
(AGENPARL) – Thu 24 April 2025 L’armonia del colore
ARCO – Festa della Liberazione e festa del Lavoro con la nuovissima mostra «Segantini: l’armonia del colore. La pittura di paesaggio attorno a Sole d’autunno». La galleria civica di Arco, infatti, rimane aperta anche il 25 aprile e il 1° maggio
A seguito dell’acquisizione, nel novembre del 2024, del dipinto di Giovanni Segantini «Sole d’autunno» (1887, cm 90×192), restituito alla pubblica fruizione dopo settant’anni dall’ultima presenza in una mostra pubblica, la galleria civica di Arco presenta ora un focus espositivo dedicato al dipinto e centrato sulla relazione tra questo capolavoro della primissima produzione grigionese di Segantini e gli esiti del naturalismo coevo di ambito lombardo. La mostra, a cura di Niccolò D’Agati, propone un percorso dedicato agli esiti del naturalismo lombardo alla metà degli anni Ottanta e, in particolar modo, per la prima volta, una lettura del dipinto che permetta di riallacciarlo visivamente al suo contesto di riferimento grazie alla messa in rapporto dell’opera con alcuni capolavori del paesaggismo lombardo esposti a Milano nel 1886 e a Venezia nel 1887 e realizzati da campioni della pittura di paesaggio come Carcano, Gignous, Filippini, Bezzi, Bazzaro, Dell’Orto, Mariani, Boggiani, Formis e altri autori che, in maniera di volta in volta personale, declinavano le istanze della nuova pittura del vero. In tal modo sarà possibile non solo evidenziare i rapporti di continuità tra le posizioni estetiche e le sperimentazioni linguistiche segantiniane e le coeve ricerche della scuola naturalista – rapporti spesso tralasciati negli studi, ma di fondamentale importanza per la comprensione del percorso segantiniano come emerge dalle riflessioni della critica coeva –, ma permettere una più approfondita comprensione delle specificità linguistiche e concettuali della pittura segantiniana, proprio in rapporto agli esiti coevi del naturalismo, all’avvio del suo soggiorno nei Grigioni che segna un fondamentale momento di snodo concettuale nella concezione del paesaggio da parte dell’artista arcense.
In occasione della mostra, aperta il 12 aprile, sarà pubblicato un volume di studi e ricerche all’interno del quale saranno presentati i contributi scientifici che accompagnano la mostra e le schede delle opere esposte.
La galleria civica di Arco è aperta dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18 (chiusa il lunedì) fino al 5 ottobre.
Di più sulla mostra
Presentato per la prima volta in occasione della Esposizione Nazionale di Venezia del 1887, Sole d’autunno si poneva quale esito più recente della produzione pittorica dell’artista che, nell’impostare la sua partecipazione alla rassegna lagunare, affidava a cinque opere ad olio – corredate da 12 studi grafici – il compito di rappresentare le sue ultime ricerche. La sequenza, purtroppo non rispettata in mostra a causa della ristrettezza degli ambienti, progettata da Segantini e dal suo gallerista Vittore Grubicy prevedeva ad apertura il quadro grande, ossia Alla stanga (Prealpi) (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) presentato l’anno prima a Milano, capolavoro conclusivo del periodo brianteo, il Ritratto di Vittore Grubicy De Dragon (1887, Lipsia, Museum der bildenden Künste Leipzig) la Tosatura delle pecore (1885, Tokyo, The National Museum of Western Art Tokyo) già esposta ad Anversa nel 1885, la seconda versione dell’Ave Maria a trasbordo dipinta a Savognin e, da ultimo, il quadro individuato nelle lettere dell’artista come vacca bianca e, poi, titolato in mostra Sole d’autunno (passando presso la fontana) Savognin – valle Sorsette – Grigioni. Attraverso, dunque, lavori che coprivano l’ultimo biennio, segnato proprio dal trasferimento dalla Brianza ai Grigioni, Segantini proponeva una significativa lettura della propria ricerca a partire dal momento indubbiamente più significativo e fondamentale rappresentato, nell’estremo periodo brianteo, dall’emergere di quella maniera chiara, come la definiva Primo Levi l’Italico, che costituiva una cesura rispetto ai precedenti esiti segnati dalla predilezione per le intonazioni scure, enfatizzate dall’uso dei bitumi, a favore di un illimpidimento della tavolozza e delle luci frutto di un rinnovato studio del vero.
Come rammenta il pittore stesso in una lettera a Tumiati del 1898, il ritorno allo studio della natura condotto sul vero rappresentava, nella considerazione ex post, la chiave di volta dell’avvicinamento alla conquista di una più intensa luminosità – che si manifestava nei lavori briantei da A messa prima sino Alla stanga – e che si sarebbe definitivamente risolto nell’adozione della tecnica divisionista: «pensai allora di studiare e conquistare la Natura, uscendo quasi dal mio sentimento intimo. […] Con questo intermezzo iniziai il secondo periodo passando nelle Alpi dei Grigioni a Savognino. Qui la mia arte prese quel carattere che ancora conserva. Quel misterioso divisionismo dei colori che voi vedete nell’opera mia, non è che naturale ricerca della luce. Qui il mio spirito si riempiva d’ una grande gioia, gli occhi si estasiavano nell’azzurro del cielo, nel verde tenero dei pascoli e guardavo le superbe catene dei monti colla speranza di conquistarle. Incominciando a tener calcolo del colore come bellezza armonica, presi a studiare quadri d’animali, essendo il paese molto dedito alla pastorizia». Sole d’autunno rappresentava, già dal titolo che focalizzava l’attenzione sulla luce, proprio il primo esito tangibile di questa rinnovata concezione del colore come bellezza armonica e, in tal senso, nell’articolata sequenza presentata per l’esposizione Veneziana, costituiva l’opera di avvio di una nuova fase della sua pittura.
Come già in occasione dell’esposizione milanese del 1886, fu Alla stanga – insieme alla Tosatura –il dipinto più celebrato e acclamato dalla critica e rappresentava, nei fatti, una delle opere che con più facilità poteva essere riassorbita all’interno di quel variegato e articolato panorama che costituiva la moderna scuola del naturalismo lombardo che proprio nella pittura di paesaggio si imponeva con una fisionomia propria. Tra l’esposizione di Milano del 1886, in occasione dell’inaugurazione della Permanente, e la mostra veneziana del 1887, diversi critici avvertivano come il paesaggio fosse divenuto uno dei campi d’applicazione preferenziali della pittura lombarda: «sembra che vari tra i bravi pittori lombardi – scriveva Alfredo Melani (A. Melani, L’arte nel nuovo palazzo dell’esposizione Permanente a Milano. Paesisti e marinisti. II, «Conversazioni della Domenica», I, n. 18, 2 maggio 1886, p. 193) – si sieno incaricati di impegnare lotta vivissima coi grandi maestri nelle nazioni vicine nella rappresentazione del paesaggio» e concludeva come a capo della falange dei paesisti vi fossero proprio i pittori di formazione milanese capitanati, forte delle sue più recenti affermazioni, da Filippo Carcano. Robustelli, nel commentare l’esposizione veneziana, non poteva fare a meno di notare come «a Venezia, più che nelle precedenti Mostre, i paesisti scendono in campo numerosissimi, talché il paesaggio occupa davvero il più alto gradino nella scala dei quadri esposti. E lo spirito e il valore della pittura di paese, salvo poche eccezioni, sono affermati sinceramente» (G. Robustelli, L’esposizione Nazionale Artistica a Venezia, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 25 giugno 1887, n. 148, pp. 3579). Tra gli artisti che, limitatamente all’area di afferenza lombarda, si imponevano, vi erano, tra gli altri, il caposcuola Filippo Carcano, Bartolomeo Bezzi, Guido Boggiani, Eugenio Gignous, Achille Befani Formis, Uberto Dell’Orto, Francesco Filippini, Mosè Bianchi, Pompeo Mariani, Emilio Borsa e, naturalmente, Giovanni Segantini.
Ciò che distingueva la produzione di questi artisti, pur nella talvolta radicale differenza di ideali estetici e di estrinsecazione pittorica sino ai poli opposti di una materia pittorica ora solida e rilevata ora sfaldata e liquida, era un rinnovato senso del vero che i pennelli realisti, come li definiva Raffaello Barbiera (R. Barbiera, Arte ed amori. Profili lombardi, Milano 1888, p. 298), attingevano dal confronto diretto con la realtà, con il colore e con la luce colti dal vero, al fine di raggiungere, in pittura, una restituzione il più possibile immediata in termini visivi, per quanto ristrutturata e riorganizzata pittoricamente, dei rapporti dei toni e dei rapporti dei valori luminosi osservati nella realtà.
Questa «musica della pittura», come ancora Robustelli definiva la pittura di paesaggio, diviene la misura di una sperimentazione che, lungi dall’esaurirsi nel semplice ricorso ad un pleinarismo più o meno integrale, si risolveva in una radicalizzazione di talune sprezzature e sintetizzazioni formali, disegnative, cromatiche, nello sperimentalismo degli impasti, lavorati a spatola o a pennello, che rispondevano a una necessità di ricomposizione dell’immagine sempre più attenta ai valori d’ambiente e d’atmosfera, ai valori di massima e di massa di luce, colore e volume, che divenivano i mezzi principali di una interpretazione del paesaggio quale, citando Barbiera, «espressione del sentimento moderno che nella Natura, apparentemente morta o insensata, raccoglie voci che parlano ad esso, echi misteriosi di potenze eterne».
In questo contesto di rinascita dell’interesse nei confronti del paesaggio rientrava, agli occhi dei critici, in maniera del tutto coerente l’opera segantiniana che, nondimeno, si affermava per caratteristiche individuali destinate a diventare dirompenti e, finanche, erosive, a partire da un’opera come Sole d’autunno. «Svoltosi nel trionfo e nell’ambiente di Carcano – scriveva Primo Levi nel 1899 – egli ha saputo resistere ad una influenza, che si è sovrapposta a tutta una generazione di paesisti. […]», «egli non si limita – continuava il critico –, come è ormai troppo di moda dopo il trionfo della nuova tecnica, a ritrarlo, comunque sia, con fedeltà materiale, nelle sue linee letterali: egli ne sente l’anima». Sono proprio gli anni attorno al 1885-1887, con la realizzazione di Alla Stanga e di Sole d’autunno, che riportano il paesaggio al centro della riflessione artistica segantiniana. Se durante l’epoca briantea, infatti, il paesaggio costituiva, nella maggioranza dei casi, una cornice subalterna alle scene pastorali divenendo, semmai, una sorta di grancassa emozionale melanconica nelle costanti intonazioni ribassate e crepuscolari aliene da qualsivoglia interpretazione del paesaggio nei suoi valori di luce e colore reali, a partire dalle ampie tele orizzontali di metà degli anni Ottanta il paesaggio, nella sua essenzialità di luce e colore, diviene il fulcro nodale della ricerca del pittore. Un percorso efficacemente sintetizzato dalle parole che Vittore Grubicy, nel 1887 proprio mentre le opere di Segantini erano esposte a Venezia, scriveva a Primo Levi affermando come l’artista stesse «rifocillando la sua retina e purificando la sua tavolozza colle annotazioni esatte del colore nella sua funzione di esprimere la luce».
Ufficio stampa dei Comuni di Arco e di Riva del Garda
Michele Comper