
[lid] In Italia, per nostra fortuna, vige un sistema liberale e democratico ma, c’è sempre un ma, ritenuto intoccabile. Si è sviluppata una sorta di atmosfera sacrale intorno all’attuale assetto costituzionale, che impedisce qualsiasi adattamento alle mutevoli circostanze e al nuovo habitat geopolitico multipolare, qualsiasi possibilità di ripensamento, anche se potrebbe portare a risultati migliorativi per la nostra democrazia.
Come se ri-pensare diversamente funzioni e competenze facesse di nuovo sprofondare il Paese nelle tenebre di decenni che tutti vorrebbero dimenticare. Alle proposte di riforma più audaci, si accompagna sempre l’eco delle accuse più variegate, dalla voglia di autoritarismo a quelle di criptofascismo.
Se usassimo di meno la pancia e un po’ più la testa, ci renderemmo conto che tale atteggiamento riposa su alcuni malintesi concettuali e non mette in risalto un punto essenziale.
Il primo equivoco è che l’assetto liberale, proprio per definizione, non può che liberamente mettersi in discussione. Non certo per uscire dal recinto della democrazia (il che è impossibile, in tale frangente storico), ma per migliorare in termini di efficienza nella risposta all’accelerazione forsennata che il processo storico della globalizzazione ha impresso alle democrazie liberali. Se, forse, la realtà istituzionale non ha preso atto di ciò che sta accadendo, è anche vero che pare poco munita degli strumenti per evitare lo splashdown finale. La nostra struttura impone ritmi lenti (anzi: lentissimi) nel rispondere adeguatamente alle sfide del nuovo millennio. La diffusa sensazione popolare è che in Italia nessuno pare decidere niente, se non quando si devono recepire decisioni sovranazionali, e questo attendismo si riflette inevitabilmente sul sistema-Paese, dalla giustizia al lavoro alla sanità, settori ormai impastoiati in iter e assolvimenti macchinosi e dispersivi a cui nessuno sembra voler metter mano.
Il secondo malinteso riposa sulla paura del passato prossimo. Qualunque modifica alla Costituzione viene guardata col sospetto di una ricaduta nell’inferno di un occulto autoritarismo: come se dei postmoderni Pinochet o Videla, dismessi gradi e mostrine, in un rassicurante completo grigio perla, potessero annidarsi fra le pieghe delle riforme pronti a ghermire la nostra fragile democrazia. E se tale riflesso pavloviano è intrinsecamente sbagliato, lo è ulteriormente oggi, 2024, in una situazione di rapporti e alleanze internazionali che non permette all’Italia di muoversi come un’individualità a sé stante, con impennate autarchiche. Il multiculturalismo, la secolarizzazione e, soprattutto, l’interconnessione concessa dalla rapidissima rivoluzione social-digitale, fa sì che l’Italia sia legata a comportamenti ed etiche istituzionali largamente condivisi da altre democrazie; un italiano, un norvegese, un tedesco sono ormai immersi in un flusso condiviso di notizie, pulsioni e consapevolezze pienamente “democratici”.
I timori per una “pretesa del comando” sono, perciò, infondati e inesistenti.
Da ultimo, il punto essenziale. Pare assai grottesco che le raffinatissime o allarmate disquisizioni sulla forma istituzionale italiana avvengano spesso in assenza di Italiani. Come se i titolari della sovranità fossero un maldestro inciampo da interpellare svogliatamente solo in occasione delle elezioni.
Presenti, ma non interpellati.
In realtà, cosa pensano gli Italiani? I sondaggi si susseguono, ma paiono fatti per celarne i desideri più che esprimerli e tramutarli in azione politica.
Gli Italiani sono, nella maggior parte, sfiduciati e rassegnati. Dagli impacci burocratici, dai bizantismi, dalle piroette di chi decide poco e, spesso, lo fa non nel loro interesse.
Gli Italiani hanno preso pure a rimpiangere gli uomini della Prima Repubblica dai quali potevano dirsi, coi loro limiti, pienamente rappresentati.
Gli Italiani sentono l’indefinibile nostalgia non dell’uomo forte, ma di un leader che dica un sì che sia un sì, senza infingimenti o trucchi o retromarce più o meno velate.
Gli Italiani hanno bisogno e richiedono sicurezza.
Di chi?
Di una serie di statisti che infondano quella serenità che deriva dall’osservare un orizzonte stabile. In fondo reclamano poco, solamente una direzione di marcia condivisa; e dei partiti abili a intrattenere con l’elettorato un rapporto basato su una corrispondenza di reciproca fiducia e che non s’interroghi continuamente sui limiti di tale fiducia.
Questo sarà reso possibile solo da una riforma che riporti gli elettori a scegliere la persona e la maggioranza in grado di interpretare i loro bisogni in un momento di trapasso epocale. E che plachi il loro grande smarrimento.
di Walter Rodinò