
Un linguaggio semplice, profondo, quasi pedagogico, è la caratteristica principale che ispira tutta la recente Enciclica Papale.
Ci troviamo a navigare in questa vita -ci dice Papa Francesco- con una “barca” (eh sí, fa questo accostamento) dentro un “mare in tempesta” e di cui la virtù della speranza costituisce, contemporaneamente, “sia l’ancóra sia la vela”.
Attenzione però a non confondere questa VIRTÙ con il concetto di ottimismo: perché mentre quest’ultimo deriva da una predisposizione fisica, psicologica (che ogni uomo può avere di più o meno), la prima di fatto è una “certezza”, vero dono di Dio, il lievito con cui impastare ogni giorno la nostra vita.
Per questo il cristiano sarà sempre “in tensione verso”, cioè volgerà sempre al meglio possibile una comunità (quella umana) che si evolve sempre per nuovi obiettivi di progresso.
In tale quadro “la pazienza non è sopportazione” ma significa “saper soffrire bene”.
Un concetto, quest’ultimo un po’ ostico da digerire soprattutto per chi ama dire “finché c’è vita c’è speranza”.
Subordinando quest’ultima alta virtù alle meno evolute circostanze, fisiche e temporali, che derivano da tanti eventi che -proprio perché umani- sono del tutto aleatori.
L’uomo di Neanderthal aveva pure lui degli obiettivi e delle speranze, ma essi erano tutti racchiusi dentro prospettive di vita assai diverse da quelle che abbiamo oggi.
Lui, poi, aveva a disposizione dei macchinari assai meno evoluti: prendiamo per tutti gli strumenti medico-scientifici che sono oggi il derivato delle ricerche fatte.
Ci sono poi, conclude il S. Padre, due valori che derivano proprio dalla speranza.
Il primo è quello di “felicità”, che “non si possiede, si vive”: nel senso che il concetto di possesso implica già di per sé stesso la possibilità di non averlo; quindi di fatto rappresenta già una limitazione ben precisa.
Una pratica compressione del tuo essere.
Il secondo è quello di “perdono”.
Anche qui saranno in molti coloro che non riusciranno -per una limitazione a essi interna- ad affrontare una sfida che è già di per sé a sé stessi: perché perdonare commporta sempre costanti aggiornamenti del proprio essere in circostanze sempre in evoluzione.
Perdonare non significa sorvolare o sottovalutare dei fatti che sono pure accaduti, ma comporta l’aggiornamento continuo e perenne di quelle che sino a ieri consideravamo delle certezze irremovibili.
Quanti roghi si sarebbero evitati se la Chiesa avesse condotto in tutte le epoche questi ragionamenti?
Quindi il “pellegrinaggio” continuo è la risposta: il cristiano dev’essere sempre in cammino, tralasciando le comodità o il rilassamento in cui troppo spesso gli integralisti cadono: essere cristiano implica la scomodità.
Anche e soprattutto per la Chiesa.
Un concetto, gesuitico e francescano, questo su cui non mancheranno le polemiche.
Papa Francesco non è mai “comodo”: fa della scomodità il Nord della propria bussola.
Per questo può piacere o non piacere.
A noi piace.
(On. Sante Perticaro)