(AGENPARL) - Roma, 10 Dicembre 2025Viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale (IA) è diventata onnipresente: assistenti vocali, motori di ricerca, sistemi di raccomandazione, generatori automatici di testo — tutti strumenti pensati per semplificare e velocizzare.
Ma dietro l’illusione dell’efficienza si nasconde un rischio profondo e sistemico: stiamo consegnando al digitale le funzioni più intime del nostro pensiero, e con esse la nostra autonomia mentale. Dietro a questa promessa scintillante si nasconde un prezzo altissimo: la lenta erosione della nostra capacità di pensare con la nostra testa. Non è un allarme “luddista”, è una diagnosi culturale.
Fabio Venzi, nel suo articolo «Il Transumanesimo e l’Involuzione della Specie – Parte I: Demenza Digitale», spiega come l’uomo contemporaneo rischi di delegare progressivamente le funzioni mentali fondamentali alle macchine. E nel momento in cui smettiamo di esercitare memoria, logica e giudizio, la rete neurale umana che sostengono il pensiero critico iniziano letteralmente a spegnersi.
Siamo entrati in una fase storica dove il sapere non viene più costruito: si accede. L’IA fornisce risposte immediate, ma cancella domande. Ci consegna soluzioni, ma elimina l’esperienza del ragionamento. È la nascita dell’“idiota tecnologico”: un individuo informato, iperconnesso, ma cognitivamente sempre più povero.
Citando l’analisi di Fabio Venzi contenuta nell’articolo Il Transumanesimo e l’Involuzione della Specie – Parte I: Demenza Digitale, questo editoriale vuole non soltanto suonare un campanello d’allarme, ma proporre una riflessione radicale: l’IA rischia di cancellare la singolarità umana, sostituendo il pensiero individuale con un’oceano di dati, risposte pronte, superficialità cognitiva.
Quando lo strumento diventa il padrone
Quando affidiamo a un software il compito di risolvere problemi, generare testi o calcolare risultati complessi, non solo risparmiamo tempo: rinunciamo a esercitare il ragionamento. Il pensiero critico si forma sbagliando, correggendosi, confrontando idee in una dialettica attiva: processi che richiedono tempo, attenzione, impegno. L’IA soppianta questi passaggi, offrendo soluzioni già confezionate, privando la nostra mente dell’allenamento quotidiano. Le reti neurali che sostengono memoria, logica, immaginazione — risorse plastiche quanto fragili — vengono sempre meno sollecitate, e rischiano di perdere vigore.
Demenza digitale: l’illusione dell’efficienza
La cosiddetta “demenza digitale” non è uno slogan provocatorio, ma una possibilità reale: l’uso massiccio di strumenti digitali e IA può ridurre le capacità cognitive di base. Traduzioni automatiche eliminano lo sforzo di apprendere una lingua; generatori di testo spazzano via la fatica della scrittura; calcoli e ricerche diventano operazioni “usa e getta”. Ma il sapere non è accesso: è costruzione. E la costruzione richiede partecipazione attiva.
Giovani, stanze chiuse e atrofia sociale
Il fenomeno è particolarmente preoccupante tra i più giovani. Ragazzi che crescono in stanze illuminate dallo schermo, con stimoli mediatici costanti ma contatti reali ormai limitati. L’IA offre risposte, ma non insegna a farsi domande. Il risultato? Individui esperti nell’uso degli strumenti, ma incapaci di pensare in autonomia, privi di curiosità, empatia, resistenza alla complessità. In un mondo che richiede adattamento, creatività e giudizio critico, rischiamo di formare una generazione di “consumatori passivi di informazione”.
Narcisismo digitale patologico e il torpore dell’intelligenza
I meccanismi di gratificazione immediata (like, visualizzazioni, feedback istantanei) alimentano un narcisismo superficiale patologico e un’intorpidimento mentale. L’“idiota tecnologico” non è un ignorante: sa navigare, consultare, ottenere. Ma non sa più riflettere, scegliere, dubitare. Non sa costruire un pensiero, né elaborare una visione. In un contesto collettivo, questo porta a una crescente omologazione, al pensiero pigro e spesso unico che si trasforma in scelte conformiste e facilmente manipolabili.
La rinuncia alla singolarità: dissoluzione dell’individuo nell’oceano digitale
La questione non è solo cognitiva, è esistenziale. Scaricare la memoria, le decisioni, i ricordi, i processi mentali sulle macchine significa consegnare la nostra identità a un codice. Significa accettare che la nostra singolarità si perda nell’omogeneità algoritmica. L’utopia transumanista di una mente collettiva o di un’“immortalità digitale” suona allora come il canto del cigno: quello dell’unicità umana.
Anticorpi cognitivi: resistere, esercitarsi, preservare
La risposta non è demonizzare la tecnologia — sarebbe sterile — ma sviluppare anticorpi cognitivi e culturali concreti:
- Praticare esercizi mentali quotidiani senza aiuti digitali: risolvere problemi a mano, leggere testi complessi, scrivere riflessioni proprie.
- Stabilire regole di uso digitale: momenti della giornata senza schermo, lavoro di ricerca e riflessione senza supporti automatici.
- Valorizzare lo sbaglio come strumento formativo: insegnare a spiegare il proprio ragionamento, non solo a ottenere la risposta giusta.
- Promuovere il dialogo faccia a faccia, l’ascolto e lo scambio reale.
- Educazione all’algoritmo: capire come funzionano le macchine e quali limiti hanno, per restare utenti consapevoli, non sudditi passivi.
- Impegno politico e culturale: scuole, media e istituzioni devono promuovere un’educazione digitale responsabile e critica.
Educazione civica digitale: una priorità collettiva
Contrastare la “demenza digitale” è una sfida collettiva e politica. Serve una nuova visione educativa e sociale, che valga non solo per la tecnica ma per la formazione della responsabilità, dell’etica dell’informazione, del pensiero critico, della cura dell’identità. È un dovere delle istituzioni, delle scuole, dei media: coltivare cittadini in grado di pensare, non di eseguire.
La vera rivoluzione sarà ricordarsi di essere umani
L’IA è potente — ma non può sostituire la nostra vita interiore, né la nostra capacità di scelta, dubbio, emozione, creatività. Accettare passivamente le sue comodità significa scambiare potenza per oblio. L’avvertimento di Fabio Venzi non è austerità nostalgica: è un invito urgente a difendere ciò che rende davvero umano l’uomo.
La sfida che abbiamo davanti non è verso le macchine: è verso la nostra mente, la nostra coscienza, la nostra libertà. Allenare anticorpi cognitivi non è rinunciare al futuro — è preservarlo. In un’epoca di macchine sempre più intelligenti, la vera rivoluzione sarà ricordarsi di essere umani.
Il rischio è evidente soprattutto tra i giovani. Ragazzi cresciuti nella stanza, davanti allo schermo, isolati e incapaci di gestire relazioni reali e complessità emotiva. Non stanno imparando come ragionare, ma soltanto come ottenere una risposta.
Questa nuova dipendenza digitale non mina solo le nostre capacità cognitive: minaccia la singolarità umana. Nel momento in cui trasferiamo memoria, conoscenza e perfino decisioni alle macchine, accettiamo — senza accorgercene — di dissolvere la nostra individualità in un oceano collettivo digitale.
Ecco il vero passaggio epocale: l’IA non sta semplicemente cambiando il nostro mondo, sta cambiando noi.
Per questo abbiamo bisogno di anticorpi culturali e cognitivi. Non si tratta di rifiutare la tecnologia, ma di restare gli autori del nostro pensiero. Occorre una nuova educazione digitale, fondata sulla lentezza del ragionamento, sulle relazioni reali, sull’errore come strumento educativo.
In un’epoca che corre verso l’intelligenza artificiale, la vera urgenza è difendere l’intelligenza naturale. Perché nessuna macchina — per quanto potente — può sostituire ciò che rende ciascuno di noi irripetibile: la capacità di pensare, scegliere, dubitare.
La rivoluzione del futuro non sarà tecnologica. Sarà umana.
