non è stato citato – secondo me, invece, in una Commissione come questa va menzionato – è il porto franco internazionale di Trieste. Quindi tra le varie competenze dell’Authority oggi c’è anche la gestione di questi punti franchi».
«Il porto di Trieste è tutto porto franco, questo significa che le merci vi entrano e chiaramente, finché sono in porto franco, non sono ancora entrate nel mercato comunitario, quindi non sono soggette a IVA, dazi e accise. Ci sono poi tutta una serie di ulteriori benefici», sottolinea D’Agostino.
«L’altro elemento utile a definire il quadro è che il porto franco esiste da trecento anni – quest’anno festeggiamo con un francobollo che verrà emanato il 13 dicembre –, dall’emanazione di un decreto di Carlo VI, sotto l’impero asburgico. Da allora tutte le autorità che si sono succedute nel governo della città hanno confermato la presenza del porto franco. Da ultimo, nel 1954, il Governo italiano, allorché, con un trattato internazionale (il Memorandum di Londra), ratifica la fine dell’esperienza del territorio libero di Trieste, che era sotto il controllo di Stati Uniti e Gran Bretagna, e subentra nel governo della città con l’onere di rispettare quel trattato internazionale, precedente all’ingresso dell’Italia nell’Unione europea. Nel momento in cui l’Italia è entrata nell’Unione europea – allora CECA – ha dichiarato, infatti, di rispettare i trattati internazionali sottoscritti in precedenza. Questo dà l’idea del perché oggi Trieste è fondamentale per la fornitura energetica di Germania, Austria e Repubblica Ceca. Il porto di Trieste è il primo porto petrolifero del Mediterraneo: passano 43 milioni tonnellate di petrolio all’anno, il secondo porto è Marsiglia con circa 42 milioni. Passano da Trieste perché dalla città parte un oleodotto che fornisce il 100 per cento del petrolio che va in Baviera. Quindi la Baviera come potenza economica si basa totalmente sulla fornitura di petrolio che passa dal porto di Trieste. Un oleodotto di 780 chilometri che da Trieste arriva ad Ingolstadt. Questo è un oleodotto costruito nel 1967, quindi ha compiuto un paio d’anni fa cinquant’anni. Con lo stesso oleodotto noi forniamo il 90 per cento del petrolio all’Austria e il 40 per cento del petrolio alla Repubblica Ceca. Quindi siamo fondamentali per questi Paesi dal punto di vista energetico», precisa D’Agostino.
«Considerate che l’IVA su queste forniture viene riscossa nel Paese che consuma il petrolio, che passa attraverso il porto di Trieste e, mediante l’oleodotto, finisce per essere raffinato in Germania, Austria e in Repubblica Ceca. Quindi ci sono miliardi di euro di IVA che finiscono nelle casse tedesche, austriache e ceche, perché questo prodotto viene consumato in quei Paesi. Lo dico perché le leggi si possono anche cambiare, miliardi di euro che passano dal porto di Trieste – sotto il nostro «naso» –, per quanto mi riguarda fanno piacere, però il Governo italiano secondo me dovrebbe sapere che ci sono miliardi di euro che passano e finiscono nelle casse di Paesi partner all’interno dell’Unione europea, ed è un elemento utile per capire l’importanza del porto di Trieste, a prescindere dalle classiche analisi che finiscono sempre sul settore container. Ci sono elementi importantissimi che oggi sono governati attraverso il porto di Trieste, e che riguardano le relazioni con questi Paesi», aggiunge D’Agostino.
«Quel modello diventa il punto di riferimento anche per le altre tipologie. Questo è l’obiettivo che mi sono dato arrivando a Trieste nel febbraio 2015. Se noi siamo efficienti e competitivi nel rifornire la Germania, l’Austria e la Repubblica Ceca con il petrolio, è chiaro che noi possiamo utilizzare, con altre modalità, il porto di Trieste per diventare un porto finalmente di riferimento per aree continentali europee che oggi sono servite – sempre meno – dai porti del Nord Europa. Quindi è iniziato un processo di utilizzo, anche in quel caso, di infrastrutture esistenti: nel caso specifico le infrastrutture ferroviarie. Il porto di Trieste è ben dotato da questo punto di vista, ci sono quattro stazioni ferroviarie», prosegue D’Agostino.
«Un altro elemento importante è che la ferrovia entra nel porto di Trieste non toccando la città. Esiste un tunnel ferroviario di otto chilometri, costruito tra il 1961 e il 1981, che permette ai treni di entrare senza alcun problema dal punto di vista di capacità, dal punto di vista di sagoma – di altezza – dei treni. Problemi che invece hanno altri porti. Quindi noi dal 2015 in poi abbiamo visto una crescita fortissima del traffico ferroviario», ribadisce D’agostino.
«Registravamo meno di cinquemila treni nel 2014, quest’anno chiuderemo a circa 10.500 treni. Vuol dire che in quattro anni abbiamo raddoppiato il numero dei treni merci. Questo lo dico perché è un caso eccezionale anche a livello europeo. Non esiste nessun luogo in Europa che abbia avuto una crescita dei treni merci paragonabile a quella che sta vivendo il porto di Trieste negli ultimi cinque anni. Amburgo, Duisburg e tutti quei soggetti importanti in Europa per lo sviluppo ferroviario non hanno lo sviluppo che ha avuto la ferrovia per il porto di Trieste», continua D’Agostino.
«Aggiungo un altro elemento – dice D’Agostino – nel porto di Rotterdam oggi operano circa duecentocinquanta treni intermodali a settimana: sono quelli che noi registriamo in un solo giorno al porto di Trieste. Rotterdam chiaramente utilizza altre modalità di inoltro delle merci, ad esempio le chiatte, e quindi tutto il sistema di vie fluviali che permette all’Olanda di rifornire le regioni di lingua tedesca. Questo è un elemento importante per introdurre temi che immagino siano di interesse della Commissione».
«A prescindere da quelli che sono gli interessi internazionali sul porto di Trieste – prosegue D’Agostino – l’elemento fondamentale che secondo me va analizzato è quello che sta succedendo – torno a dire, a prescindere dagli interessi, quindi da elementi esogeni – nel vecchio continente, dove ci sono elementi endogeni che cominciano a dare una serie di vantaggi ai porti sulle coste meridionali dell’Europa, Mediterraneo, Adriatico in particolare, quindi chiaramente Trieste. Uno di questi elementi, per esempio, è il cambiamento climatico. Si parla spesso del fatto che i cambiamenti climatici stanno permettendo l’inoltro delle merci o comunque un corridoio Asia-Europa, Estremo Oriente-Europa attraverso passaggi a nord apertisi grazie allo scioglimento dei ghiacci. Oggi noi abbiamo fenomeni emergenziali che ci fanno capire che abbiamo problemi di innalzamento delle acque. Non è la stessa cosa a livello di porti del Nord Europa. Negli ultimi due o tre anni i porti nordeuropei hanno evidenziato numerosi problemi nell’inoltro delle merci attraverso le vie fluviali. Il porto di Rotterdam negli ultimi due anni ha vissuto delle estati molto critiche, perché non ha più la capacità di inoltro di merci che aveva in passato. Il porto di Amburgo si trova a cento chilometri dal mare, non è un porto sul mare, con problemi importanti di pescaggio, di dragaggio, nonché di navigabilità delle grandi navi».
Ma c’è di più.
«Noi – afferma D’Agostino – oggi abbiamo un progetto importante («Trihub») insieme a RFI, che prevede investimenti su un sistema fatto di tre elementi: Trieste, Villa Opicina – un’immensa stazione a cavallo tra Slovenia e Italia, a pochi chilometri dal porto di Trieste – e Cervignano, grandissimo scalo ferroviario di proprietà di RFI. Anche queste sono piattaforme esistenti su cui si può basare la capacità del sistema di essere un hub logistico, un gateway per l’Europa».
«Altro elemento che mi permetto di presentare – afferma D’Agostino – è il fatto che l’Adriatico e Trieste sono di fronte al canale di Suez. Io ho lavorato in passato in altri porti, in altri mari: ho lavorato a Napoli, sul Tirreno; è chiaro che i porti del Tirreno sono molto più funzionali a logiche di integrazione tra il Mediterraneo, l’Italia e l’Occidente del mondo. Chi sta in Adriatico ha un corridoio che gli dà la possibilità di entrare direttamente sul canale di Suez, quindi è normale che i mercati di riferimento, per chi sta in Adriatico, siano quelli dell’Estremo Oriente. Se poi emergono dinamiche per cui si sviluppano logiche di integrazione con queste parti del mondo, è chiaro che la geografia non è un’opinione. Quindi noi abbiamo tutta una serie di elementi importanti, anche una vocazione geografica che è, da una parte, di dialogo con il canale di Suez e con tutto ciò che sta oltre il canale di Suez; dall’altra parte, con il vecchio bacino di riferimento del porto di Trieste, per cui questo porto è nato trecento anni fa, ovvero i Paesi che rientrano nell’area del vecchio impero austro-ungarico o: Germania, Austria, Ungheria».
«Negli ultimi tempi abbiamo sottoscritto una serie di accordi: quelli che ci hanno fatto finire alla ribalta delle cronache sono quelli con la Cina. Per quanto ci riguarda, a prescindere dagli accordi nazionali, che non sono competenza del sottoscritto, a marzo di quest’anno abbiamo sottoscritto un accordo con China Communications Construction Company (CCCC), che tuttavia – ci tengo a sottolinearlo – non nasce per iniziativa della singola Autorità di sistema portuale o del singolo presidente nelle sue relazioni internazionali: quell’accordo prevede tre punti, ma la vera genesi di quell’accordo non è triestina, mi verrebbe da dire non è neanche romana, ma va collocata a Bruxelles. Esiste un unico soggetto deputato a mantenere le relazioni tra Europa e Cina relativamente al dialogo sui potenziali investimenti che l’Europa può fare in Cina e viceversa: questo soggetto si chiama EU-China Connectivity Platform, con sede a Bruxelles, a cui partecipano tutti i Paesi membri dell’Unione europea. A questo tavolo di coordinamento e di dialogo, governato e coordinato da Bruxelles, ognuno dei Paesi porta potenziali investimenti che la Cina può fare sul suo territorio. A luglio del 2018, per la prima volta, vengono presentati ufficialmente due progetti da parte del Governo italiano: uno è la diga foranea del porto di Genova; il secondo è il progetto «Trihub», di cui ho parlato prima. Ci tengo a dire che «Trihub» è fondamentalmente un progetto che segue dinamiche e obiettivi sviluppati a livello locale: non viene costruito perché qualcun altro ci deve investire. Fondamentalmente il progetto «Trihub», con un investimento di circa 200 milioni di euro, prevede una lista di interventi infrastrutturali sui tre nodi ferroviari di Cervignano, Trieste e Villa Opicina dove, proprio per la natura delle infrastrutture coinvolte, non può che essere il soggetto pubblico a effettuare l’investimento stesso, almeno per il 90 per cento della spesa complessiva. Quindi non si può pensare che esista un soggetto diverso da RFI che vada a investire sui binari pubblici che esistono in Italia. In «Trihub» buona parte di quei progetti hanno questa caratteristica. Faccio un esempio. Dicevo prima che «Trihub» è fatto di tre nodi, Trieste, Villa Opicina e Cervignano: noi stiamo riaprendo – dico noi nel senso che sono progetti condivisi, ma è RFI – una linea ferroviaria chiusa (la Transalpina), che mette in connessione diretta il porto di Trieste con Villa Opicina. Quella linea esiste, non era più utilizzata, chiaramente ha dei limiti per esempio dal punto di vista delle altezze: noi non possiamo pensare di mettere su quella linea treni – che noi utilizziamo tantissimo – dove mettiamo i semirimorchi, perché raggiungono un’altezza di circa quattro metri e quella linea non ha la capacità di sagoma per treni di quel tipo. Però può sostenere treni container. E siccome noi oggi utilizziamo costantemente questi treni – che mettono in connessione Trieste con il Belgio, il Lussemburgo, la Germania, l’Austria, la Repubblica ceca, la Slovacchia e l’Ungheria – siamo l’unico porto italiano che ha questo network intermodale: il porto è un porto europeo, di proprietà italiana ma di dignità europea dal punto di vista del bacino di mercato. Quei treni vanno dappertutto, quasi tutti – il 95 per cento – passano per il valico di Tarvisio, ma avendo a disposizione un valico vicinissimo (Villa Opicina), la riapertura di questa linea ci permette di avere ulteriore capacità dal punto di vista ferroviario, e soprattutto di minimizzare anche il rischio. Voi capite che se tutti i treni passano per un’unica linea, basta quello che sta succedendo in questi giorni, una frana, e abbiamo il porto bloccato. Quindi l’apertura di nuovi canali ferroviari ci permette anche di ridurre il rischio e di non essere dipendenti da infrastrutture che possono subire danni, come sta succedendo proprio in questi giorni sul valico di Tarvisio».
«Quindi «Trihub» è il primo progetto che Trieste, insieme a RFI propone al Governo italiano, il quale lo propone a Bruxelles, che lo deve valutare; siamo andati più volte a presentare gli interventi previsti. Una parte di quel progetto può essere oggetto di investimenti di soggetti terzi rispetto a RFI o all’Autorità portuale o al Governo italiano. Bruxelles per la prima volta ha proposto questo progetto al Governo cinese nel luglio del 2018, in una riunione dell’EU-China Connectivity Platform, insieme ad altri progetti. Non c’è solo l’Italia, non c’è solo Trieste: c’erano anche Genova e tanti altri. In una successiva riunione, circa un anno fa (20-21 novembre 2018), i cinesi ritornano a Bruxelles e indicano i progetti di loro interesse, tra i quali c’è anche «Trihub». A quel punto, dopo che Bruxelles ha gestito tutta la relazione con la Cina, la CCCC, che siede a fianco del Governo cinese in queste trattative, viene da noi. Noi siamo vigilati dal Ministero, quindi abbiamo la facoltà di poter iniziare un dialogo con i cinesi. Questo lo dico perché ho sentito di tutto e di più, ma per quanto mi riguarda la trattativa su ciò deve essere realizzato nel porto di Trieste in termini di investimenti in infrastruttura ferroviaria, che è l’unico elemento gestito direttamente dall’Autorità di sistema, ha rispettato tutte le garanzie procedurali nel contesto del rapporto Trieste-Roma-Bruxelles-Pechino. Questo è stato l’iter con cui è stata presentato questo progetto. Lo dico perché mi stupisco di alcune dichiarazioni delle autorità di Bruxelles, non certo di Roma, che sembrano quasi alludere che certe dinamiche avvengano senza che ne sappia nulla, e qualche Paese va ad additare l’Italia come se ci muovessimo al di fuori di determinate regole, quando invece l’Italia ha rispettate tutte le procedure, al contrario di qualcun altro. Su questo punto non voglio lasciare spazio ad equivoci» chiarisce D’Agostino alla III Commissione.
«Il secondo elemento è stato che, aperto il dialogo con CCCC, proprio perché io sono un manager che gestisce la cosa pubblica – e neanche sotto l’autorità dei soggetti locali, ma sotto quella del Governo italiano – il primo interesse del sottoscritto è l’interesse nazionale, quindi la prima domanda che è stata fatta a CCCC è stata «Siccome noi oggi abbiamo potenzialità importantissime con un porto di riferimento per l’Europa orientale, quali sono i progetti che tu stai realizzando in quella parte d’Europa? Noi come porto di Trieste potremmo essere interessati a essere parte di questo sviluppo». Lo dico perché l’Autorità di sistema in questo momento sta operando con un dinamismo unico in una serie di direzioni, al di fuori del contesto nazionale. Noi oggi stiamo dialogando con una serie di soggetti per diventare partner di sviluppo infrastrutturale, di piattaforme logistiche al di fuori dell’ambito nazionale. Mi permetto di dire che è probabilmente una cosa unica, anche nuova, però la ritengo fondamentale. Se si vuole essere forti a livello locale, è chiaro che bisogna essere punti di riferimento anche in contesti internazionali. Non sto facendo nulla di originale, è quello che fa Rotterdam, o Duisburg, o tanti altri soggetti da svariati anni. Cerchiamo finalmente di applicarlo anche in Italia».
«Le autorità cinesi, dunque, ci sottopongono una serie di progetti che stanno sviluppando. Io non sono interessato a sviluppare autostrade, progetti che loro stanno facendo in giro per l’Europa orientale. Ci propongono invece, ed è diventato parte dell’accordo di marzo, lo sviluppo di una piattaforma logistica ferroviaria a Košice, in Slovacchia. Košice è importante perché è uno dei pochi punti nell’Europa orientale in cui vi è la modifica dello scartamento del binario ex sovietico rispetto all’Europa. Voi sapete che la ferrovia tra Europa occidentale e Unione sovietica ha delle differenze di scartamento, e ci sono alcuni luoghi nell’Europa orientale in cui c’è questo cambio di scartamento: Košice è uno di questi; ed è fondamentale perché, in una logica di investimento logistico, lì comunque il treno si deve fermare, deve cambiare locomotore, in alcuni casi addirittura il treno viene passato su carrozze diverse, quindi c’è una rottura di carico che è chiaramente il presupposto per poter fare anche attività di altro tipo. Quindi noi abbiamo detto a CCCC, che ha trasmesso al Governo slovacco questa nostra esigenza, che possiamo essere interessati allo sviluppo di una piattaforma in quell’area. Ci ha contattato successivamente il Governo slovacco, il loro advisor – Deloitte – che sta facendo il piano industriale di quell’investimento, e noi siamo parte in questo momento dello sviluppo del piano industriale».«Il terzo elemento per la totale reciprocità dei rapporti tra noi e i cinesi è stato quello di dire che cosa possiamo fare in Cina. Qui subentra anche il tema del porto franco, perché esso è sempre stato visto, anche giustamente, come un ottimo elemento per favorire i traffici in entrata nel Paese e nell’Unione europea. Quindi, a prescindere dal fatto che in porto franco a Trieste si possano fare attività manifatturiere e quant’altro, si parla sempre di flussi in entrata. Quello che abbiamo studiato nell’ultimo periodo – noi come porto di Trieste, attraverso un apposito staff, elaboriamo e partecipiamo a venticinque progetti europei: ce n’era uno solo quattro anni fa – è come utilizzare il porto franco per l’export, perché capisco che il tema del porto franco è molto delicato; lo diventa ancora di più se è funzionale solamente a traffici in entrata piuttosto che a traffici in uscita. Quindi abbiamo verificato come invece il porto franco può essere utilissimo per l’export italiano, quindi più funzionale al nostro sistema produttivo piuttosto che a quello di altri Paesi che vogliono esportare in Italia o in Europa».
«A questo punto ci manca un ulteriore tassello. Noi oggi, per esempio, stiamo dialogando con aziende vinicole, perché può essere interessante per l’export del vino posizionare le proprie cantine, o anche i propri magazzini, all’interno del porto franco. Potrebbe dare dei vantaggi interessanti dal punto di vista economico a chi produce vino, ma a chiunque poi produca beni in esportazione. Siamo partiti con la filiera del vino, perché è quella più rilevante e diventa un test per tutte le altre».
«Con i cinesi che cosa abbiamo discusso? Il fatto che noi abbiamo un gap dal punto di vista economico e produttivo in Italia. Siamo molto bravi a produrre dei beni, mentre non è nelle nostre corde la capacità di sviluppo di catene logistiche e funzionali alle esportazioni di questi beni. Per esempio non abbiamo alcun tipo di campione nazionale significativo dal punto di vista della grande distribuzione. Mentre questo per esempio è uno degli elementi di forza dei francesi. I francesi hanno la grande distribuzione che è forte sia a livello nazionale sia internazionale – Carrefour e Auchan sono marchi che conosciamo tutti – quindi questo permette loro di portare i loro prodotti in giro per il mondo in maniera molto più competitiva della nostra. Anche se magari il nostro prodotto è migliore del loro».
«Uno degli elementi analizzati è che, mentre a livello globale Italia e Francia si giocano la prima e la seconda posizione in tutto il mondo nella vendita del vino, questo non avviene in Cina. In Cina noi siamo al decimo posto. I francesi erano al primo fino a qualche settimana fa, adesso sono stati superati dagli australiani. Quindi noi vendiamo in Cina un decimo del vino che vendono i francesi, perché non abbiamo avuto fino ad oggi la capacità di entrare sulla grande distribuzione. I francesi lo fanno direttamente. L’idea che ci è venuta, dialogando con CCCC, è quella di realizzare questo tipo di progetto integrandoci con la grande distribuzione cinese, che in questo momento significa sia vendita off line, quindi grande distribuzione tradizionale, sia vendita on line. Questo è il patto – non scritto – che sta dietro al terzo elemento che abbiamo firmato a marzo, che ha avuto sviluppi qualche settimana fa a Shanghai, con la firma di un ulteriore accordo alla presenza del Ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Di Maio».
«Io sono stato in Cina a fine giugno, abbiamo individuato due aree su cui CCCC è disponibile a investire per creare delle piattaforme di importazione di beni italiani. Ci tengo a sottolineare che quei beni non devono per forza partire dal porto di Trieste: sono beni italiani, possono partire da qualsiasi porto. Il tema è, però, che il porto di Trieste, l’Autorità di sistema si è data, dopo questa firma di Shanghai di qualche settimana fa, l’obiettivo di sviluppare con CCCC un progetto che non implica nulla dal punto di vista contrattuale, dal punto di vista del vincolo, delle obbligazioni. Questo ci tengo a dirlo: nessun atto firmato dal sottoscritto va oltre le vigenti previsioni di legge. Io non posso fare contratti con nessuno – mi riferisco a soggetti privati –, e qualsiasi società, anche di Stato, cinese, nel nostro Paese è un soggetto privato, a prescindere dalla sua proprietà, per cui non ha alcun tipo di diritto rispetto agli altri soggetti. Quindi nessun vincolo contrattuale, nessun obbligo è stato mai sottoscritto – ci mancherebbe altro – da parte dell’Autorità di sistema. Men che meno in questi nuovi accordi, dove però ci siamo detti, visto che c’è la volontà da parte loro di investire, di agevolare le esportazioni: partiamo con il tema del vino e cerchiamo di capire in pochi mesi che cosa significa creare e sviluppare un piano industriale che preveda su queste due aree lo sviluppo di tali iniziative».
«Ci sono altre trattative in corso per diventare partner di altre piattaforme logistiche intermodali – la componente ferroviaria per noi è importante – in Europa: le stiamo facendo con l’Austria, con la Germania e con l’Ungheria. L’Ungheria è un altro dei temi importanti: è diventato il primo mercato del nostro terminal container dal punto vista ferroviario. Quattro anni fa il mercato ungherese non esisteva. Si è partiti con due coppie di treni a settimana, oggi registriamo due coppie di treni al giorno con Budapest, il che significa due treni che vanno e due treni che tornano, pieni sia all’andata sia al ritorno. Budapest è il caso esemplare per far capire come, un po’ alla volta, il traffico che passava dai porti del Nord Europa, da Amburgo in particolare, oggi passa attraverso il porto di Trieste».
E’ chiaro che la via della seta tanto cara a certi ambienti governativi ha creato, nel corso di questi anni, ha creato non pochi grattacapi alle istanze europeiste perchè la Belt and Road Initiative penalizza infatti la “Northern Range” – e questo a Bruxelles ed ai suoi maggiori azionisti tedesco-olandesi non piace affatto – ma, contemporaneamente, risponde prima di tutto alle esigenze economico-commerciali e quindi politico-strategiche della Cina rispetto ai mercati del vecchio continente.
L’Italia cosa sta facendo e visti gli enormi interessi che girano attorno porto di Trieste, la domanda è questa: non è che si vogliono ridimensionare le prerogative delle compagnie dei portuali (Camalli), magari utilizzando il DDL concorrenza?