
La Bosnia-Erzegovina si trova nel mezzo della crisi più grave dalla fine della guerra nel 1995. Il protagonista è Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, condannato a un anno di carcere e all’interdizione per sei anni dai pubblici uffici a causa di azioni separatiste che mettono a rischio la fragile stabilità del Paese.
La situazione si è aggravata con la presenza di unità paramilitari ungheresi a Banja Luka, giunte senza informare il governo centrale bosniaco. Sebbene presentate come “istruttori”, queste forze potrebbero rappresentare un meccanismo di fuga per Dodik, qualora fosse costretto a dimettersi o arrestato.
Dodik ha respinto il verdetto e la legittimità della corte, affermando che la Bosnia “ha cessato di esistere” e promulgando leggi locali per bloccare l’ingresso delle forze dell’ordine statali nella Republika Srpska. Il gesto è stato interpretato come una chiara sfida all’ordine costituzionale stabilito dagli Accordi di Dayton, che posero fine alla guerra degli anni ’90 ma congelarono le tensioni etniche.
Il sostegno internazionale a Dodik – in particolare da parte di Viktor Orbán in Ungheria e Aleksandar Vučić in Serbia – rafforza il suo potere, mentre le sanzioni da parte di Stati Uniti, Regno Unito, Germania e altri Paesi UE cercano di isolarlo. Tuttavia, l’UE rimane divisa, con Croazia e Ungheria che si oppongono alle sanzioni comunitarie.
L’appello contro la condanna sarà discusso nei prossimi mesi. Se confermato, potrebbe portare a nuove elezioni e a un potenziale cambio di leadership nella Republika Srpska, aprendo la porta a forze politiche più moderate e favorevoli all’integrazione europea.
Intanto, l’Alto rappresentante internazionale Christian Schmidt ha definito la crisi come essenzialmente politica, ma con il rischio concreto di escalation, avvertendo l’ONU e sollecitando un maggiore impegno internazionale.
Con il Paese sospeso in un limbo politico, l’analista bosniaco Jasmin Mujanović ha dichiarato: “È chiaramente il momento più pericoloso in Bosnia dal 1995”.