
(AGENPARL) – Roma, 28 aprile 2020 –
Marta Cartabia Presidente della Corte costituzionale 28 aprile 2020
Palazzo della Consulta
Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019
Marta Cartabia Presidente della Corte costituzionale
La Corte «aperta», vista al tempo del Covid-19 Nel momento in cui mi accingo a scrivere la relazione sulle attività della Corte costituzionale nell’anno 2019, la tradizionale Riunione straordinaria alla presenza del Capo dello Stato, dei rappresentanti delle altre istituzioni e della stampa, già prevista per il 9 aprile 2020, è stata sospesa per l’emergenza Covid-19. Mi sia in primo luogo consentito di rivolgere un pensiero di sentita partecipazione al dolore per la scomparsa di migliaia di nostri concittadini e di sincera gratitudine per tutti coloro – e penso in particolar modo al personale medico e infermieristico – che in questo non facile frangente assicurano i servizi essenziali della Repubblica con competenza, coraggio e generosità. Nei modi che le sono propri, anche la Corte costituzionale ha continuato e continua a svolgere le sue attività essenziali, sia pure con modalità compatibili con la situazione, riunendosi prevalentemente da remoto come disposto dai decreti della Presidente del 12, del 24 marzo e del 20 aprile 2020 per contenere l’esposizione al rischio di contagio connesso allo spostamento fisico di persone e al contempo assicurare la continuità e il tempestivo esercizio della funzione di giustizia costituzionale, nel pieno rispetto del contraddittorio. Tutte le altre iniziative in calendario sono state necessariamente rinviate a data da destinarsi. Desidero rivolgere un vivo ringraziamento ai colleghi, al segretario generale e a tutto il personale della Corte per l’impegno, la disponibilità e la competenza con cui si sono adoperati per realizzare tempestivamente tutti gli adattamenti necessari ad assicurare la continuità della giustizia costituzionale. In questa situazione di isolamento, dare conto dell’attività della Corte nell’anno 2019 ha un che di paradossale. Quello appena concluso è stato l’anno della grande apertura della Corte costituzionale alla società civile e alla dimensione internazionale. «Apertura» è stata la parola d’ordine a palazzo della Consulta. La Corte ha aperto le sue porte, oltre che per permettere al pubblico e ai giornalisti di assistere alle udienze pubbliche, anche per consentire la visita del Palazzo da parte dei cittadini. Ha posto molte energie per sviluppare una comunicazione capace di raggiungere non solo gli operatori del diritto e gli specialisti, ma anche il pubblico generale. Ha moltiplicato i comunicati stampa. Ha rinnovato il sito internet. Si è resa presente sui social. Ha ulteriormente sviluppato la comunicazione in lingua inglese, con una più assidua traduzione delle sentenze, dei comunicati stampa e dei principali documenti della giustizia costituzionale. Ha partecipato a numerosi incontri con altre Corti costituzionali e con le Corti europee. Ha organizzato seminari di studio. Ha ricevuto visite e delegazioni di altre Corti. Di più: la Corte non ha solo «aperto il palazzo», ma è uscita. È uscita per raggiungere i giovani nelle scuole d’Italia – come peraltro già accadeva da qualche anno, anche se in maniera meno strutturata; è uscita per incontrare la realtà delle carceri con visite di storica importanza, che sono tutte documentate analiticamente sul sito online della Corte e, con una selezione d’autore, anche dal docufilm Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri prodotto da Rai cinema e Clipper Media per la regia di Fabio Cavalli. E ancora, è uscita per farsi conoscere da tutti e per portare ovunque i valori della Costituzione, attraverso la proiezione del docufilm in ogni angolo del paese e persino all’estero. Il 2019 è stato un anno di grande dinamismo, tanto negli orientamenti della giurisprudenza della Corte, quanto nelle sue attività non giurisdizionali (si vedano in proposito i documenti predisposti dalla Segreteria generale e dalla Responsabile della Comunicazione, pubblicati sul sito unitamente alla consueta relazione sulle attività giurisdizionali della Corte e ai dati statistici elaborati dal Servizio studi. Poi, improvvisamente, è venuto un momento di stasi e di chiusura, imposto da un frangente drammatico della storia del paese e dell’umanità. Ora tutto ha subito un forte rallentamento. È un tempo quasi sospeso. In questa contingenza, le istituzioni della Repubblica assicurano la continuità delle funzioni loro affidate, limitando le attività all’essenziale e alle questioni urgenti, indifferibili. Il contesto si è improvvisamente trasfigurato e la presenza delle istituzioni non può che esprimersi attraverso modalità adeguate alla nuova situazione, ma sempre orientate al rispetto e alla realizzazione dei valori costituzionali. Anche la Corte costituzionale si è impegnata in una repentina e radicale riorganizzazione, per poter continuare a celebrare i giudizi di costituzionalità secondo procedure rispettose del grande sforzo di contenimento degli spostamenti richiesto a tutti dall’epidemia in corso. Per loro natura i giudizi davanti alla Corte costituzionale coinvolgono soggetti che provengono da tutto il territorio nazionale: dai giudici, agli avvocati, dagli assistenti a tutte le persone che gravitano intorno all’universo della giustizia costituzionale. È stata dunque necessaria una rapida, per quanto provvisoria, digitalizzazione di alcune fasi del processo costituzionale, per consentire alla Corte di continuare a svolgere la sua funzione fondamentale. C’è un tempo per ogni cosa e ogni cosa è bella al suo tempo, si potrebbe dire prestando eco alla millenaria saggezza del libro Qoelet. Il tempo del «viaggio in Italia» della Corte è stato bruscamente interrotto e molte altre attività culturali e internazionali già programmate nel segno dell’apertura dell’istituzione sono state rinviate. Quel tempo che, per alcuni versi, abbiamo detto sospeso, non appartiene 3 però solo al passato, non è un tempo perduto: alcuni suoi frutti già si schiudono anche in questo tempo ritrovato e presente. Infatti, nel corso della stagione di «apertura» della Corte, a cui abbiamo appena accennato, è stata portata a termine l’approvazione di alcune rilevanti modifiche strutturali del processo costituzionale. In seguito ad un seminario svolto a palazzo della Consulta nel dicembre 2018 e proseguito in un ricco dibattito interno, la Corte, con delibera dell’8 gennaio 2020, ha disposto alcune modifiche alle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale per favorire una più ampia partecipazione al processo costituzionale. In particolare, è stato introdotto l’istituto degli amici curiae e la possibilità di ascoltare esperti di altre discipline, mentre è stata codificata la giurisprudenza in materia di interventi di terzi. In particolare, si è previsto che qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale possano presentare brevi opinioni scritte per offrire alla Corte elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto al suo giudizio, derivanti dalla loro esperienza “sul campo”, soprattutto in relazione ad aspetti pratici dell’applicazione delle norme. Parallelamente, la Corte può convocare esperti di chiara fama di altre discipline per ricevere apporti su problemi specifici che vengano in rilievo nella trattazione delle questioni portate al suo esame. Numerose ed immediate sono state le richieste di partecipazione di vari esponenti della società civile, prima ancora che i termini dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni lo consentissero. D’altra parte la Corte stessa ha già in calendario la convocazione di due esperti in relazione a una questione riguardante l’organizzazione della agenzia delle entrate. In applicazione alle disposizioni sugli interventi di terzi, inoltre, la Corte ha ammesso l’intervento dell’ordine dei giornalisti, in un giudizio di legittimità costituzionale avente a oggetto il reato di diffamazione a mezzo stampa (ordinanza n. 37 del 2020). Le modifiche apportate al processo costituzionale sono entrate in vigore prima che l’imprevedibile emergenza innescata dall’epidemia imprimesse una brusca svolta al corso della vita delle istituzioni. La pronta e immediata recezione di tutte le novità processuali introdotte nel gennaio 2020 da parte dei soggetti interessati, è conferma di un cambiamento già avvenuto nel segno dell’apertura, anche sul piano processuale. Si tratta ora solo di attendere un tempo più propizio per sfruttare appieno le potenzialità introdotte dalle nuove norme integrative. Nell’immobilità della vita activa a cui siamo chiamati in questo tempo presente, non siamo privati dello spazio per riflettere. In questo tempo sospeso, c’è agio per lasciar decantare le tante novità degli ultimi anni e consolidare così la consapevolezza dell’importanza di una Corte “in relazione”, pienamente inserita nella trama istituzionale repubblicana, aperta alla società civile, protagonista anche sulla scena europea e internazionale. Oggi, le attività della Corte continuano in forma più riservata e ritirata, nell’attesa di potersi riaprire con slancio e convinzione rinnovati. L’esperienza che ha caratterizzato gli anni più recenti 4 dell’attività della Corte – anni davvero “speciali”, come ebbe a dire il presidente Giorgio Lattanzi in apertura alla relazione dello scorso anno – ha radicato nei giudici e in molti protagonisti della giustizia costituzionale la persuasione che una Corte aperta sia foriera di una giustizia costituzionale più ricca. I benefici recati dall’esperienza della Corte “in uscita” sono entrati a far parte del patrimonio della giustizia costituzionale. Il «viaggio in Italia della Corte costituzionale» continuerà e troverà nel tempo nuove modalità di esprimersi secondo tutte le sue potenzialità. 2 Panoramica della giustizia costituzionale per il 2019 2.1 I numeri Venendo all’attività giurisdizionale della Corte, è bene fornire e commentare anzitutto alcuni dati statistici, come vuole la tradizione. I numeri, le percentuali, i grafici sono riportati dettagliatamente nell’apposito volume predisposto dall’Ufficio studi. Qui segnalo sinteticamente solo alcune tendenze, sottolineando sin da subito che ne 2019 è aumentata la domanda di giustizia costituzionale e sono aumentate anche le risposte di accoglimento da parte della Corte, con una netta riduzione dei tempi per arrivare alla pronuncia finale. 1. È in aumento il numero di questioni portate davanti alla Corte costituzionale: nell’arco del 2019, i giudici si sono rivolti alla Corte in via incidentale in 248 casi (199 nel 2018 e 198 nel 2017) e anche i ricorsi di Stato, Regioni, Province autonome sono notevolmente aumentati, passando dagli 87 del 2018 (92 nel 2017) ai 117 del 2019. 2. A questo incremento della domanda corrisponde anche un incremento nella risposta, sia rispetto al dato del 2018, sia rispetto alla media dal 2015 (includendo i valori del 2019: media 2015-2019). Ciò vale sia per i giudizi di legittimità in via incidentale, sia per quelli in via principale: ai primi corrispondono 171 pronunce, ai secondi 95 (su un totale di 291). È confermata la tendenza del giudizio incidentale a prevalere, nell’economia complessiva dei lavori, su quello principale. Un altro dato interessante riguarda il tipo di decisioni adottate. In generale, sono aumentate le sentenze rispetto alle ordinanze, il che vuol dire che la Corte è entrata nel merito delle questioni, motivando in modo approfondito la propria decisione, in 204 pronunce su 291 relative a giudizi di legittimità. Si tratta di una tendenza in costante aumento dal 2013, ma nel 2019 l’incremento è particolarmente evidente per i giudizi incidentali nei quali la motivazione della sentenza costituzionale è particolarmente importante anche perché attraverso di essa la Corte costituzionale si mette “in dialogo” con i destinatari delle sue pronunce, tra cui anzitutto i giudici civili, penali, amministrativi e contabili che ad essa si rivolgono. 5 4. Se poi guardiamo l’esito del giudizio costituzionale, scopriamo che c’è stato un significativo aumento anche delle sentenze di accoglimento (39 nel 2017, 42 nel 2018 e 58 nel 2019). 5. I tempi medi dei giudizi sono in calo e corrispondono a 272 giorni per il giudizio in via incidentale, rispetto ai 389 del 2018, 362 del 2017 e 344 del 2016. La riduzione è stata netta anche per gli altri tipi di giudizi: 263 per quello in via principale. Considerato che il tempo medio per il deposito della sentenza è di circa un mese, si può concludere che il giudizio costituzionale ha una durata media di 10 mesi (dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’atto introduttivo). Difficile individuare con certezza le cause a cui attribuire la crescita del volume delle attività della Corte. Certamente si deve segnalare che questa linea di tendenza in ascesa coincide temporalmente, da un lato, con lo sforzo di trasparenza, apertura e conoscibilità delle proprie funzioni che la Corte ha coltivato attraverso le numerose iniziative legate alla comunicazione istituzionale della stessa (per una analisi più dettagliata rinvio all’apposito documento predisposto dalla responsabile della Comunicazione); e, dall’altro, si è sviluppata di pari passo con un atteggiamento meno formalistico della Corte circa il controllo sui requisiti di ammissibilità delle questioni incidentali, sicché la diminuzione delle pronunce di inammissibilità e il corrispondente aumento delle risposte nel merito da parte della Corte alla domanda di giustizia costituzionale presente nella società e nelle aule giudiziarie potrebbe aver incoraggiato i soggetti interessati a rivolgersi alla Corte, a partire dai giudici rimettenti. Particolarmente significativa, a questo proposito, è la circostanza che in occasioni sempre più numerose siano la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a interpellare la Corte costituzionale. Si conferma così la preziosa propensione delle supreme corti del nostro ordinamento a collaborare per il comune fine di diffondere i principi costituzionali in profondità in ogni piega dell’ordinamento. 2.2 Tre linee di tendenza Venendo al merito della giurisprudenza costituzionale, con le brevi considerazioni che seguono intendo mettere in evidenza alcune essenziali linee di tendenza emergenti dalla giurisprudenza costituzionale del 2019, rinviando, per un esame analitico delle singole decisioni, al prezioso volume predisposto dal Servizio studi della Corte costituzionale. In particolare, dalla giurisprudenza costituzionale del 2019 emergono con nitore tre profili: 1) la necessità di rafforzare il dialogo con il legislatore; 2) lo sviluppo della collaborazione inter-giurisdizionale nella protezione dei diritti fondamentali; 3) un sindacato più stringente in materia penale e di esecuzione penale. Molto altro si potrebbe dire in merito agli orientamenti emergenti dalla giurisprudenza costituzionale, nei singoli settori. Lasciamo questo compito ai 6 commentatori che sempre seguono con puntualità e grande attenzione l’attività della Corte, offrendo un servizio di rilettura critica e di riflessione sistematica della giurisprudenza costituzionale di grande utilità. In questa sede, mi limito a segnalare le principali questioni emergenti viste dalla prospettiva interna della Corte, a partire dalla esigenza ricorrente con sempre maggior evidenza in ogni attività della Corte: quella del pieno sviluppo della «leale collaborazione» tra tutte le istituzioni della Repubblica nell’attuazione dei principi costituzionali. 3 La leale collaborazione come principio costituzionale In vero, il compito di garantire e attuare i principi costituzionali è di per sé inesauribile e coinvolge tutte le istituzioni repubblicane. Vero è che alla Corte costituzionale spetta un compito insostituibile, che è quello di assicurare il rispetto dei principi costituzionali anche da parte del legislatore. È altresì vero, però, che la piena attuazione dei principi costituzionali ha un carattere necessariamente corale e richiede l’attiva leale collaborazione di tutte le istituzioni: giudici ordinari, corti sovranazionali, regioni, pubblica amministrazione e soprattutto legislatore nazionale. Come già ebbe a sottolineare il presidente Lattanzi nella relazione dello scorso anno, le pronunce della Corte costituzionale sono, molto spesso «più che il punto conclusivo di una certa vicenda, il punto intermedio di uno sviluppo normativo che trova compimento solo quando il legislatore lo conclude». Ciò perché, nel sistema repubblicano, la Corte non è tanto mediatrice diretta dei conflitti tra diritti o principi, quanto piuttosto garante del quadro d’insieme entro il quale la mediazione deve compiersi ad opera delle istituzioni politiche, che rispondono in ultima analisi ai cittadini, in quell’avventura che ci coinvolge tutti come protagonisti e artefici della vita comune. Certo, con una sentenza della Corte si conclude in via definitiva una questione di costituzionalità: contro le sentenze della Corte costituzionale non è ammessa alcuna forma di impugnazione (art. 137 Cost.); ma la decisione della Corte non è che un frammento di un processo e di una dinamica ordinamentale che prosegue in altre sedi. Di qui la necessaria cooperazione che deve governare i rapporti tra tutte le istituzioni. Le proficue relazioni di collaborazione attiva tra la Corte costituzionale e gli altri giudici – tanto nella fase ascendente della proposizione della questione di legittimità costituzionale, quanto nella fase discendente del seguito delle pronunce costituzionali – è ormai un dato acquisito dell’esperienza italiana di giustizia costituzionale e pressoché unico nel quadro del diritto comparato, che ha portato storicamente e porta tuttora frutti preziosi in termini di effettività del sistema di controllo di costituzionalità. Altrettanto importante per la riconduzione a Costituzione dell’ordinamento legislativo, tuttavia, si presenta anche il rapporto tra la Corte costituzionale e il legislatore – Governo e Parlamento – in ossequio al principio costituzionale della leale collaborazione, essenziale quanto quello della necessaria separazione dei poteri e ad esso strettamente complementare. 7 Separazione e cooperazione tra poteri sono due pilastri coessenziali che reggono l’architettura costituzionale repubblicana. L’indipendenza reciproca tra i poteri non contraddice la necessaria interdipendenza fra gli stessi, specie in società ad alto tasso di complessità, come sono quelle contemporanee. Da tempo e in numerose circostanze la giurisprudenza costituzionale ha affermato la centralità del principio costituzionale di leale cooperazione, non solo con le altre giurisdizioni, nazionali ed europee, non solo nei rapporti tra Stato e Regioni, ma anche, e soprattutto, nei rapporti tra gli organi costituzionali, come condizione fondamentale per un corretto funzionamento del sistema istituzionale e della forma di governo. 3.1 La collaborazione tra Stato e Regioni In proposito, non si può fare a meno di ricordare il costante richiamo che si rinviene nella giurisprudenza della Corte alla leale collaborazione tra Stato e Regioni, nelle materie di interesse comune o in ambiti posti al crocevia tra una pluralità di competenze, talune di pertinenza statale e altre spettanti alle regioni. Non di rado, la Corte è stata costretta a richiamare la leale collaborazione in materia di coordinamento finanziario (ad es., sentenza n. 6 in merito all’annoso contenzioso Stato-Regione Sardegna). Così come occorre prendere atto che in un numero significativo di casi i giudizi di legittimità in via principale portati all’esame della Corte dallo Stato o dalle regioni, si risolvono con la cessazione della materia del contendere o l’estinzione del giudizio, in seguito a modifiche apportate alla normativa in questione durante la pendenza del giudizio, spesso all’esito di negoziazioni tra Stato e Regioni. Ciò è accaduto ben 35 volte nel 2019. A questo proposito, la Corte non può che rallegrarsi se, dopo che è sorta una controversia tra Stato e Regioni, si riesce poi a trovare una composizione politica dell’antinomia. Così si ricompone a valle la leale collaborazione che può essere mancata a monte e si torna, sia pure a posteriori, alla fisiologia costituzionale. Tuttavia, questo sistema presenta alcune disfunzioni: da un lato, l’impugnazione finisce per configurarsi come una sorta di rimedio cautelativo, esperito in vista di ulteriori valutazioni ed eventuali accordi; dall’altro lato, se gli accordi giungono a ridosso della discussione dei ricorsi, essi non risparmiano il cospicuo investimento di tempo, energie e risorse che la Corte profonde nell’analisi e nella preparazione di ciascuna causa, prima della discussione. I numeri aiutano a comprendere le proporzioni del fenomeno. 3.2 La collaborazione istituzionale tra corte e legislatore Se l’andamento dei giudizi in via principale appena ricordato segnala la necessità di una più precoce ed effettiva cooperazione tra Stato e Regioni, è soprattutto nei rapporti con il legislatore statale che occorre recuperare una virtuosa collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ambiti di competenza. 3.2.1 Giustizia costituzionale e spazi della sfera politica Nel corso dell’ultimo anno, la Corte è andata precisando il ruolo della giustizia costituzionale a fronte della sfera riservata alla politica. La dinamica del controllo 8 di costituzionalità si dispiega lungo la traiettoria tracciata dall’«opposizione polare» che si determina tra due principi in perenne tensione fra loro e che richiedono di essere sempre mantenuti in bilanciato equilibrio: il principio costituzionale dell’autonomia dell’ambito politico il rigoroso rispetto dei principi sia procedurali che sostanziali che la Costituzione impone ad esso. Nel corso del 2019, la Corte ha sviluppato alcuni orientamenti giurisprudenziali che corroborano entrambi i poli di questo equilibrio. Proseguendo lungo una linea di sviluppo già affermatasi negli ultimi anni, la Corte, a fronte di un vizio di illegittimità costituzionale, non si astiene dal decidere nel merito per mancanza di “soluzioni costituzionalmente obbligate”, ovvero di risposte a “rime obbligate”, per riprendere una fortunata espressione di Vezio Crisafulli. Mentre in passato la Corte, trovandosi davanti a una pluralità di alternative possibili per rimediare al vizio di incostituzionalità tendeva ad arrestarsi sulla soglia della inammissibilità, ora sempre più frequentemente, pur in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, la Corte decide nel merito, poggiando su previsioni normative già presenti nell’ordinamento e specificamente già rinvenibili nello specifico settore oggetto del giudizio. Una tale evoluzione giurisprudenziale investe spesso anche la materia penale, a lungo oggetto di particolare ritrosia da parte della Corte costituzionale in nome del principio di legalità sancito dall’art. 25 della Costituzione. Tuttavia, è sembrato sempre più inaccettabile che proprio laddove vengono in rilevo i diritti fondamentali della persona di fronte alla potestà punitiva dello Stato, la Corte dovesse arrestare il proprio sindacato per mancanza di univoche soluzioni: una nuova sensibilità in questo ambito ha imposto alla Corte di rinvenire nell’ordinamento soluzioni adeguate a rimuovere la norma lesiva della Costituzione, allo stesso tempo preservando la discrezionalità del legislatore. In tali casi, come si vedrà più diffusamente nel prosieguo, la Corte – che non è mai legislatore positivo e non può quindi creare essa stessa la disposizione mancante – individua nella legislazione vigente una risposta costituzionalmente adeguata, anche se non obbligata, applicabile in via transitoria fintanto che il legislatore non reputi opportuno mettere mano alla riforma legislativa che resta pur sempre nella sua discrezionalità attivare, nell’an, nel quando e nel quomodo. 3.2.2 Due esempi noti Può essere utile illustrare con due esempi particolarmente significativi questa costante duplice attenzione della Corte al rispetto dell’autonomia della politica e dall’altra alla salvaguardia dei principi costituzionali. Costituzione, procedure parlamentari e legge di bilancio In apertura d’anno, l’ordinanza n. 17 ha per la prima volta riconosciuto la legittimazione del singolo parlamentare a fare valere i vizi del procedimento legislativo, attivando un giudizio per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, quando tali vizi trasmodino in violazioni gravi e manifeste delle attribuzioni che, secondo la Costituzione, appartengono allo status di ciascun componente delle 9 Camere: vale a dire quel «complesso di attribuzioni inerenti al diritto di parola, di proposta e di voto, che gli spettano come singolo rappresentante della Nazione, individualmente considerato, da esercitare in modo autonomo e indipendente, non rimuovibili né modificabili a iniziativa di altro organo parlamentare». Si è trattato di un caso notevole, anche perché ha riguardato un ganglio vitale del circuito dell’indirizzo politico: la legge di bilancio. La Corte ha ribadito, con affermazioni di principio innovative sul piano processuale, il proprio ruolo di garante dei principi costituzionali che governano i procedimenti legislativi, ma al contempo si è mostrata rispettosa dell’autonomia del Parlamento e attenta a non interferire con le regole puramente interne delle Camere. Si è perciò attenuta a un tipo di scrutinio parametrato sulla «manifesta violazione» dei principi costituzionali, già sperimentato in altri ambiti che richiedono un particolare riguardo per le valutazioni politiche, come ad esempio quello relativo al controllo sui presupposti della decretazione di urgenza (anch’essi assoggettati al giudizio della Corte, ma solo quando siano «manifestamente mancanti», sentenza n. 33, 97 e 288). Infatti, la Corte ha ritenuto che il singolo parlamentare può ritenersi legittimato a sollevare conflitto di attribuzione solo quando siano prospettate «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari […] rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione» e, di conseguenza, ha ritenuto necessario che il parlamentare «alleghi e comprovi una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al ricorrente, a tutela della quale è apprestato il rimedio giurisdizionale innanzi a questa Corte ». Ciò per il necessario bilanciamento di tutti i principi costituzionali coinvolti, comprese le esigenze dell’efficienza e tempestività delle decisioni parlamentari, specie in materia economica e finanziaria, riflesse nelle prassi delle Camere. Tuttavia la cornice processuale per un’attenta vigilanza sul rispetto dei principi costituzionali relativi al procedimento legislativo è stata tracciata e successivamente attivata in ulteriori giudizi (nel 2019, ordinanze n. 274 e n. 275 riguardanti i procedimenti di conversione in legge di decreti-legge e ordinanza n. 60, ma nel 2020, riguardante la legge di bilancio). La Corte ha inteso ribadire il proprio compito di garante dei principi costituzionali senza sottovalutare la delicatezza dei nodi in discussione, il loro intreccio con la responsabilità politica delle istituzioni di governo e, segnatamente, con l’autonomia parlamentare, in vista di uno sviluppo fisiologico dei rapporti con le istituzioni politiche, consapevole che il contenimento di ogni prassi anomala non può essere conseguito, se non con la collaborazione di tutti i poteri coinvolti. Ciò vale in particolare in riferimento all’approvazione della legge di bilancio annuale, in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche: decisioni che costituiscono il nucleo storico delle funzioni affidate alla rappresentanza politica sin dall’istituzione dei primi parlamenti e che occorre massimamente preservare. Negli anni più recenti, la giurisprudenza 10 costituzionale ha ripetutamente sottolineato che il bilancio è un «bene pubblico» nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte, in ordine sia all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche. Ciò vale a maggior ragione dopo l’attuazione della riforma costituzionale del 2012, che ne ha accentuato la centralità, sicché il «bilancio – nella nuova veste sostanziale – è destinato a rappresentare il principale strumento di decisione sulla allocazione delle risorse, nonché il principale riferimento della verifica dei risultati delle politiche pubbliche» (sentenza n. 61 del 2018). Negli anni successivi alla riforma costituzionale ha preso corpo un cospicuo filone di giurisprudenza sul principio dell’equilibrio di bilancio. La Corte ha soprattutto cercato di collocare questo principio in un contesto sistematico più ampio. In particolare, la sentenza n. 18 ha chiarito che non si tratta di conseguire un formale pareggio contabile, ma di cercare continuamente «una stabilità economica di media e lunga durata, nell’ambito della quale la responsabilità politica del mandato elettorale si esercita, non solo attraverso il rendiconto del realizzato, ma anche in relazione al consumo delle risorse impiegate» attraverso la veridicità dei conti, nonché la chiarezza e univocità delle risultanze contabili. Ciò anche per garantire che ciascuna amministrazione, al termine del mandato, presenti in modo trasparente e responsabile il risultato della propria gestione agli elettori, senza scaricare surrettiziamente gli oneri sulle amministrazioni e sulle generazioni future. La Corte è consapevole che, quando si parla del tema del bilancio, per un verso altamente politico e per altro apparentemente freddo e tecnico, si parla in realtà, mediatamente, di diritti e doveri dei cittadini (sentenza n. 288). L’importanza del bilancio sta proprio in questo: è il cuore della discrezionalità e responsabilità politica nell’allocazione delle risorse, che incombe principalmente sulle istituzioni di governo nell’ambito della dialettica democratica parlamentare tracciata dai principi costituzionali, che uniscono istituzioni e cittadini. Una decisione in due tempi. Il caso Cappato È in tutt’altro ambito, ma nella medesima prospettiva della ricerca di un punto di equilibrio tra gli spazi della politica e quelli della giustizia costituzionale e del pieno sviluppo del principio di leale cooperazione istituzionale, che deve essere letta un’altra decisione del 2019 che ha avuto grande risonanza: quella relativa alla vicenda del caso Cappato, in materia di fine vita, dove pure la Corte ha sperimentato una nuova via processuale al medesimo scopo di contemperare il rispetto della discrezionalità del legislatore e la necessaria garanzia dei principi costituzionali. Infatti, con l’ordinanza n. 207 nel 2018, era stato sollecitato l’intervento del legislatore, segnalando alcune criticità costituzionali dell’art. 580 del codice penale (Istigazione e aiuto al suicidio). La Corte ha atteso per un anno che il necessario seguito arrivasse per via legislativa; poi, si è risolta ad adottare la sentenza n. 242, i cui contenuti sono ben noti, che ha portato ad escludere dall’area del penalmente rilevante la specifica ipotesi di chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, 11 autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». In tale situazione, ha osservato la Corte, il paziente avrebbe già la possibilità, ai sensi della legge n. 219 del 2017, di rifiutare la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale e così di «accogliere la morte»; sicché irragionevole è apparsa la soluzione di precludergli ogni possibilità di congedarsi dalla vita in maniera diversa, con l’aiuto di terzi. L’innovativa tecnica processuale sperimentata dalla Corte in questa occasione era esplicitamente ispirata ad alcune esperienze tratte dal diritto comparato e in particolare da analoghe decisioni della Corte suprema canadese e dalla Corte suprema del Regno Unito, richiamate anche nell’ordinanza n. 207. La nuova tecnica processuale scaturiva dalla necessità di contemperare una duplice esigenza: da un lato, rimuovere un vizio di incostituzionalità dalla disposizione dell’art. 580 cod. pen. e, dall’altro, e questo è il punto che mi preme sottolineare, lasciare in prima battuta al legislatore lo spazio per intervenire in una materia altamente sensibile, oggetto di profondi dibattiti nell’opinione pubblica, che esige che le dinamiche politiche e culturali trovino modo di ricomporsi anzitutto nelle sedi politiche. 3.2.3 Tecniche processuali collaborative: uno sguardo alle altre Corti europee Può essere utile osservare che un simile modello processuale – da taluni criticato per eccessiva creatività processuale – non è affatto un caso singolare. Dal diritto comparato emerge una prassi molto diffusa volta a sviluppare tecniche processuali e decisorie idonee a favorire costruttive sinergie tra le Corti costituzionali e legislatori nel comune compito di assicurare il pieno rispetto e il pieno sviluppo dei principi costituzionali. Come emerge dagli atti del XV Congresso della Conferenza delle Corti costituzionali europee, svoltosi a Bucarest dal 23 al 25 maggio 2011, su Constitutional Justice: Functions and Relationship with the Other Public Authorities (https://www.confeuconstco.org/en/common/home.html), non di rado le Corti costituzionali dichiarano l’incompatibilità di una data disposizione legislativa con la Costituzione, ma sospendono gli effetti della propria decisione – consentendo persino l’applicazione della disposizione incostituzionale per un dato periodo di tempo – allo scopo di accordare al legislatore il tempo necessario di rimuovere il vizio, senza creare un vuoto legislativo o altri inconvenienti e criticità costituzionali nel sistema legislativo. Analoghe tecniche sono utilizzate quando l’incostituzionalità deriva da una omissione del legislatore che la Corte costituzionale non ha gli strumenti per colmare. Così, per limitare lo sguardo ad alcune delle più autorevoli Corti costituzionali europee, in Austria la Corte costituzionale ha il potere di modulare gli effetti nel tempo di una dichiarazione di illegittimità costituzionale e persino assegnare al Parlamento un termine, non superiore a 18 mesi, entro il quale la norma incostituzionale continua ad essere applicata, fintanto che il legislatore non abbia nuovamente 12 disciplinato la materia in conformità alla Costituzione. Di norma il legislatore rispetta il termine assegnato; altrimenti la legge cessa di essere applicata allo spirare della data prestabilita (dr. J. Schnitzer, Austrian Constitutional Court, National Report for the XV the Congress of the CECC, p. 6, p. 11). Analogamente in Germania, dove il Bundesverfassungsgericht (BVG), a fronte di una disposizione contrastante con la Costituzione può, anziché dichiararne la nullità, limitarsi ad accertarne la “mera incompatibilità” con la Costituzione – Unvereinbarkeit – ad esempio nel caso in cui l’annullamento della legge produrrebbe una situazione ancora più in contrasto con la Costituzione, oppure nei casi in cui per rimediare al vizio di incostituzionalità non è sufficiente rimuovere la disposizione impugnata, ma occorre un intervento positivo del legislatore e si prospetta una pluralità di soluzioni per rimediare all’illegittimità costituzionale. Di norma, il BVG stabilisce un termine per l’intervento legislativo, di uno o due anni, e durante questo periodo la disposizione dichiarata incompatibile con la Costituzione continua a trovare applicazione. Occasionalmente, il BVG stabilisce una disciplina transitoria in attesa dell’intervento del legislatore. È da notare che questa tipologia di decisioni è stata dapprima introdotta per via giurisprudenziale da parte dello stesso BVG, e solo successivamente il legislatore ha conferito una base legale a tale potere (Prof. dr, G. Lübbe-Wolff, Porf. Dr. R. Mellinghoff; Prof. Dr. R. Gaier, Federal Constitutional Court of Germany, National Report for the XV th Congress of the CECC, pp. 144 ss.; per un intressante paragone con la Corte italiana A. von Bogdandy, D. Paris, La forza si manifesta pienamente nella debolezza. Una comparazione tra la Corte costituzionale e il Bundesverfassungsgericht, in “Quaderni costituzionali”, 1/2020, pp. 9-30). Sul modello tedesco e austriaco, anche altre corti costituzionali dispongono di poteri analoghi per favorire la collaborazione con il Parlamento: così ad esempio il Tribunale costituzionale spagnolo ha previsto le «dichiarazioni di incostituzionalità senza nullità» (Rapport national du Tribunal Constitutionnel espagnol pour le XVeme Congrès de la CCCE, pp. 8 ss.); la Corte costituzionale belga prevede varie forme di «modulazione dell’annullamento», ratione loci, ratione termporis o ratione materiae e altre forme che consentono l’intervento del legislatore specie quando l’incostituzionalità deriva da una lacuna nella legge (M. Bossuyt, R. Leysen, Rapport national de la Cour Constitutionnelle de Belgique pour le XVeme Congrès de la CCCE, pp. 11-12 ss.); ancora più radicalmente, il Conseil constitutionnel, che solo recentemente ha introdotto una forma di controllo a posteriori di legittimità costituzionale delle leggi, è stato dotato del potere di determinare le condizioni e i limiti entro i quali la disposizione dichiarata incostituzionale ha prodotto effetti che possano essere messi in questione (Rapport national du Conseil Constitutionnel français pour le XVeme Congrès de la CCCE, pp. 4 ss.). Da uno sguardo alla prassi delle altre Corti costituzionali europee – ma altre conferme ancor più nette provengono da alcune esperienze sudamericane – emerge che il governo degli effetti delle proprie decisioni da parte delle Corti costituzionali, soprattutto ratione temporis, e la cooperazione con il legislatore costituiscono due facce della stessa medaglia. Le Corti costituzionali possono evitare di caducare la disposizione impugnata creando il vuoto legislativo, con tutti gli inconvenienti che esso può determinare in alcune situazioni, quando sanno di poter contare sulla cooperazione del legislatore. Nei casi in cui il mero effetto di annullamento della 13 legge impugnata – che pure si collega di norma a una pronuncia di illegittimità costituzionale – si svela inadeguato, vuoi perché il rimedio al vizio di illegittimità costituzionale non può ravvisarsi nella mera rimozione della legge (o di una porzione di essa), vuoi perché il vizio di incostituzionalità dipende proprio da una omissione del legislatore, allora una proficua dinamica istituzionale dovrebbe consentire ad un tempo che la Corte possa governare – limitandoli, posponendoli, sospendendoli o circoscrivendoli – gli effetti delle proprie decisioni sapendo, allo stesso tempo, che presto interverrà il legislatore a rimediare al vizio ravvisato con i più flessibili strumenti che esso ha a disposizione. Non a caso la stessa Corte costituzionale italiana si è interrogata su simili strumenti processuali sin dal 1988, in occasione del seminario di studi sugli Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Milano Giuffré, 1989, ha continuato a seguire la suddetta problematica attraverso le pubblicazioni del Servizio studi e a sperimentarne sin da allora varie tipologie nel corso della sua giurisprudenza. Pertanto nello spirito di una piena collaborazione istituzionale e del tutto in conformità con la prassi delle principali Corti costituzionali europee, nel 2019 la Corte ha confermato (sentenza n. 246) che, sia pur eccezionalmente, può imporsi una limitazione agli effetti retroattivi delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale, quando si presenti l’esigenza di bilanciamento tra i valori e principi costituzionali affermati nella sentenza ed altri, di pari rilievo, i quali altrimenti rischierebbero di venire a trovarsi in grave sofferenza. Si tratta della conferma esplicita di un principio già affermato con la sentenza n. 10 del 2015 e che ha trovato così una ulteriore applicazione, nel solco di precedenti decisioni della Corte in cui il medesimo principio è stato applicato, anche quando non esplicitamente enunciato. Si tratta di un principio ricavato in via interpretativa dalla Corte, non espressamente previsto nella disciplina legislativa del processo costituzionale, ricalcando uno sviluppo simile a quello verificatosi in Germania, dove le pronunce di «mera incompatibilità» si sono affermate dapprima in via giurisprudenziale e solo successivamente sono state codificate dal legislatore. 3.2.4 Gli inviti rivolti al legislatore. Il terreno su cui si fa urgente la cooperazione da parte del legislatore è quello delle cosiddette “sentenze monito”. Accade frequentemente che nelle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale – siano esse di accoglimento, di rigetto o di inammissibilità – si incontrino espressioni che sollecitano il legislatore a intervenire su una determinata disciplina, allorché la Corte individui aspetti problematici che sfuggono alle sue possibilità di intervento e che richiedono invece un’azione da parte del legislatore. Di norma tali affermazioni sono denominate come “moniti” al legislatore, ma si tratta più propriamente di “inviti” rivolti al Governo e alle Camere in spirito cooperativo per porre rimedio a situazioni normative problematiche, obsolete, o comunque suscettibili di evolvere in un vero e proprio attrito con i principi costituzionali. 14 Le soluzioni normative provvisoriamente indicate dalla Corte Come si è detto poco sopra, la giurisprudenza recente rivela un progressivo superamento della “teoria delle rime obbligate” e, anche a fronte di vizi di costituzionalità rimediabili con una pluralità di opzioni, la Corte individua nel tessuto normativo vigente una disposizione idonea a sanare la violazione costituzionale ravvisata. In tali casi, la soluzione suggerita dalla Corte vale solo a colmare transitoriamente il vuoto legislativo che altrimenti si produrrebbe. Ma la Corte si premura sempre di sottolineare che resta comunque opportuno e auspicabile che il legislatore intervenga con una propria disciplina elaborata all’uopo. Ne sono esempi la sentenza n. 20 in materia di trasparenza dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti pubblici e la sentenza n. 40 in materia di sanzioni per reati collegati al traffico di stupefacenti, di cui si dirà tra breve. L’assenza di rimedi disponibili. Permangono casi, tuttavia, in cui la mera caducazione della disposizione impugnata non è praticabile, ma allo stesso tempo l’ordinamento non presenta una risposta normativa precostituita che permetta alla Corte di offrire una soluzione transitoria in attesa dell’intervento del legislatore. In tali situazioni, la Corte non può che limitarsi a segnalare la necessità dell’intervento legislativo, come è avvenuto ad esempio in materia di contributi all’editoria e la cooperazione del legislatore si fa ancora più essenziale. Si legge infatti nella sentenza n. 206: «Rileva tuttavia questa Corte […] che non è percorribile la strada della semplice cancellazione delle norme censurate: ciò si tradurrebbe in un danno per la stessa parte del giudizio a quo, che si vedrebbe del tutto negato il contributo, sia pure ridotto. Inoltre, l’adozione di una disciplina che risponda ai canoni ricordati, quanto all’esigenza di armonizzazione del sistema, non impone una soluzione costituzionalmente obbligata, e quindi non può essere oggetto di intervento di questa Corte, restando affidata alla scelta del legislatore. In particolare non può ritenersi che costituisca una soluzione implicita nell’ordinamento l’indicazione quantitativa, prevista, per l’anno 2010, dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 63 del 2012. Si tratta, infatti, di un limite massimo e non certo minimo, come pretende il rimettente per superare il problema del vuoto legislativo conseguente all’eventuale accoglimento della questione. In definitiva, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione agli artt. 3 (principio di ragionevolezza), 21 e 97 Cost. devono essere dichiarate inammissibili». Segnalazioni di carattere generale A volte la Corte segnala al legislatore la necessità di riforme di settore, con indicazioni di carattere generale. Si possono indicare alcuni esempi, tratti dalla giurisprudenza del 2019, rinviando per una disamina completa dell’anno al quaderno predisposto dal Servizio Studi. Con la sentenza n. 30 la Corte ha richiamato l’attenzione del legislatore sull’obsolescenza del regime previdenziale dei lavoratori agricoli: 15 «pur essendo giustificata, anche sul piano delle valutazioni di politica economica generale, la previsione di un regime previdenziale contro la disoccupazione differenziato per il settore agricolo […] alla luce delle trasformazioni nel frattempo intervenute nell’organizzazione delle imprese agricole, il legislatore dovrà valutare se dettare una nuova disciplina dei trattamenti di disoccupazione dei lavoratori agricoli». Con la sentenza n. 51 la Corte ha invitato il legislatore a intervenire sull’endemico problema dell’evasione fiscale, specie per i crediti di piccole dimensioni: «Resta fermo che una riscossione ordinata e tempestivamente controllabile delle entrate è elemento indefettibile di una corretta elaborazione e gestione del bilancio, inteso come «bene pubblico» funzionale «alla valorizzazione della democrazia rappresentativa» (sentenza n. 184 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 247 e n. 80 del 2017), mentre meccanismi comportanti una «lunghissima dilazione temporale» (sentenza n. 18 del 2019) sono difficilmente compatibili con la sua fisiologica dinamica. In tale prospettiva deve essere sottolineata l’esigenza che per i crediti di minore dimensione il legislatore predisponga sistemi di riscossione più efficaci, proporzionati e tempestivi di quelli fin qui adottati». Con la sentenza n. 159 la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio spettanti ai dipendenti pubblici. Tuttavia, la Corte si è soffermata sulla ratio delle indennità di fine rapporto, che si legano «a una particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana» e assolvono a una funzione previdenziale che «rischia di essere vanificata da una liquidazione in tempi irragionevolmente protratti». Proprio per questo la Corte si è premurata di segnalare un’esigenza di carattere generale, non solo riferita ai lavoratori del settore pubblico: «questa Corte non può esimersi dal segnalare al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare. La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate «attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana». 16 Le doppie pronunce Spesso i “moniti” danno luogo al fenomeno delle cd. “doppie pronunce”: in un primo momento la Corte indica al Parlamento i punti problematici che richiederebbero una modifica legislativa nell’ambito di una sentenza di inammissibilità o di rigetto. Se il problema non trova risposta da parte del legislatore e continua ad essere portato all’esame della Corte, questa rompe gli indugi e pone essa stessa rimedio, utilizzando gli strumenti normativi a propria disposizione. Un esempio chiaro in questa direzione è costituito dalla sentenza n. 40, avente ad oggetto le misure sanzionatorie dei reati in materia di traffico di stupefacenti, ultima di una lunga serie in cui la Corte aveva sollecitato il legislatore a intervenire. La Corte ha dichiarato illegittimo, per violazione dei principi di uguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza e rieducazione della pena (artt. 3 e 27 Cost.), l’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevedeva, con riferimento ai fatti non lievi costitutivi dei reati connessi al traffico di droghe “pesanti”, la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anziché di sei anni. Tale decisione è stata preceduta da una serie di pronunce di inammissibilità della Corte costituzionale e da ultimo dalla sentenza n. 179 del 2017 che aveva già evidenziato che la divaricazione di ben quattro anni creatasi tra il minimo edittale di pena previsto per i fatti non lievi e il massimo edittale della pena comminata per i fatti lievi aveva raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria. Con la sentenza n. 40 del 2019, la Corte ha ritenuto non ulteriormente differibile il proprio intervento, essendo rimasto inascoltato il pressante invito al legislatore affinché procedesse rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi, così evidentemente sproporzionata e tale da dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte. La misura di sei anni della pena individuata dal rimettente, benché non costituzionalmente obbligata, non è stata reputata arbitraria poiché ricavata da previsioni già rinvenibili nello specifico settore dei reati in materia di stupefacenti. Detta misura sanzionatoria resta comunque soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore nel rispetto del principio di proporzionalità. Gli esempi virtuosi In questa linea giurisprudenziale, incline a risolvere nel merito le questioni di legittimità costituzionale ogniqualvolta l’ordinamento offra risposte implicite applicabili in via transitoria, deve essere letta anche la sentenza n. 20 con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che prescrivevano una generalizzata pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi e dei dati patrimoniali di un ampio spettro di dirigenti pubblici e dei loro congiunti, ulteriori rispetto alle retribuzioni e compensi connessi alla prestazione dirigenziale. Si tratta di un esempio virtuoso, in cui la collaborazione con il Parlamento ha tempestivamente funzionato. 17 Con la decisione richiamata, la Corte ha ravvisato un vizio sul piano della proporzionalità della misura, riconoscendo peraltro che la scelta della soluzione più idonea a operare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze della trasparenza e quelle della riservatezza appartiene alla discrezionalità del legislatore. Tuttavia, poiché la mera caducazione delle disposizioni impugnate avrebbe del tutto sacrificato uno dei principi costituzionali in gioco – in particolare quello della trasparenza – la Corte ha individuato in una disposizione vigente (l’art. 19, commi 3 e 4 del d.lgs n. 33 del 2013) una soluzione transitoria applicabile in attesa di un nuovo intervento del legislatore sul punto. Il legislatore ha raccolto l’invito della Corte costituzionale con l’art. 1, commi da 7 a 7-quater del decreto-legge 30 dicembre 2019 n. 162 (cd. “Milleproroghe”), convertito in legge n. 8 del 2020, in attesa di attuazione con apposito regolamento governativo entro il 31 dicembre 2020. Gli inviti in attesa di risposta Frequentemente tuttavia, gli inviti della Corte costituzionale rimangono a lungo in attesa di risposta. Tra i molti occorre segnalare quello contenuto nella sentenza n. 270 che riprende una indicazione già formulata dalla Corte costituzionale nel lontano 1987, in materia di conversione delle pene pecuniarie: «Già nella sentenza n. 108 del 1987, questa Corte aveva invocato un intervento del legislatore sulla disciplina processuale della conversione, ritenuta inficiata da “difetti che la rendono non pienamente adeguata ai principi costituzionali in materia, e che possono indirettamente frenare un più ampio ricorso alla pena pecuniaria, da molti auspicato”. Un simile monito deve essere ora ribadito. Il procedimento di esecuzione della pena pecuniaria, del quale i provvedimenti di conversione costituiscono uno dei possibili esiti, è oggi ancor più farraginoso di quanto non lo fosse nel 1987, prevedendo l’intervento, in successione, dell’ufficio del giudice dell’esecuzione, dell’agente della riscossione, del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza. A tutti questi soggetti sono demandati plurimi adempimenti più o meno complessi, che tuttavia non riescono, allo stato, ad assicurare né adeguati tassi di riscossione delle pene pecuniarie, né l’effettività della conversione delle pene pecuniarie non pagate. Tale situazione, oggetto di diagnosi risalenti in dottrina, fa sì che la pena pecuniaria non riesca a costituire in Italia un’alternativa credibile rispetto alle pene privative della libertà, come accade invece in molti altri ordinamenti». 3.2.5 Canali di comunicazione formale e informale tra Corte costituzionale e legislatore Per facilitare la necessaria collaborazione tra Corte e legislatore, talora esplicitata con i cosiddetti “moniti”, sarebbe necessario sfruttare appieno i canali di comunicazione formali previsti dall’ordinamento ed eventualmente rinnovarli anche alla luce delle esperienze straniere. Attualmente, uno sguardo alla normativa in vigore rivela che una comunicazione diretta da parte della Corte costituzionale alle Camere – o ai Consigli regionali, laddove si tratti di legge regionale – è richiesta soltanto per le sentenze di 18 accoglimento, cioè quelle che dichiarano l’illegittimità costituzionale totale o parziale di una legge. Infatti ai sensi dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953: «La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione […] entro due giorni dalla data del deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario adottino i provvedimenti di loro competenza». D’altra parte, le uniche pronunce della Corte costituzionale trasmesse direttamente al Presidente della Repubblica sono quelle relative all’ammissibilità del referendum abrogativo. Queste forme di comunicazione diretta si aggiungono naturalmente alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale – e sul Bollettino Ufficiale delle Regioni – che riguarda tutte le pronunce della Corte costituzionale ai sensi dell’art. 31 delle Norme integrative. Dal punto di vista interno delle Camere, entrambi i regolamenti parlamentari contengono disposizioni dedicate al «seguito delle sentenze della Corte costituzionale», prefigurando speciali procedimenti volti a monitorare le decisioni della Corte, con speciale riguardo a quelle di accoglimento, che potrebbero necessitare di iniziative legislative. Si tratta dell’art. 139 del Regolamento del Senato ai sensi del quale il Presidente del Senato trasmette alle Commissioni competenti le sentenze di illegittimità costituzionale e tutte le altre che egli giudichi opportuno sottoporre al loro esame. Quando le Commissioni ravvisino la necessità di una iniziativa legislativa approvano una risoluzione rivolta al Governo. Similmente, alla Camera dei deputati, l’art. 108 del Regolamento prevede che le sentenze della Corte costituzionale siano trasmesse alle Commissioni competenti per materia e alla commissione affari costituzionali in vista delle necessarie iniziative legislative. Tali strumenti meriterebbero di essere più assiduamente utilizzati allo scopo di eliminare tempestivamente gli elementi problematici individuati dalla Corte in determinate aree normative, che spesso riguardano ambiti al riparo dall’attualità politica e nondimeno comportano difficoltà nella vita degli operatori del diritto e dei cittadini. Inoltre, dalla prassi comparata si potrebbe trarre ispirazione anche per sviluppare ulteriori forme di collaborazione istituzionale già sperimentate proficuamente da altre Corti. Particolarmente significativa è la tradizionale consuetudine invalsa in Germania di svolgere incontri informali a cadenza annuale tra la Corte costituzionale federale e il Governo federale, così come tra la Corte costituzionale e i vertici delle Camere federali, per uno scambio generale di informazioni. Naturalmente non fanno oggetto di discussione i temi oggetto di procedimenti in corso o quelli che si prevede 19 possano essere portati all’esame della Corte. Piuttosto, le informazioni riguardano le attività passate e già concluse davanti alla Corte che possono necessitare di seguiti legislativi o altre problematiche di carattere generale. Di questi incontri è data notizia sul sito della Corte costituzionale federale tedesca con appositi comunicati stampa. In altre esperienze, un proficuo raccordo tra Corti costituzionali e Camere avviene a livello di funzionari, dove taluni funzionari parlamentari sono incaricati di mantenere rapporti di scambio di informazione stretto con omologhi funzionari della Corte costituzionale. 4 La collaborazione inter-giurisdizionale nella protezione dei diritti fondamentali Il 2019 è stato un anno di consolidamento della giurisprudenza in materia di rapporti tra giudici nazionali, Corte costituzionale e Corti europee, in vista di una più stringente cooperazione tra varie istanze giurisdizionali in materia di tutela dei diritti fondamentali. A fine 2017, in un obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269, la Corte aveva annunciato l’intendimento di rivisitare il tradizionale orientamento giurisprudenziale che la induceva a pronunciarsi per l’inammissibilità ogniqualvolta una questione di legittimità costituzionale coinvolgesse profili di contrasto con il diritto dell’Unione europea direttamente applicabile. Tale dottrina, risalente al 1984, quando gli ambiti interessati dal diritto nell’Unione europea erano assai più circoscritti di quelli attuali, finiva per emarginare sempre più la Corte costituzionale dal processo di integrazione giuridica europea. Emarginazione tanto meno giustificabile quanto più il diritto dell’Unione si va sviluppando in dimensione costituzionale, a partire dal riconoscimento del valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali. Il dibattito suscitato intorno a quell’obiter ha consentito alla Corte di consolidare il nuovo orientamento giurisprudenziale, precisandone il significato e la portata con tre decisioni del 2019 ed esplicitandone più chiaramente lo spirito cooperativo e inclusivo ad esso sotteso. È bene rimarcare che già nel 2017 la Corte era mossa da uno spirito di cooperazione giurisdizionale e dall’intento di sviluppare la massima tutela dei diritti della persona, tanto che già allora insisteva sulla necessità di una «costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia […], affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico». Con la già citata sentenza n. 20 la Corte, richiamandosi al precedente del 2017, ha ribadito che nei casi in cui principi e diritti fondamentali enunciati dalla Carta dei diritti dell’Unione europea intersecano principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione «va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 20 Cost.)». Nel caso di specie oltre ai principi stabiliti dalla Carta dei diritti venivano peraltro in rilievo anche specifiche disposizioni di una direttiva, ma ciò non ha indotto la Corte ha mutare l’orientamento enunciato, data la singolare connessione dei principi enunciati dalla direttiva con le pertinenti disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Corte, inoltre, ha colto l’occasione per ribadire che il nuovo orientamento giurisprudenziale è volto a favorire un «concorso di rimedi giurisdizionali» che «arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione». Nella stessa linea la sentenza n. 63 che, nel respingere una eccezione di inammissibilità, ribadisce i medesimi principi, sottolineando che laddove il giudice comune sollevi «una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri». Il richiamo alla possibilità che la Corte stessa, oltre che i giudici comuni, si rivolgano alla Corte di giustizia dell’Unione europea tramite rinvio pregiudiziale, laddove necessario, vale a rimarcare ancor più incisivamente l’intendimento collaborativo della nuova giurisprudenza costituzionale, sviluppato anche in ossequio al principio di leale cooperazione che, tra l’altro, nell’ordinamento dell’Unione è esplicitamente codificato nel trattato sull’Unione europea (ad es. all’art. 4. par. 3). Significativo è dunque il fatto che i nuovi principi giurisprudenziali siano stati ribaditi ancora una volta dalla Corte nella ordinanza n. 117, proprio in occasione di un nuovo rinvio pregiudiziale rivolto alla Corte di giustizia in materia di procedimenti CONSOB. Il giudizio riguarda il tema delicato della invocabilità del cosiddetto diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’irrogazione di una sanzione amministrativa di natura “punitiva”, come quelli condotti dalla CONSOB nell’ambito della propria attività di vigilanza sulle condotte degli operatori dei mercati finanziari. La Corte ha ritenuto necessario formulare due questioni pregiudiziali di interpretazione e di validità alla Corte di giustizia UE sulle norme del diritto dell’Unione che impongono agli Stati membri di sanzionare la mancata cooperazione con l’autorità nazionale di vigilanza, allo scopo di chiarire se detto obbligo comprenda anche l’ipotesi in cui l’interessato si rifiuti di rispondere a domande dalle quali possa emergere la propria responsabilità. La Corte ha inteso così sollecitare un chiarimento anzitutto a livello europeo in una materia caratterizzata da un’intensa armonizzazione normativa, che suggerisce l’opportunità di risposte coerenti a livello sovranazionale anche in punto di compatibilità della relativa disciplina con i diritti fondamentali. In questo contesto, la Corte ha ribadito che è essa stessa «organo giurisdizionale» nazionale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e «potrà dunque valutare se la disposizione censurata violi le garanzie riconosciute, al tempo stesso, dalla Costituzione e dalla Carta, attivando rinvio 21 pregiudiziale alla Corte di giustizia ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta; e potrà, all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti erga omnes. Ciò fermo restando «che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria», anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. Non meno intensa la cooperazione con la Corte europea dei diritti dell’uomo, pur entro una cornice istituzionale diversa. La mancanza fino ad oggi di meccanismi procedurali che favoriscano la cooperazione diretta, non ha impedito alla Corte costituzionale italiana di sviluppare i propri orientamenti anche alla luce dei principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, una volta «consolidati» nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, senza rinunciare mai a offrire il proprio contributo attivo all’evolvere di tale giurisprudenza. Particolarmente significative, nel corso dell’anno 2019 sono le sentenze. n. 24, n. 25 e n. 26 sulle misure di prevenzioni personali e patrimoniali in cui un ruolo importante è svolto proprio da alcune decisioni della Corte EDU di cui si dirà poco più avanti. 5 Diritto penale e dell’esecuzione penale Un’attenzione particolare è stata riservata dalla Corte nel 2019 alla giustizia penale, proseguendo il cammino tracciato negli ultimi anni, e già puntualmente messo in luce l’anno scorso dalla relazione del Presidente Lattanzi. Le novità non attengono tanto al terreno del processo penale, in cui da sempre – del resto – la Corte ha esercitato un attento scrutinio; quanto ai terreni del diritto penitenziario e dello stesso diritto penale sostanziale, nel quale la giurisprudenza costituzionale si era mossa in passato con grande deferenza nei confronti della discrezionalità legislativa. La giurisprudenza più recente è invece caratterizzata da un vaglio di legittimità più puntuale anche in questi settori, specie alla luce del principio della proporzionalità della pena e nella consapevolezza che il diritto penale – e con esso il diritto penitenziario, che ne costituisce per così dire il braccio esecutivo – costituiscono i settori dell’ordinamento che maggiormente incidono sui diritti fondamentali della persona, e che pertanto più appaiono bisognosi di un penetrante controllo da parte della Corte Nella giurisprudenza costituzionale degli anni più recenti emergono alcuni principi fondamentali alla luce dei quali la Corte sta sviluppando la sua giurisprudenza. Il principio di proporzionalità della pena, implicito nel principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.), ed esplicitamente formulato nella giurisprudenza delle Corti europee e i principi di 22 individualizzazione e flessibilità del trattamento penitenziario, orientati alla finalità rieducativa della pena richiesta dall’articolo 27 della Costituzione, che hanno condotto la Corte, nel 2019, a decisioni di grande impatto. Su versanti strettamente connessi, la Corte ha avuto occasione di estendere taluni principi di garanzia propri della materia penale alle sanzioni amministrative di natura “punitiva”. Inoltre, ha mostrato una rinnovata attenzione alla tutela dei diritti fondamentali nell’ambito delle misure di prevenzione, sempre più considerate dal legislatore come uno strumento chiave nella strategia complessiva di contrasto alla criminalità. 5.1 Diritto penale sostanziale La Corte è stata anzitutto chiamata, in almeno quattro occasioni, a sindacare la legittimità della norma di condotta penalmente sanzionata e in due occasioni ha effettivamente ritenuto illegittima, in tutto o in parte, la disposizione censurata. La sentenza che ha avuto più risonanza, pronunciata nel già citato caso Cappato, è stata certamente la n. 242, relativa all’art. 580 cod. pen. (istigazione o aiuto al suicidio). Esito di accoglimento ha avuto anche la questione decisa con la sentenza n. 25, con la quale è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale di una disposizione del codice antimafia che prevedeva la pena della reclusione per la violazione, tra l’altro, degli obblighi di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» imposti contestualmente all’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale. Allineandosi alla valutazione espressa dalla Corte EDU nel 2017 con la sentenza Di Tommaso e dalle Sezioni Unite della Cassazione con una sentenza del 2018, la Corte ha superato un proprio precedente (sentenza n. 282 del 2010) e ha affermato che il precetto in esame viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata. Altrove, la Corte ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale formulate a proposito di precetti penalmente sanzionati in materia di prostituzione, in esito però a un penetrante vaglio di proporzionalità tra l’entità della limitazione dei diritti fondamentali sui quali tali precetti incidono e gli scopi di tutela perseguiti dal legislatore. In particolare, nella sentenza n. 141 (con considerazioni poi estese dalla sentenza n. 278 alla fattispecie di tolleranza abituale della prostituzione) sono state ritenute non incompatibili con la Costituzione le disposizioni penali previste dalla legge Merlin in materia di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione. In altri casi, la Corte è stata chiamata a valutare soltanto la proporzionalità della sanzione penale comminata dal legislatore per la violazione di norme di condotta, la cui legittimità costituzionale non era in discussione. Oltre alla già citata sentenza n. 40, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del minimo edittale di otto anni di reclusione per le fattispecie 23 previste dall’art. 73, primo comma, del t.u. stupefacenti, in ragione del suo contrasto con il principio di proporzionalità della pena, la Corte nella sentenza n. 284 si è pronunciata, ma con esito opposto, sulla pena minima di quindici giorni di reclusione per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale. La Corte ha qui escluso la violazione del principio di proporzionalità della pena, sottolineando la non trascurabile gravità del reato in questione, suscettibile di porsi in rapporto di possibile progressione criminosa con più gravi reati contro i pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni. 5.2 Diritto penitenziario Assai incisivo è stato il sindacato della Corte in materia di diritto dell’esecuzione penale, a garanzia sia del principio della necessaria finalizzazione rieducativa della pena – e dei suoi corollari della individualizzazione e flessibilità del trattamento, già sottolineati dalla sentenza n. 149 del 2018 – sia, più in generale, dei diritti fondamentali del condannato, che non debbono soffrire inutili limitazioni ulteriori a quelle connaturate alla pena. La sentenza n. 99, in particolare, ha posto rimedio a una grave lacuna presente nell’ordinamento penitenziario, che non consentiva di disporre un trattamento adeguato nel caso di condannati affetti da gravi malattie psichiche sopravvenute all’inizio dell’esecuzione della pena, estendendo all’uopo l’ambito applicativo della detenzione domiciliare. Tale misura è stata ritenuta in grado di «offrire sollievo ai malati più gravi, per i quali la permanenza in carcere provoca un tale livello di sofferenza da ferire il senso di umanità», potendo al tempo stesso essere «configurata in modo variabile, con un dosaggio ponderato delle limitazioni, degli obblighi e delle autorizzazioni secondo le esigenze del caso». Il che consentirà alla magistratura di sorveglianza, chiamata a esercitare con attento discernimento i propri poteri discrezionali, di perseguire «finalità terapeutiche e di protezione del condannato, senza trascurare le esigenze dei suoi familiari e assicurando, al tempo stesso, la sicurezza della collettività». Di speciale rilievo, anche per l’eco mediatico che l’ha accompagnata, è la sentenza n. 253, che ha dichiarato illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non consente ai condannati per i delitti ivi elencati la concessione di permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. La Corte ha qui sottolineato come la disciplina censurata producesse, nei fatti, un aggravamento del trattamento carcerario del condannato non collaborante, con la conseguenza di stabilire a carico di costui un «gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi […], ma rischia altresì di determinare autoincriminazione, anche per fatti non ancora giudicati». Ha inoltre ritenuto che tale disciplina, introducendo una preclusione assoluta alla concessione del beneficio dei permessi premio, impedisse ogni verifica in concreto del percorso di risocializzazione 24 compiuto in carcere dal detenuto, rischiando di arrestare sul nascere tale percorso. E ha infine giudicato incompatibile con gli artt. 3 e 27 Cost. una presunzione assoluta di persistente radicamento del detenuto nel crimine organizzato nonostante il perdurare della detenzione, ritenendo costituzionalmente necessario che tale presunzione, pur se ragionevole allorché intesa meramente iuris tantum, possa essere superata attraverso la dimostrazione caso per caso dell’avvenuto distacco del condannato dal contesto associativo di riferimento, e della insussistenza di un pericolo di ripristino di tale collegamento durante la fruizione del beneficio. La parallela sentenza n. 263 ha dichiarato l’illegittimità dell’analogo meccanismo preclusivo previsto nei confronti dei condannati minorenni, per le medesime ragioni indicate nella sentenza n. 253, oltre che per la particolare protezione che da sempre la Corte assicura ai detenuti minorenni. Altre sentenze, pronunciate all’inizio dell’anno in corso, hanno ulteriormente confermato la particolare attenzione riservata dalla Corte alla materia del diritto penitenziario. La sentenza n. 18 del 2020 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 31 Cost., della mancata previsione della possibilità di concedere la detenzione domiciliare speciale alla condannata madre di un figlio affetto da grave disabilità di età superiore ai dieci anni; e la sentenza n. 32 del 2020 ha giudicato per la prima volta incompatibile con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale il diritto vivente secondo il quale le modifiche in peius delle norme sull’esecuzione della pena – come quelle stabilite dalla legge n. 3 del 2019 in materia di contrasto alla corruzione – possono essere applicate a chi sia stato condannato per un reato commesso prima dell’entrata in vigore della modifica normativa. 5.3 Diritto sanzionatorio amministrativo Nel corso del 2019, la Corte ha esteso ad alcuni illeciti amministrativi, di tale gravità da rivestire natura “punitiva”, talune garanzie che assistono la materia penale, lungo direttici parallele a quelle seguite dalle giurisprudenze di entrambe le Corti europee quali: l’applicazione retroattiva delle modifiche sanzionatorie più favorevoli (sentenza n. 63, in materia di sanzioni amministrative previste per gli illeciti di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato); il principio di proporzionalità della pena (sentenza n. 88, in materia di revoca della patente di guida e sentenza n. 112, in materia di confisca del prodotto) e il principio nemo tenetur se detegere (ordinanza n. 117 in materia di procedimenti amministrativi condotti dalla Consob). 5.4 Misure di prevenzione personali e patrimoniali Dopo molti anni di pressoché totale assenza, le misure di prevenzione sono tornate all’attenzione della Corte nelle sentenze n. 24 e n. 26, che – unitamente alla sentenza n. 25, poc’anzi menzionata e relativa alle conseguenze penali della violazione delle prescrizioni della misura di prevenzione personale della 25 sorveglianza speciale – formano un trittico di pronunce “gemelle” dedicate a una materia di sempre maggiore rilievo. Tra queste, da segnalare la sentenza n. 24 che, esaminando una serie di questioni di legittimità costituzionale aventi a oggetto alcune misure di prevenzione personali e patrimoniali fondate su disposizioni del codice antimafia, ha preso atto degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità successivi alla pronuncia della Corte EDU Di Tommaso contro Italia del 2017 e ha ritenuto che la fattispecie sia stata dotata dall’elaborazione giurisprudenziale di un grado sufficiente di determinatezza, tale da consentire all’interessato di non essere sorpreso dall’applicazione di una misura imprevedibile al momento del compimento della condotta. Ha, invece, considerato in contrasto sia con il parametro “internazionale” dell’art. 117, primo comma, sia con gli artt. 13 (per ciò che concerne le misure personali) e 42 Cost. (per ciò che concerne quelle patrimoniali), la possibilità di applicare tali misure a carico di persone «abitualmente dedite a traffici delittuosi», giudicando radicalmente imprecisa tale formulazione normativa. 6 Oltre il 2019 Il nuovo anno è stato aperto da una contingenza davvero inedita e imprevedibile, contrassegnata dall’emergenza, dall’urgenza di assicurare una tutela prioritaria alla vita, alla integrità fisica e alla salute delle persone anche con il necessario temporaneo sacrificio di altri diritti. La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza sul modello dell’art. 48 della Costituzione di Weimar o dell’art. 16 della Costituzione francese, dell’art. 116 della Costituzione spagnola o dell’art. 48 della Costituzione ungherese. Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri. La Costituzione, peraltro, non è insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di emergenza, di crisi, o di straordinaria necessità e urgenza, come recita l’art. 77 Cost., in materia di decreti-legge. La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi – dagli anni della lotta armata a quelli della più recente crisi economica e finanziaria – che sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando all’interno di esso quegli strumenti che permettessero di modulare i principi costituzionali in base alle specificità della contingenza: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela «sistemica e non frazionata» dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dei relativi limiti. Dunque, nella giurisprudenza costituzionale si ravvisano criteri in sé 26 sufficientemente elastici e comprensivi da consentire una adeguata considerazione delle specificità del tempo di crisi. Anche nel tempo presente, dunque, ancora una volta, è la Carta costituzionale così com’è – con il suo equilibrato complesso di principi, poteri, limiti e garanzie; diritti, doveri e responsabilità – a offrire a tutte le istituzioni e a tutti i cittadini la bussola che consente di navigare «per l’alto mare aperto» dell’emergenza e del dopoemergenza che ci attende. L’intera Repubblica e tutte le sue istituzioni – politiche e giurisdizionali; statali, regionali, locali – stanno indefessamente lavorando nella cornice europea per il comune obiettivo di servire al meglio le esigenze dei singoli cittadini e dell’intera comunità. Nella società civile sono ovunque fiorite iniziative spontanee di solidarietà. Alle istituzioni, lo spirito che la contingenza richiede è stato espresso dalle parole che il Presidente della Repubblica ha rivolto agli italiani sin dall’inizio della crisi il 5 marzo 2020: «Il momento che attraversiamo richiede coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti»: nelle istituzioni, nella politica, nella vita quotidiana della società, nei mezzi di informazione. I momenti di emergenza richiedono un sovrappiù di responsabilità ad ogni autorità e in particolare agli operatori dell’informazione, che svolgono un ruolo decisivo per la vita sociale e democratica. In un tale frangente, se c’è un principio costituzionale che merita particolare enfasi e particolare attenzione è proprio quello della «leale collaborazione» – il risvolto istituzionale della solidarietà – su cui anche la giurisprudenza della Corte costituzionale non si stanca di ritornare, perché l’azione e le energie di tutta la comunità nazionale convergano verso un unico condiviso obiettivo.