(AGENPARL) - Roma, 31 Ottobre 2025(AGENPARL) – Fri 31 October 2025 RELAZIONE DEL PRESIDENTE
Assemblea Pubblica – 31 Ottobre 2025
L’epoca dell’incertezza
1. APERTURA
Illustri Autorità, cari colleghi, gentili ospiti,
è con emozione profonda che prendo la parola in questa mia prima assemblea pubblica.
Presidente di un territorio che lavora, che produce, che crea ricchezza.
Un’emozione resa ancora più intensa dal fatto che questo momento coincide con un anniversario
importante: ottant’anni di vita della nostra Associazione Industriali.
La fine della guerra segnò la nascita di un impegno, di un sogno, di una missione di diversi industriali
cremonesi: essere voce e guida dello sviluppo del nostro tessuto produttivo e della nostra Comunità.
Era un periodo caratterizzato da grande incertezza: gli italiani dovevano ancora scegliere tra la
Monarchia e la Repubblica, la contrapposizione ideologica era profonda, le tensioni sociali forti, la
Commissione dell’Assemblea costituente era al lavoro per redigere la nuova Costituzione.
Eppure, con slancio e visione, gli industriali costruirono fabbriche e crearono milioni di posti di lavoro,
dando vita al Miracolo Economico Italiano.
Da allora tanta strada è stata fatta, tante sfide sono state vinte, altre perse, ma non ci siamo mai fermati.
E noi industriali non ci stancheremo mai di dare il nostro contributo al Paese.
A questi grandi imprenditori va il nostro plauso e il nostro ringraziamento.
A loro dedichiamo questo applauso.
2. PACE E GUERRA
L’attuale momento storico ci dà un profondo senso di inquietudine e di insicurezza.
Siamo attraversati da un profondo senso di sgomento di fronte ai conflitti – oggi più di cinquanta – che
infiammano il mondo, il numero più alto dalla Seconda guerra mondiale.
Ci sconvolgono la ferocia delle violenze e le drammatiche conseguenze umanitarie che ogni giorno
osserviamo attraverso i mass media.
Dov’è finita la pace?
Per decenni abbiamo vissuto con la convinzione — forse con l’illusione — che la pace fosse una
condizione acquisita. Una conquista definitiva della civiltà.
Abbiamo creduto che le tragedie del Novecento avessero vaccinato l’umanità contro la follia della
guerra e che i governanti avessero fatto tesoro delle parole di Alexis de Tocqueville:
“Il passato non si fa rivivere, ma il futuro si costruisce sulle sue lezioni.”
Ma purtroppo ci sbagliavamo.
La guerra è tornata a bussare alle nostre porte: in Ucraina, nel cuore dell’Europa,
coinvolgendo un Paese amico, Paese che si stava avvicinando all’Unione Europea.
Abbiamo scoperto allora che la pace non era un traguardo raggiunto una volta per tutte,
ma un bene prezioso da custodire ogni giorno con fatica, con coraggio, con responsabilità.
Quando i droni e gli aerei hanno sorvolato i cieli europei, il pericolo di una possibile guerra si è
concretizzato diffondendo un clima misto tra incredulità e sgomento.
Gli Stati occidentali si sono fatti trovare impreparati e hanno preso atto della fragilità dei propri sistemi
di difesa. Per troppo tempo, molti Stati europei hanno vissuto nella convinzione di essere protetti da una
sorta di polizza assicurativa chiamata NATO, che dava loro un senso di sicurezza.
Quando nel 2016 il Presidente americano Donald Trump, nel suo discorso d’insediamento alla Casa
Bianca, rimarcò che gli Stati Uniti non intendevano più farsi carico in modo unilaterale dei costi della
NATO in pochi ne colsero la portata.
Oggi ci ritroviamo nella condizione in cui, non avendo pagato per parecchio tempo i premi assicurativi,
ci ha ricordato che la polizza è scaduta e non possiamo più contare su di essa.
Così tutte le Nazioni hanno ripreso — se non la corsa — una marcia accelerata verso il riarmo per
tutelare i cittadini, i confini e i valori condivisi, ricordandosi che la difesa è un dovere primario di ogni
Stato sovrano.
Perché senza sicurezza non c’è libertà, e la libertà è il presupposto della democrazia.
3. LA GEOPOLITICA E IL SUO RUOLO
Le turbolenze politico-militari degli ultimi anni hanno provocato un vero cambio epocale.
Le logiche della geopolitica hanno frequentemente preso il sopravvento sui mercati globali.
Il mondo sta passando da un’integrazione globale a un sistema frammentato e conflittuale,
dove le leggi dell’economia devono confrontarsi con la politica.
Nel 2020 la pandemia ha rivelato la fragilità di filiere troppo lunghe e concentrate in pochi Paesi, il
drammatico contesto ci ha insegnato che la dipendenza da pochi centri produttivi è una forma di
pericolosa vulnerabilità.
Pensiamo ai dazi, alle sanzioni economiche, alle barriere commerciali, alle politiche di dumping,
sono oggi azioni usate non solo per battaglie commerciali, ma come armi di pressione e persuasione
politica.
Soffermiamoci su alcuni prodotti come le terre rare, il litio, il cobalto, il nichel, l’uranio, il gas, il petrolio,
i microchip, i sistemi informatici avanzati e persino le commodities agricole, oggi non sono più
semplicemente beni e merci oggetto di scambio, ma strumenti di potere, leve politiche e militari.
Ed è in questo contesto che dobbiamo riconoscere la nostra fragilità continentale e confrontarci con il
contesto attuale.
Come ha scritto Federico Rampini:
“La geopolitica era considerata materia per pochi studiosi o appassionati, qualcosa di distante,
appartenente più al passato che al presente.
Noi occidentali, e in particolare noi europei, eravamo caduti in una sorta di letargo geopolitico:
convinti che il mondo fosse ormai governato da un ordine stabile, in cui i rapporti di forza non avessero
più un ruolo decisivo.
L’Europa si era cullata nell’idea di essere diventata una “superpotenza erbivora”: capace di esercitare
influenza non attraverso la forza, ma attraverso la cultura, i valori, i diritti, l’istruzione, il welfare. Un
potere morbido, gentile, che sembrava poter garantire egemonia senza conflitto.
Ma tutto questo è andato in frantumi. La realtà ci è stata ricordata bruscamente dalle spinte di alcune
superpotenze “carnivore”, che non si trovano neppure troppo lontano da noi. Non è stata una rottura
improvvisa, in realtà: è un processo che viene da lontano. Siamo noi che, per anni, abbiamo preferito
non vedere, restando in una sorta di ibernazione in cui non volevamo aprire gli occhi di fronte ai
pericoli che stavano crescendo attorno a noi.”
Una frase che descrive perfettamente la nostra realtà.
In questo scenario così complesso vorrei osservare con attenzione l’Europa e l’Italia.
Parto dalla prima toccando subito la questione dei dazi.
I dazi sono uno strumento sbagliato, anche se agitati come arma di difesa nazionale. Essi non
proteggono: soffocano.
Non difendono: isolano.
Non rafforzano: indeboliscono chi li impone e chi li subisce.
Quando l’America di Trump ha scelto quella strada, l’Europa si è trovata davanti a un bivio.
Avremmo potuto rispondere colpo su colpo, muro contro muro, dazio contro dazio. Ma sarebbe stata
una guerra commerciale che nessuno avrebbe vinto, e noi subìto i danni maggiori.
Ecco perché accettare, senza reagire con controdazi, non è stato un segno di debolezza, ma di
prudenza, certamente consapevoli di effetti innegabili sulle nostre esportazioni.
La forza non si misura però nella capacità di alzare barriere, ma nella capacità di costruire ponti, di
restare uniti, di guardare lontano con lungimiranza.
È fondamentale avere un dialogo con un’area che per noi è il secondo mercato di sbocco, con il quale
ci uniscono molte affinità consolidate nei secoli.
La verità è che gli Stati Uniti hanno intrapreso una strada di forte protezionismo industriale.
Dazi, incentivi, reshoring, sostegno diretto alle filiere produttive: tutte misure che mirano a una cosa
sola, proteggere l’industria americana.
Perché? Perché hanno capito che senza industria, un Paese perde autonomia, ricchezza, competenze
e libertà.
La manifattura non è solo produzione: è sapere tecnico, innovazione, valore aggiunto, lavoro qualificato,
comunità.
Ed è anche potere geopolitico: chi produce, decide. Chi dipende dagli altri, subisce.
In Europa, invece, sembriamo aver dimenticato questa lezione.
Abbiamo lasciato che interi settori strategici venissero delocalizzati.
Abbiamo caricato le nostre imprese di burocrazia, di vincoli ambientali spesso ideologici e
tecnologicamente non sostenibili.
Abbiamo accettato la narrazione che l’industria fosse un retaggio del passato, mentre il mondo – quello
vero – tornava a competere sulla produzione e sulla materia.
Oggi, gli Stati Uniti e la Cina investono miliardi per proteggere le proprie fabbriche, mentre noi rischiamo
di diventare solo un mercato, non più un sistema produttivo.
In realtà i primi dazi che oggi frenano l’Europa ce li siamo auto introdotti.
La crisi dell’auto europea è la cronaca di una morte annunciata.
Un percorso glorioso di invenzioni, perfezionamenti, brevetti e ricerca sul motore endotermico, che ha
reso i paesi europei un modello virtuoso, è stato sacrificato in un mandato politico europeo.
Burocrati chiusi in uffici, lontani dalle fabbriche, dalla realtà, hanno deciso senza valutazioni
scientifiche ed economiche che questa tecnologia dovesse essere sostituita con qualcosa di “non
nostro”, di cui non possedevamo il know-how. Abbiamo spalancato le porte alla Cina.
Oggi è il primo produttore mondiale di auto, la sua produzione compre quasi il 50% della produzione
mondiale.
Il paese asiatico ha investito massicciamente in una filiera integrata: dalle materie prime, litio, nichel,
terre rare (di cui controlla il 70% dell’estrazione ed oltre l’85% della raffinazione a livello mondiale) fino
alle batterie e alla componentistica, garantendosi un vantaggio competitivo incolmabile nel breve
periodo.
I marchi cinesi stanno espandendosi in Europa con politiche commerciali aggressive, sostenuti da
economie di scala, sussidi statali e un ecosistema industriale coeso.
E come se non bastasse, l’Europa, nel nome dell’ideologia, ha imposto alle sue case automobilistiche
di finanziare i concorrenti stranieri.
Un caso concreto?
Dal 2015 al 2024 Tesla ha generato ricavi pari a 10 miliardi di dollari dalla vendita di Carbon Credits alle
case automobilistiche europee che sono costrette ad acquistarli per rispettare i target ambientalisti
europei.
Paghiamo quindi Tesla e i produttori cinesi per insegnarci come si costruiscono le auto del futuro.
Una tassa nata per difendere europea che oggi la penalizza e premia chi inquina altrove.
L’ideologia del “green a tutti i costi” ha spinto le istituzioni europee a dichiarare guerra all’automotive,
ai combustibili fossili, alla plastica e al packaging, fino a colpire l’intero settore chimico. Un approccio
dirigistico che ha deciso a priori quali fossero i settori da etichettare come inquinanti e quali fossero le
strade da intraprendere.
Dove ci ha condotto questa strada? Un dato per tutti: il PIL europeo del 2024 è pari a quello del 2010
moltiplicato per 1,8, negli stessi anni il PIL americano è triplicato, quello cinese quintuplicato.
Abbiano quanto meno migliorato la salute del nostro pianeta?
Nemmeno per idea.
Dal 2015 al 2024 l’Unione Europea ha sì ridotto le proprie emissioni di CO₂ del 17%, ma
contemporaneamente il resto del mondo le ha aumentate dell’8%. In termini assoluti sono cresciute di
2,2 miliardi di tonnellate.
I richiami su questi errori sono arrivati anche da persone stimate negli ambienti europei come Enrico
Letta e Mario Draghi.
Quest’ultimo, anche con toni molto accesi, rimproverando l’UE per il suo immobilismo.
Molte voci chiedono che l’Europa vada ridisegnata, addirittura rifondata. Hanno ragione?
Probabilmente sì.
Rifondare non significa demolire: significa rimettere le fondamenta dove il terreno ha ceduto.
L’Europa dovrebbe aprire a mio avviso tre cantieri, subito. Non abbiamo tempo da perdere.
� SERVE UNA RIFORMA DELLE ISTITUZIONI
L’architettura istituzionale europea è nata per gestire la pace e il commercio, non la competizione
globale.
Oggi il principio dell’unanimità e il potere di veto rallentano decisioni cruciali, soprattutto in economia
e politica industriale. Abbiamo un apparato normativo che negli ultimi cinque anni ha prodotto cinque
volte le norme degli Stati Uniti, spesso regolamentando dettagli marginali e trascurando argomenti
strategici.
Provvedimenti costruiti da tecnocrati, spesso sganciati dalla realtà e dalle vere priorità, hanno costretto
i singoli stati ad avviare azioni in difesa di interessi nazionali, spesso a scapito di una strategia comune.
Forse un Parlamento europeo con potere di iniziativa legislativa sulle priorità economiche sarebbe
opportuno. (oggi è solo ad appannaggio delle Commissioni).
Durante la pandemia, con Next Generation EU, l’Europa ha mostrato che può decidere in fretta e con
coraggio. Quella stessa logica emergenziale deve diventare ordinaria nelle politiche economiche:
rapidità, solidarietà, responsabilità condivisa.
� È NECESSARIA UNA NUOVA POTENTE POLITICA ECONOMICA
Sarebbe auspicabile un cantiere economico per definire un mercato finanziario strategico.
In questo senso va vista una riforma del Patto di stabilità e crescita, con regole più semplici e orientate
alla sostenibilità del debito, accanto ad un budget comune che possa finanziare investimenti strategici
(difesa, transizione green, digitale e infrastrutture).
Questo si giustifica soprattutto ora in cui siamo in una situazione di estrema emergenza. Insomma,
occorre puntare a completare l’architettura finanziaria dell’eurozona con un sistema bancario e dei
capitali integrato, e a dotare l’Unione di un bilancio proprio più robusto e permanente, capace di
sostenere investimenti comuni e affrontare crisi.
Allarmato da questa situazione, qualche giorno fa il Presidente Draghi ha lanciato un grido straziante di
dolore e preoccupazione rivolgendosi questa domanda: “E io mi domando: cosa deve succedere
affinché l’Europa si svegli?”
� L’INDUSTRIA AL CENTRO
Il terzo cantiere riguarda l’industria.
L’Europa può e deve tornare a essere una potenza industriale e tecnologica, capace di guidare il mondo
nelle sfide dell’innovazione, della sostenibilità e della sicurezza.
Non essendo un continente ricco di materie prime, dobbiamo basare la nostra forza sulla capacità di
inventare, innovare e trasformare, valorizzando i nostri settori storici di eccellenza come l’auto e quelli
nuovi su cui abbiamo investito poco finora, come la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale.
Per tornare a sostenere l’industria va in primis rimessa al centro la politica energetica.
Siamo nati con il progetto europeo del carbone e dell’acciaio nel 1951, poi nel 1957 la Comunità
europea dell’energia atomica Euratom. Ad un certo punto abbiamo abbandonato l’idea di una
autonomia energetica, di una strategia vera sull’energia, condannando in primis l’estrazione del gas e
preferendo dipendere in toto dagli altri paesi, fra cui la Russia. Il mercato dell’energia rimane un puzzle
di pratiche nazionali, di concorrenze fra Stati europei, con anomalie che vedono paesi come il nostro
pagare l’energia anche il doppio rispetto ad altri.
Teniamo ben presente che le bollette gonfiate non sono soltanto un costo insostenibile per le imprese,
ma un peso enorme sulle spalle dei cittadini.
E ricordiamoci: non esiste autonomia senza sicurezza energetica.
Il mondo inoltre consuma sempre più energia. Negli ultimi trent’anni la domanda globale è cresciuta
di oltre il 60%, e secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, continuerà ad aumentare del 25%
entro il 2040.
Oggi più dell’80% dei consumi mondiali è ancora coperto da combustibili fossili, mentre le rinnovabili –
pur crescendo rapidamente – rappresentano circa il 15%. Nel frattempo, fenomeni come la
digitalizzazione e l’intelligenza artificiale stanno spingendo la domanda di elettricità a ritmi inediti: si
stima che i soli data center, nel 2030, assorbiranno fino al 10% della produzione elettrica
mondiale.
Senza l’intervento sul meccanismo del calcolo dell’energia saremo sempre più in difficoltà.
Dunque, se non faremo le riforme opportune non saranno i dazi di Trump a causare le
delocalizzazioni delle imprese. Lo saranno gli errori ed i limiti della nostra Europa.
Ma attenzione — criticare l’Europa non significa rinnegare ciò che siamo. Significa, al contrario,
pretendere che torni ad essere all’altezza delle sue radici e il continente che è stato per moltissimi secoli
il punto di riferimento del mondo intero.
Dobbiamo affermare con chiarezza che l’Occidente non è solo un luogo geografico, é un modo di
pensare, un modo di vivere.
È l’idea di una società in cui l’uomo è al centro. Libero di intraprendere, di creare, di realizzarsi
pienamente in ogni ambito della vita.
È stato in Occidente che si sono creati i presupposti per soddisfare i bisogni primari dell’uomo: la fame,
la sete, la salute.