Finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità resterà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace. Questa divisione, tanto antica quanto profonda, è la radice di tutto il male del nostro tempo. L’esistenza di una società in cui pochi comandano e molti obbediscono non è solo una questione politica o economica: è una questione morale, esistenziale. Come si può aspirare a una vera umanità se una parte di essa è costretta a chinarsi al volere altrui?
Un paese di servitori rischia di trasformarsi inevitabilmente in un paese di servi. La differenza è sottile, ma cruciale. Servire è un’arte, un atto di dedizione e responsabilità verso il bene comune. Essere un servo, invece, significa sottomettersi, rinunciare alla propria dignità e identità per compiacere un padrone. La sfida, dunque, è duplice: come si può evitare che i servitori dello Stato diventino servi di un potere tirannico? Come si può costruire una società in cui il servizio sia una vocazione e non una catena?
La metafora dei girasoli è illuminante: i girasoli si inchinano al sole, simbolo di vita e forza. Ma se uno di essi è troppo chinato, significa che è morto. Così accade agli uomini: servire è un atto vitale, ma piegarsi eccessivamente – fino alla servitù – significa annullarsi, perdere il proprio senso.
Servire è un’arte suprema. Non è un caso che nelle tradizioni religiose e spirituali Dio sia spesso descritto come il primo servitore. Egli è il servitore di tutti gli uomini, offrendo la sua cura e protezione, ma non è servo di nessuno. Questa distinzione è fondamentale: servire è un atto libero, un dono che si fa agli altri per amore, per giustizia, per senso del dovere. La servitù, invece, è la negazione di questa libertà; è la condizione in cui si obbedisce non per scelta, ma per necessità o paura.
Un vero servitore dello Stato agisce con questa libertà. Egli è chiamato a servire il bene comune, non a compiacere un tiranno di turno. Ma in un sistema di potere malato, il confine tra servire e servitù si fa labile. Non basta che i sudditi obbediscano; devono compiacere, tormentarsi, sacrificarsi per soddisfare i capricci del potere. Devono rinunciare a se stessi, piegarsi ai desideri del padrone, spogliarsi della propria natura per diventare semplici strumenti.
In questo quadro si inserisce la riflessione sulla servitù volontaria, concetto già esplorato da autori come Etienne de La Boétie. La servitù, infatti, non sempre viene imposta con la forza. Spesso è accettata, interiorizzata, persino desiderata. Il servo non è solo colui che obbedisce a un padrone, ma anche chi rinuncia alla propria libertà per comodità, per paura o per interesse. Così si costruiscono i regimi tirannici: non solo con la repressione, ma con il consenso passivo di chi si sottomette.
Se vogliamo superare questa dinamica distruttiva, dobbiamo ripensare il concetto di servizio. Servire non deve più essere visto come un’umiliazione, ma come un atto di grandezza. Dobbiamo educare le nuove generazioni a essere servitori del bene comune, non servi del potere. Questo richiede coraggio, autonomia di pensiero e un profondo senso di responsabilità.
Una società libera è una società in cui tutti servono senza essere servi. In cui il potere non è uno strumento di dominio, ma un mezzo per garantire giustizia e prosperità. In cui il sole non è un tiranno che schiaccia, ma una luce che guida. Solo così potremo trovare quella normalità e quella pace che da troppo tempo ci sfuggono.