(AGENPARL) - Roma, 28 Novembre 2025Preg.mo Direttore,
La storia italiana degli scioperi è lunga e complessa. E spesso, rileggendo le cronache del passato, sembra quasi di osservare un presente che si ripete con ostinazione. È il caso di un breve ma incisivo commento apparso su Controcorrente il 26 febbraio 1976:
“L’Istat ha reso noto che nel 1975 le ore perdute per conflitti di lavoro sono state circa 180 milioni con un aumento di 42 milioni rispetto al 1974. Come si vede, in questo Paese (…) fra tante industrie che vanno a rotoli, ce n’è una che prospera rigogliosa: lo sciopero!”
Parole scritte quasi cinquant’anni fa, ma che tornano oggi di sorprendente attualità. Per il 12 dicembre 2025, infatti, la CGIL ha proclamato un nuovo sciopero generale di 24 ore, rilanciando un tema che negli ultimi mesi è tornato al centro del dibattito politico e sociale.
Il sindacato guidato da Maurizio Landini, alla guida della CGIL dal 2019 e figura di primo piano del sindacalismo metalmeccanico, motiva la mobilitazione con la necessità di contrastare politiche economiche ritenute insufficienti sul fronte salariale, fiscale e previdenziale.
La decisione ha però riacceso un confronto molto acceso nel Paese:
• sulla legittimità dello strumento dello sciopero,
• sulla frequenza con cui viene utilizzato,
• e soprattutto sui toni con cui viene comunicato.
Non è in discussione il diritto costituzionale allo sciopero né il ruolo fondamentale dei sindacati nella difesa dei lavoratori. La questione riguarda piuttosto il linguaggio, la responsabilità e l’effetto che i messaggi dei leader sindacali possono avere su un pubblico vasto e molto eterogeneo.
Landini è un dirigente sindacale di lunga esperienza — già alla guida della FIOM dal 2010 al 2017 — e rappresenta una delle voci più ascoltate nel mondo del lavoro. Proprio per questa ragione, ogni sua dichiarazione pubblica ha un impatto significativo.
Negli ultimi mesi, l’uso di espressioni evocative, talvolta dai toni drammatici o conflittuali, ha sollevato perplessità non solo nella maggioranza di governo, ma anche in parte del mondo produttivo e persino in alcune sigle sindacali.
Quando si fa riferimento a una possibile “rivolta sociale”, anche solo in senso metaforico, è inevitabile interrogarsi sulle conseguenze potenziali di tali parole. In un contesto segnato da tensioni economiche, incertezza e polarizzazione politica, è fondamentale evitare che frange estremiste o gruppi già radicalizzati possano interpretare certe espressioni come una legittimazione all’escalation del conflitto.
La responsabilità del linguaggio non è un dettaglio: è parte integrante della leadership, soprattutto quando si parla a milioni di persone.
Ogni grande sciopero generale porta con sé la possibilità, seppur remota, che piccole minoranze possano degenerare in comportamenti violenti. È un fenomeno noto alle autorità di sicurezza e che spesso obbliga le forze dell’ordine — già provate da organici ridotti e normative restrittive sull’uso della forza — a gestire situazioni difficili con grande prudenza e professionalità.
Non si tratta di criminalizzare la protesta, che è e resta un elemento centrale della democrazia. Si tratta piuttosto di riconoscere che, in un Paese attraversato da tensioni sociali, economiche e politiche, le parole dei leader possono contribuire a calmare il clima, oppure alimentarlo.
L’Italia degli ultimi decenni ha conosciuto governi brevi, coalizioni fragili, cicliche emergenze economiche e un mercato del lavoro che fatica a evolversi. Eppure l’immagine apocalittica di un Paese “al collasso” non regge alla prova dei fatti.
Il quadro è complesso e non privo di criticità, ma certamente più sfumato di come talvolta viene rappresentato nei toni più polemici della dialettica politica e sindacale.
Le difficoltà dei lavoratori non si colmano con slogan; così come la responsabilità del governo non si assolve ignorando le istanze sociali. Il punto sta nel trovare una forma di confronto che non comprometta ulteriormente la fiducia — già fragile — dei cittadini nelle istituzioni.
Una democrazia matura vive anche di conflitto, ma di un conflitto regolato, consapevole e orientato a soluzioni condivise.
Il sindacato ha il diritto e il dovere di denunciare ciò che non funziona.
La politica ha il dovere di ascoltare.
Ma leadership significa anche scegliere i toni e le parole con cui ci si rivolge a un Paese intero.
Forse l’Italia non ha bisogno di “rivoluzioni”, bensì di riforme credibili, dialogo reale e una comunicazione pubblica più responsabile. E ha bisogno che chi gode di ampia visibilità contribuisca a costruire, non a esasperare.
Perché tra il ritornare del passato e le incognite del presente, il Paese merita un dibattito che guardi avanti, e non un clima che rischia di riportarlo indietro.
