
(AGENPARL) – mer 19 giugno 2024 Presentazione del Rapporto sull’economia
della regione Lombardia
Intervento di Luigi Federico Signorini
Direttore Generale della Banca d’Italia
Milano, 19 giugno 2024
Iniziamo guardando un poco indietro.
Dopo un ventennio in cui ha visto ampliarsi i divari di sviluppo con gli altri maggiori
paesi avanzati, l’economia italiana ha mostrato una buona capacità di reazione alla
crisi pandemica e allo shock causato dall’aggressione russa all’Ucraina. Nelle sue
Considerazioni finali di qualche settimana fa, il Governatore Panetta ha sottolineato che
da noi la ripresa è stata superiore alle previsioni e a quella delle altre grandi economie
dell’area. Come osservai un anno fa in questa sede, questa robustezza “riflette in qualche
misura un processo di ristrutturazione e selezione che ha interessato il tessuto produttivo
nell’ultimo decennio, favorendo la riallocazione delle risorse verso imprese più produttive
e competitive”. Ha contribuito a un rafforzamento della struttura finanziaria delle aziende.
Gli investimenti sono tornati a crescere; non solo quelli in edilizia, favoriti da incentivi
senza precedenti che hanno stimolato una forte espansione delle costruzioni (seppure
con un costo per le finanze pubbliche elevato: tra il 2021 e il 2023 la spesa per il “bonus
facciate” e per il “superbonus” ha raggiunto 175 miliardi di euro; deve per lo più ancora
riflettersi nelle statistiche del debito pubblico).
Guardando avanti, tuttavia, la recente resilienza, per quanto importante, non deve
ingannare: restano rischi strategici e questioni strutturali ineludibili. Occorre, si dice nelle
Considerazioni finali, consolidare la ripresa.
Come in altri paesi, in Italia il recupero dalla doppia crisi è stato favorito da politiche
monetarie e fiscali molto espansive. La crescita si è ridotta nel 2023. Nell’area dell’euro
il PIL è aumentato solo dello 0,4 per cento: l’attività economica è diminuita in Germania
e ha bruscamente decelerato nelle altre principali economie. In Italia la crescita è stata
dello 0,9 per cento, dunque più della media, ma assai meno del 2022. Come è riportato
nella nostra relazione regionale, secondo gli indicatori elaborati dalla Banca d’Italia il
dato stimato per la Lombardia è l’1,2 per cento.
Hanno inciso l’esaurirsi del recupero delle attività più colpite dalla pandemia, la debolezza
della domanda mondiale e la restrizione monetaria resasi necessaria dopo la fiammata
inflazionistica.
La Banca d’Italia ha recentemente pubblicato stime aggiornate per il 2024 e per gli anni
successivi. Esse prevedono una crescita dello 0,6 per cento quest’anno (0,8 considerando
il maggior numero di giorni lavorativi), dello 0,9 nel 2025 e dell’1,1 nel 2026. Restano
tutte le incertezze legate alle tensioni internazionali.
Che cosa serve per crescere di più in modo stabile?
Una sfida su cui le Considerazioni finali richiamano l’attenzione è quella demografica. Il
basso tasso di natalità (comune a tutti i paesi avanzati, ma particolarmente evidente da
noi) sta già determinando un calo della popolazione. Credo valga la pensa di spendere
qualche parola per spiegare la questione.
Di per sé, una popolazione meno numerosa non comporta un minore benessere
economico individuale. Vi sono piccoli paesi ricchi e grandi paesi poveri; quello che conta
non è il prodotto o reddito complessivo, ma il reddito pro capite.
Restano tuttavia due aspetti da considerare.
Il primo riguarda la sostenibilità del debito pubblico e del sistema pensionistico. Come ho
osservato altrove1, debito pubblico e sistema pensionistico sono i due strumenti con cui una
generazione trasferisce oneri finanziari sulle generazioni successive. Le nostre pensioni le
pagheranno i nostri figli; il debito che accumuliamo graverà sulle loro spalle. Quanto meno
numerose sono le spalle in questione, tanto maggiore l’onere che peserà su ciascuna. In
altre parole: esiste un problema che non riguarda la dimensione della popolazione in un
determinato momento, bensì il confronto tra la dimensione di una generazione e quella
delle successive. O per meglio dire, del prodotto che esse genereranno.
Il secondo è che il prodotto pro capite di un paese è funzione sia della produttività media
del lavoro, sia della quota di residenti effettivamente occupata. Della produttività tornerò
a parlare tra poco. Quanto alla quota degli occupati, essa è influenzata appunto dalla
demografia, in particolare dalla struttura per età della popolazione. Il calo delle nascite e
l’allungamento della vita comportano una minore incidenza della fascia tradizionalmente
considerata “età da lavoro” (15-64 anni). Sulla base delle proiezioni demografiche dell’Istat,
le Considerazioni finali riportano cifre abbastanza impressionanti in proposito. Tra il 2023
e il 2040, data una riduzione attesa di 5,4 milioni di persone in “età da lavoro”, se restassero
costanti gli attuali livelli di produttività e dei tassi di occupazione per cella demografica, il
prodotto italiano sarebbe destinato a contrarsi del 13 per cento; quello pro capite del 9.
Ma questo, come le Considerazioni finali chiariscono, è un calcolo meccanico, non una
previsione: i tassi di occupazione non devono restare, e credo non resteranno, costanti.
Intanto, anche la vita lavorativa si allunga. Chi in passato era considerato anziano oggi
è in grado di lavorare – tenendo ovviamente conto dei lavori cosiddetti usuranti, che
espongono a stress fisici o psicologici che vanno opportunamente considerati.
L. F. Signorini, Ma se ghe penso. Migranti, demografia, sostenibilità, intervento al Rotary Club della Spezia, 10 novembre
2023.
Il sistema pensionistico scaturito dalle riforme degli ultimi decenni assicura che
l’orizzonte dell’attività lavorativa tenga il passo con l’allungamento della vita. Questa è
obiettivamente una condizione necessaria per evitare che il rapporto tra popolazione attiva
e totale si riduca a dismisura, rendendo insostenibile per la società l’onere di assicurare
soddisfacenti condizioni di vita ai più giovani e ai più vecchi. È anche il riconoscimento
del fatto positivo che, in media, crescono gli anni di vigore e buona salute.
Non è solo questo il punto però. Più in generale, il tasso di occupazione italiano, in aumento
da tempo, può e deve crescere ancora: esso rimane, come ha ricordato il Governatore, di 8
punti percentuali inferiore alla media dell’area dell’euro. Spicca in particolare il fortissimo
divario nel tasso di occupazione delle donne (13 punti percentuali). In Italia riesce ancora
troppo difficile conciliare impegno lavorativo e carichi familiari; le Considerazioni finali e
la Relazione della Banca offrono vari spunti sui motivi di questo fatto e sui possibili rimedi.
L’andamento delle forze di lavoro dipende anche dall’immigrazione regolare. Se vi
sarà un aumento dei flussi – cito ancora le Considerazioni finali – “occorrerà gestirlo,
in coordinamento con gli altri paesi europei, bilanciando le esigenze della produzione
con gli equilibri sociali e rafforzando le misure di integrazione dei cittadini stranieri nel
sistema di istruzione e nel mercato del lavoro”.
L’altra sfida fondamentale è la produttività. Per i primi vent’anni di questo secolo la
crescita del prodotto per ora lavorata si è sostanzialmente arrestata nel nostro paese.
È soprattutto da questo che dipendono la minore crescita dell’Italia rispetto alle altre
economie avanzate e l’aumento della distanza nelle retribuzioni pro capite.
La crescita della produttività è legata agli investimenti in tecnologia e in capitale umano.
Negli ultimi dieci anni, una buona dinamica degli investimenti ha contribuito a un
lieve aumento della produttività nell’industria e nei servizi non finanziari di mercato.
Ultimamente l’incidenza degli investimenti in tecnologie digitali è decisamente cresciuta;
sono molto interessanti le considerazioni in merito contenute nell’approfondimento
proposto con la relazione sulla Lombardia. Incentivi all’innovazione tecnologica possono
essere utili se semplici, stabili e non distorsivi.
Molto si dibatte sul possibile impatto della intelligenza artificiale; molti sono i timori
che l’accompagnano. Però lasciatemi dire che oggi il principale rischio per l’economia
italiana (ed europea) a me pare quello di non riuscire a partecipare pienamente al veloce
progresso della tecnologia, che vede gli Stati Uniti e ormai anche diversi paesi asiatici
in prima linea. La regolamentazione del settore dovrà ovviamente proteggere i diritti
fondamentali – possibilmente imparando dall’esperienza, perché non tutto può essere
previsto in anticipo. Se qualche mestiere sparirà, come è sempre avvenuto con ogni balzo
della tecnologia, occorrerà accompagnare la riallocazione della forza lavoro favorendo
la riqualificazione dei lavoratori, rendendo fluido il mercato e predisponendo strumenti
adeguati di protezione sociale. Ma non si deve rischiare troppo di frenare l’innovazione,
perché essa è la chiave per rilanciare la crescita della produttività e promuovere, a lungo
andare, il benessere di tutti.
Con riferimento agli aspetti finanziari, aggiungo che in Italia per favorire l’innovazione
tecnologica occorrerà tra l’altro sviluppare il mercato del venture capital, sottodimensionato
perfino nel confronto con le altre principali economie europee, per non parlare degli Stati
Uniti. Tra il 2021 e il 2022 gli investimenti del settore nel nostro paese sono stati solo una
frazione di quelli osservati in Francia e in Germania; è limitato il numero di fondi attivi nel
comparto. La rimozione di possibili ostacoli regolamentari va studiata anche nell’ambito
dei lavori per l’attuazione della legge delega di riforma del TUF, ai quali la Banca d’Italia
contribuisce. Per quanto di propria competenza, la Banca ha avviato una riflessione su
come semplificare la disciplina dei gestori dei fondi più piccoli. Altri ostacoli potrebbero
risiedere nel diritto societario e nel diritto fallimentare: è importante riflettervi.
Quanto al capitale umano, l’Italia è notoriamente in ritardo rispetto agli altri paesi avanzati
in termini di scolarità, competenze e ricerca. Per esempio, siamo al terzultimo posto in
Europa per quota di laureati; ed è troppo bassa la diffusione di competenze digitali.
I progressi non sono mancati negli ultimi anni, ma è essenziale intensificare l’impegno.
Mi pare insomma che, quando ci confrontiamo con gli altri paesi avanzati, due differenze
veramente notevoli saltino agli occhi tra le altre, due differenze a cui il dibattito sulle
politiche pubbliche non dedica forse l’attenzione che meritano: la bassa partecipazione
delle donne al mercato del lavoro e la bassa scolarità. Su entrambi l’azione pubblica ha
un ruolo importante.
Un’altra notevole differenza, questa però ampiamente dibattuta, riguarda il debito
pubblico.
Alla fine dell’anno scorso il debito pubblico italiano era pari al 137,3 per cento del PIL.
Benché tornato vicino al livello precedente la pandemia, il rapporto resta elevato sia
in prospettiva storica (circa 25 punti in più rispetto all’avvio della moneta unica), sia
nel confronto con gli altri paesi (quasi 60 punti in più rispetto a quello medio del resto
dell’area).
A differenza di quanto si poteva dire l’anno scorso o due anni fa, non vi è, al momento,
una prospettiva di riduzione immediata. Nel Documento di economia e finanza 2024 il
Governo ha presentato il quadro tendenziale dei conti pubblici per il periodo 2024-27.
Nell’anno in corso, il forte ridimensionamento della spesa per il Superbonus e il venir
meno delle misure espansive contro i rincari energetici contribuirebbero a un deciso calo
dell’indebitamento netto; la riduzione continuerebbe nel 2025, confermando l’abolizione
di sgravi contributivi prevista dalla legislazione vigente, e nei due anni successivi. Anche
a causa degli effetti di cassa delle agevolazioni edilizie maturate negli anni scorsi, il
rapporto tra il debito e il prodotto aumenterebbe invece fino al 139,8 per cento nel 2026,
per poi diminuire leggermente l’anno successivo.
Il quadro programmatico sarà diffuso entro il 20 settembre.
Il debito è frutto di squilibri accumulati in molti anni; la sua riduzione richiede
un’azione graduale e persistente, anche a causa delle pressioni sulla spesa esercitate
dall’invecchiamento della popolazione e dalle esigenze connesse con le transizioni
energetica e digitale e con la sicurezza nazionale. Però ridurlo non è un compito
impossibile. Quello che serve è un insieme di consapevolezza e perseveranza: obiettivi
chiari e credibili, un’azione paziente e costante. Occorre non cedere alla tentazione di
rimandare a domani; non illudersi che più debito possa, nel lungo periodo, comprare più
crescita.
Gioverà impostare oggi un piano pluriennale che coniughi una migliore qualità del
bilancio pubblico con un graduale miglioramento del saldo primario strutturale. Cito
ancora le Considerazioni finali: “Quanto più la prospettiva di riduzione del debito sarà
credibile, tanto minori saranno i rendimenti che gli investitori chiederanno per detenerlo.
Ciò renderà a sua volta meno arduo l’aggiustamento”.
L’orizzonte pluriennale dell’azione della finanza pubblica è richiesto anche dalla recente
riforma dei meccanismi di governo economico europeo, che si focalizza, giustamente,
sulla dinamica del debito nel medio termine. Fermi restando i vincoli su indebitamento
e debito inclusi nei trattati (rispettivamente, il 3 e il 60 per cento del PIL), gli obiettivi per
la finanza pubblica saranno fissati sulla base di analisi di medio periodo condotte dalla
Commissione, e potranno differire da paese a paese.
Il dettato finale della riforma è frutto di un compromesso: rispetto alla proposta iniziale,
la discrezionalità della Commissione si è ridotta e i piani degli Stati membri dovranno
comunque rispettare alcuni vincoli numerici uguali per tutti2. Questi ultimi introducono
ulteriori complessità (mentre uno degli obiettivi della riforma era semplificare le regole),
ma non dovrebbero a mio avviso essere visti in termini solo negativi3. L’approccio
adottato è simile a quello proprio delle regole di vigilanza, che contemplano output
floors e leverage ratios accanto all’uso di modelli sensibili al rischio. Si tratta di argini; di
regole poco sofisticate e certo in parte arbitrarie; ma volte a evitare squilibri e ridurre
l’incertezza.
Le modalità con cui le nuove norme verranno applicate, dalle autorità europee e dagli
Stati membri, saranno cruciali per determinarne l’efficacia. Dal punto di vista italiano,
l’applicazione delle nuove regole rappresenterà un segnale importante sia per i nostri
partner europei, sia per gli investitori.
Concludo con qualche breve considerazione sul sistema bancario e finanziario.
In questo momento le condizioni delle banche italiane sono favorevoli. Di recente il flusso
di nuovi crediti deteriorati in rapporto a quelli in bonis è lievemente aumentato, ma nel
complesso la qualità degli attivi detenuti dalle banche è rimasta buona. L’incidenza dei
prestiti deteriorati sul totale dei finanziamenti al netto delle rettifiche resta in linea con
i valori medi dell’area dell’euro. La raccolta complessiva è notevolmente diminuita per
Cfr. il riquadro La nuova governance di bilancio europea nella Relazione annuale sul 2023.
Cfr. L. F. Signorini, Fiscal stabilisers, fiscal rules and fiscal union, Intervento al Seminario “Enhancing fiscal stabilisation
in EMU”, Villa Schifanoia, Firenze, 22 marzo 2024.
via del calo delle passività verso l’Eurosistema, attenuato da un accresciuto ricorso al
mercato interbancario estero e alle emissioni di obbligazioni. I depositi di residenti sono
scesi e si è registrata una ricomposizione dalle forme a vista a quelle a scadenza, che
hanno rendimenti più alti. Ciononostante, il costo della raccolta si mantiene contenuto.
La redditività, particolarmente elevata negli anni scorsi, dovrebbe mantenersi positiva
anche quest’anno.
Occorre però continuare a tenere elevati i presidi di sicurezza. Considerate le condizioni
economiche generali e gli andamenti di mercato, le banche devono adeguatamente
presidiare il rischio di credito e quello di liquidità. Viste tra l’altro le incertezze che
abbondano a livello planetario, la Banca d’Italia ha recentemente introdotto una riserva
macroprudenziale di capitale.
Come ricordai l’anno scorso, l’esperienza ha mostrato che vulnerabilità e rischi sistemici
possono emergere anche nel comparto dell’intermediazione finanziaria non bancaria.
È importante, quindi, affinare la regolamentazione di questo comparto, e in particolare
dei fondi di investimento. In Europa, rafforzare i presidi prudenziali dell’intermediazione
non bancaria giova, non nuoce come taluno sembra credere, alla realizzazione di un
mercato unico dei capitali. Altre importanti giurisdizioni hanno avviato il processo di
rafforzamento, ad esempio con riferimento ai fondi monetari; l’Europa non deve restare
indietro.
Grafica a cura della Divisione Editoria e stampa della Banca d’Italia