
(AGENPARL) – Sat 24 May 2025 I principali interventi
Secondo Rosy Nardone se conosciamo approfonditamente lo strumento digitale scopriamo che oltre agli usi monotematici c’è molta più bellezza di quanto non immaginiamo. Le app fatte bene possono avere la funzione di buoni albi illustrati: se costruite con cura non isola il bambino, ma lo aiuta a dare corpo e voce alle sue emozioni. Occorre educare il bambino all’utopia, come diceva Gianni Rodari, cioè dargli una mano perché possa immaginarsi e immaginare il proprio destino.
Michele Marangi ha chiarito come disponiamo di paradigmi che non mordono più la realtà. Quella degli adolescenti è una realtà per i quali i nostri codici non funzionano. Oggi va di moda la polarizzazione, ma non possiamo permettercelo: la realtà è complessa. Il digitale non è una tecnologia, non è uno strumento: è mercato. Tra i primi otto uomini più ricchi al mondo, sette lavorano nel digitale. Il fatturato delle aziende è legato all’assillo dei bambini che vogliono qualcosa. Però se facciamo una riflessione, ci rendiamo conto che i bambini italiani sono felici di frequentare le scuole dell’infanzia: perché hanno spazi e contenuti pensati per loro. È questa la risposta: Il digitale va naturalizzato, perché è una presenza immanente: vanno però al tempo stesso attivate alternative sostenibili e complementari. Educando i genitori per primi, visto che non riescono più ad accettare l’idea del rischio.
Pier Cesare Rivoltella ha subito messo in chiaro che non bisogna essere deterministi e confondere correlazione con causalità. È vero che ci sono fenomeni di mancata concentrazione e frammentazione, ma quanto sono dovuti ai dispositivi e quanto alla vita frenetica che conduciamo? Il digitale è una delle tante variabili che incide sull’apprendimento, non può essere isolata dalle altre. Se vogliamo convivere con i media dobbiamo abituarci a convivere con la loro strutturale ambiguità. Solo così diventeremo cittadini di una società ad altissima complessità. Insomma, quando si stava peggio, si stava peggio: occorre coltivare la speranza nelle risorse dei giovani, perché sono migliori di noi.
Paolo Giordano ha raccontato di essere cresciuto in una famiglia dove il televisore era disprezzata e ostracizzato, mentre il computer era considerato positivo. Secondo l’autore, il nostro rapporto emotivo con la tecnologia ha vissuto tre fasi: all’inizio ci abbiamo il desiderio di comunicazione aumentata, poi funzionalità che ci semplificavano la vita. Alla fine sembra che le nuove tecnologie servano solamente a fare soldi. Chi si è arricchito con Internet viene indicato come modello, creando miti sbagliati nei giovani. La contrazione della democrazia è legata allo sviluppo di questi strumenti. Purtroppo siamo antiquati rispetto alla tecnologia, lo è la democrazia, la cui contrazione è legata allo sviluppo di questi strumenti. “Non credo che l’angoscia dei ragazzi sia legata al tempo passato allo smartphone più del fatto che ci sono due guerre contro le quali il mondo adulto si mostra impotente” ha concluso Giordano, suggerendo però che se la politica non riconquista la fiducia non sarà possibile andare oltre gli schermo.
Paola Cortellesi ha voluto mandare un video saluto, augurando ai giovani di esprimersi liberi da condizionamenti: bisogna sfruttare le potenzialità della tecnologia senza farsene travolgere, ha detto l’attrice. Che ha colto con piacere la presenza, nel programma degli stati generali, una performance teatrale di giovani; niente più del teatro allena all’empatia. È un esercizio andrebbe praticato sempre di più, il mio sogno, ha concluso l’attrice e regista, è che diventi materia curriculare nelle scuole.
Giuseppe Lavenia ha ricordato come iI 38% dei ragazzi che subiscono bullismo diventano bulli a loro volta. La tecnologia si inserisce dove c’è un’assenza. Il 75% dei ragazzi pensa al futuro con ansia, il 60% non riesce a immaginare il proprio futuro. 8 ragazze su 19 si sentono giù e il 50% pensa che niente abbia senso. Le leggi ci sono già, sotto i tredici anni non si dovebbe accedere ai social, ma è difficile farle rispettare La tecnologia tende a dissociare la capacità di provare emozioni dal rappresentarle e trasformarle in sentimenti. Siccome noi adulti siamo sotto pressione tendiamo a concedere ai figli sempre qualcosa di più. I figli hanno bisogno di presenza, di adulti che lascino lo smartphone, di un giorno alla settimana in cui ne sono privi per disintossicarsi.
Rossella Ghigi ha sottolineato come manchi una educazione all’affettività. In Italia non è obbligatoria, e si comincia molto tardi, verso i 14 anni. Occorre un approccio olistico alla sessualità che la affronti nel suo complesso: evidenze scientifiche dimostrano che questo tipo di formazione, se fatta con competenza, riduce le gravidanze indesiderate, la diffusione di malattie veneree, fa emergere eventuali abusi in famiglia. Per fortuna l’Emilia-Romagna in questo campo è un’eccellenza: l’educazione sessuo-affettiva infatte gode di buona salute coinvolge tutte le scuole primarie e secondarie. Educazione relazionale, sessuale ed affettiva: serve a rendersi conto di non essere soli ad affrontare i cambiamenti portati dalla pubertà.
Beatrice Petrella ha raccontato la sua inchiesta “Oltre” sul fenomeno degli “incel”, i celibi involontari. Inserendosi anonimamente nelle loro chat ha descritto nel suo lavoro di questi uomini che odiano le donne perché gli negherebbero, secondo loro, la possibilità di fare sesso. Hanno dei dogmi, credono nel maschio alpha, non si interrogano sul loro standard, per non perdere privilegi. Sostengono che siano le donne a detenere il potere, a cercare la ricchezza, e le leggi siano a loro favore. Le comunità incel coinvolgono bambini di 11 anni come anziani di 70: difficile mappare il fenomeno, di certo c’è che quando ti abitui a guardare la realtà con una lente che distorce tutto diventa difficile liberarsene perché le idee sbagliate si rinforzano attraverso il confronto su internet.
Massimo Temporelli ha manifestato una posizione più favorevole all’uso dei dispositivi: il digitale è uno strumento di indagine del reale, ha spiegato. Sottrarlo ai bambini vuol dire limitare la loro indagine. Però bisogna insegnare loro a utilizzarlo, e farlo è più difficile che dire di non usarlo. Rinunciare d’altro canto vuol dire perdere possibilità economiche, farci superare nel mercato del lavoro da altre nazioni. Noi siamo gli oggetti che abbiamo. Se non lo capiamo, non comprendiamo l’homo sapiens. Gli strumenti per trasmettere la conoscenza cambiano, è normale. Bisogna vivere quest’epoca come un laboratorio di trasformazione: a un certo punto arriva il momento di voltare pagina.
Erin Doom ha condiviso la sua esperienza di giovane scrittrice di successo: in quindici anni ha visto cambiare il mondo, dai primordi di Internet alla realtà attuale. Oggi, ha spiegato, i social servono a fare scouting nel mondo editoriale. Ma le competenze stanno nella community di uno scrittore o nel valore che la persona riesce a trasmettere? Questo è il grande enigma. Gli italiani vendono molto di più degli stranieri, perché tra autore e lettore si crea relazione parasociale. L’idea di conoscere e diventare amico della persona di cui leggi i romanzi appassiona i più giovani, che vivono attraverso lo schermo e cercano di creare relazioni attraverso lo schermo. In tanti hanno cominciato a leggere scoprendo che la carta può generare le emozioni.
Jaron Lanier, infine, collegato in diretta dagli Stati Uniti, ha evidenziato come i bambini abbiano difficoltà a capire con sufficiente tempismo i rischi delle nuove tecnologie: bisogna evitare che le analisi scientifiche semplifichino troppo i problemi, perdendo di vista la combinazione di fattori cui sono esposti i bambini.