
“Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la vita a credersi stupido.”
— Albert Einstein
Einstein, che di genialità qualcosa sapeva, ci aveva avvertiti.
Ma la scuola italiana, invece di farne tesoro, sembra aver archiviato la frase tra i “pensieri troppo liberi”. O, peggio, l’ha analizzata in classe, spiegata con tre parafrasi e poi ignorata completamente nella pratica quotidiana.
Nel 2025, nell’era dell’intelligenza artificiale e della didattica digitale “integrata” (più a parole che nei fatti), la scuola italiana continua a valutare gli studenti con lo stampino.
L’omologazione resta il metro principe: sei bravo se sai fare ciò che ti viene chiesto, come ti viene chiesto, quando ti viene chiesto.
Chi sei, cosa senti, dove potresti arrivare? Dettagli secondari. Fastidi didattici.
Il talento? Compilato. Misurato. Neutralizzato.
Uno studente creativo che non regge il ritmo serrato del programma è un “caso da seguire”.
Uno riflessivo viene etichettato “lento”.
Chi prova a ribellarsi al sistema, invece, finisce sotto osservazione.
E intanto si ripete il mantra rassicurante: “Tutti devono essere uguali.”
Uguali, sì. Anche se uno è un pesce e l’altro una scimmia.
Anche se uno sogna, disegna, suona; e l’altro eccelle nei test a crocette.
Nel frattempo, si continua a parlare di “valorizzazione delle eccellenze” — purché sappiano coniugare i congiuntivi, rispettino la tabella delle competenze e portino almeno un 8 anche in educazione fisica.
Il genio incompreso, invece, prende 5. E si becca pure la ramanzina.
Intanto, la scuola affonda.
Tra programmi scolastici concepiti con mentalità novecentesca, edifici fatiscenti, carenze croniche di personale, e una burocrazia che sembra uscita direttamente da Fantozzi.
Gli insegnanti? Spesso lasciati soli, senza strumenti, ma obbligati a seguire linee guida che cambiano più velocemente dei trend su TikTok.
La verità è che stiamo ancora formando studenti per un mondo che non esiste più.
Chiediamo loro memoria meccanica, obbedienza passiva, standardizzazione assoluta.
Poi ci stupiamo se fuggono all’estero. O se a 15 anni si sentono già inadeguati.
Nel Paese delle riforme annunciate e mai digerite, degli esami-farsa e delle circolari contraddittorie, si continua imperterriti a confondere la disciplina con l’annullamento dell’identità.
Il talento individuale è una variabile scomoda. La creatività, un rumore di fondo da gestire con una nota sul registro.
Se uno studente eccelle in musica ma non distingue un avverbio da un complemento oggetto, è da “recuperare”.
Se sogna, immagina, esplora… è “poco concreto”.
In questa scuola, più che formare menti, si tende a livellarle.
E così produciamo generazioni di pesci costretti ad arrampicarsi, bocciati perché non sanno volare, rimandati perché non sanno recitare Foscolo come automi.
La retorica del “merito” si scontra ogni giorno con una valutazione che premia la conformità e penalizza la differenza.
Il “bravo studente” non è chi ha idee. È chi ha imparato a sopravvivere al sistema.
E tra registri elettronici ansiogeni, test standardizzati e relazioni che nessuno legge davvero, il genio italiano – quello vero – viene silenziato, frainteso, sminuito.
Fino a convincersi, davvero, di non valere nulla.
Forse è tempo di smettere di giudicare i pesci per la loro abilità di arrampicarsi.
E iniziare, finalmente, a farli nuotare. Prima che nuotino via. E non tornino più.