
[lid] In data 3 febbraio 2024 codesta Agenzia pubblicava il redazionale, Abruzzo: gli allevatori bocciano gli antropologi al convegno di Pescasseroli sul tema ‘convivere. Le scienze sociali ed il rapporto uomo-natura’, cui seguivano, poi, in risposta e replica, l’intervento di Dario Novellino, Gli allevatori bocciano gli antropologi al convegno: replica a Morisi, in data 6 febbraio, e di Letizia Bindi, Coesistenze, frizioni, confronti. Attorno a un incontro presso il PNALM, in data 15 febbraio.
Avendo contribuito alla discussione nel convegno, vorrei delineare il quadro generale dell’iniziativa ed esporre alcune riflessioni, spero utili al dibattito.
L’occasione
L’occasione si riferisce alla presentazione di “Etnosimbiosi”, progetto di ricerca finanziato dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM), e comunicato nella Sala Convegni della sede di Pescasseroli, nella giornata del 26 gennaio 2024, con una tavola rotonda dal titolo Convivere. Le Scienze Sociali ed il Rapporto Uomo-Natura.
Lo studio antropologico (oltre a uno studio centrato sulla biodiversità) era stato promosso dal parco, in maniera assai opportuna, per la finalità più generale di formulare il piano socioeconomico, come da Legge quadro sulle aree protette (come da L.394/1991, nonché – ricordiamolo a noi stessi – da art. 9 della Costituzione), resosi necessario dopo la trasformazione del Parco d’Abruzzo in PNALM nel 2001.
Il piano e il regolamento attuativo sono le risposte all’obbligo di normare le azioni sociali ed economiche entro un territorio vincolato, secondo i principi della ‘zonizzazione’, che prevedono in genere le tre zone A, B e C, da organizzare secondo il regime di azione antropica sul terreno (nessun intervento – interventi parziali – piena accessibilità), ai fini della riproduzione delle biodiversità. L’intera operazione implica la produzione di ‘confini’, i quali a loro volta definiscono uno spazio: fissano il perimetro delle azioni politico-amministrative, demarcano la differenza fra l’in e l’out, fissano il territorio rispetto al prima e al poi.
Quando le aree protette coincidono con estesi spazi di biodiversità, come nei parchi centroafricani, nord o sudamericani e così via, i confini corrispondono in genere ad unità territoriali date; e anche lì non mancano problemi. Quando si tratta invece di ambiti caratterizzati da processi di modernizzazione o mutamento organizzativo, le aree protette sono gli spazi interstiziali (buffer zones, spazi ‘pionieri’ o spazi marginali) che lo stesso ‘sviluppo’ ha congelato in residualità di società tradizionali, sopravvissute in piena modernità. Questi nuovi spazi sono prodotti dell’azione umana, resi unitari grazie a una volontà politica di conservazione, che agisce sul territorio, trasformando il passato in una pagina vivibile del presente. Sfida orgogliosa, gravida di conseguenze, in specie quando la neo-unità territoriale, formalmente istituita, si compone di parti e di elementi diversi per storia territoriale. E il PNALM non ne è esente, a partire dai suoi tre versanti regionali (Abruzzo, Lazio e Molise), suddivisibili a loro volta in ulteriori sub-aree, da connettere.
Le aree
La questione più generale riguarda la definizione delle aree. Qual è la differenza e quale la correlazione fra area amministrativo-politica, area culturale, area socioeconomica e area eco-ambientale? Lascio aperto l’interrogativo, che ha a che fare probabilmente con lo stesso formarsi dello stato-nazione moderno; in ogni caso, le aree protette sono individuate e definite in ragione delle peculiarità naturalistico-ambientali (i tematismi), attorno a cui si costruisce un dispositivo politico ed economico sociale.
Non raramente le aree protette sorgono in forma di assemblaggio un po’ artificioso, con uno speciale regime di tutela e di gestione che conserva e valorizza un patrimonio naturale, nonché tutela i valori umani (antropologici, archeologici, storici, architettonici, agro-silvo-pastorali e tradizionali), sperimentando forme di attività produttive compatibili con le norme di vincolo. Le diversità dei relativi centri di potere istituzionale dovrebbero trovare convergenza con il ricorso a forme di cooperazione o di intesa fra enti e gruppi associati.
Fra le diverse comunità interne non di rado sorgono conflitti. Il piano di sviluppo dovrebbe scongiurarli. E qui si situano i fatti di Pescasseroli, ove a confliggere sono gli interessi di allevatori stanziali, allevatori di (semi)transumanza, animali domesticati e animali selvatici.
A cosa servono gli antropologi
Lo studio antropologico di tali fatti riguarda la dinamica riproduttiva del territorio nella relazione fra passato e presente. Tale dinamica è essenziale, perché garantisce il riperpetuarsi dell’assetto naturalistico e delle stesse esistenti forme umane.
Al centro della genesi della zonizzazione si pone il problema su come regolare l’antropizzazione interna ad un territorio vincolato. Ciò è possibile se si intende per parco non solo una comunità politico-rappresentativa (e pur lo è: presidente, sindaci, staff), ma anche la comunità reale composta per lo meno da cinque risorse, le telluriche, le vegetali, le animali, le umane e le culturali.
Può suonare strano pensare che ‘cose’ non umane (terra, animali …) si costituiscano in comunità/culture e siano delle soggettività; nel prosieguo, invece, ci rendiamo conto che ogni risorsa detiene proprie possibilità di azione, si pone in relazione con le altre e produce effetti. Ogni singola risorsa ha purtuttavia dei limiti: un sentiero di montagna può essere utile per trasportare cose o per condurre ad una meta, non per nuotare; una pietra è utilizzabile per innalzare un muro oppure per configgere un chiodo su un asse, non per divenire cibo; eccetera. Tutte hanno diritto ad esistere, a conservarsi, a riprodursi: il problema è il modo e il quanto rispetto al parco, che si pone come un soggetto plurale.
Per tali motivi è importante lo studio della riproduzione delle molteplici culture e comunità. Ciò avviene in due modi: a) con il delineare il sistema delle azioni degli attori implicati, b) con il raccogliere e valorizzare la ‘voce’ degli stessi, rendendoli co-autori e co-interpreti della ricostruzione concettale dello spazio abitato e vissuto.
Fermo rimanendo il fatto che anche le potenzialità delle cose reali possono, sia pure in parte, estendersi o contrarsi nel tempo, è assodato che tra i ‘confini’ esterni e interni di un parco, da una parte, e le possibilità degli attori implicati, dall’altra, si giocano le maggiori occasioni di coesione o conflitto. E il conflitto, quando sorge, in che modo influisce sulla riproduzione del parco?
Il contenzioso
Verso il PNALM le maggiori critiche sono pervenute dai rappresentanti dell’allevamento estensivo. Le critiche riguardavano il divieto di attraversare i confini fra le zone interne e il divieto di allungare il calendario stagionale del pascolo brado, divieti istituiti in base alla norma di garantire l’ottimale riproduzione delle biodiversità.
È normale che i singoli attori sociali ed economici nutrano aspettative e manifestino diritti a perseguire fini normativamente fondati. La richiesta di far pascolare brado o di usare ulteriori stagioni dell’anno per il pascolo è un’istanza legittima, che però cozza contro il sistema della zonizzazione, che continua a rimanere il fulcro del parco. Le culture sono relazioni complesse fra uomo e ambiente mediate da trasmissione di competenze cognitive e da strumenti utili allo scopo. In questo caso, il divieto rischia di mettere a dura prova alcune culture antropiche, in quanto comunità di gruppi sociali residenti che sviluppano strategie economiche di appropriazione di risorse.
Alla stessa maniera, le culture del mondo animale si dividono grosso modo fra quelle stanziali collegate all’uomo per finalità lavorative (domesticità, allevamento), e quelle ancora parte del mondo naturale (selvaticità e semi selvaticità). Queste ultime, se attraversano i confini, non potranno non produrre danni, colpendo tutte le culture umane.
Valutazione del lavoro
Stabilite queste connessioni generali, passo al report contestato nella giornata a Pescasseroli. Nonostante le critiche, considero il report un buon lavoro. Esso è un utile passo in avanti rispetto alla scarsità degli studi di settore, perché si basa sullo studio intensivo dei due casi comunali di Pescasseroli e Picinisco, rappresentativi di due micro-modelli di sviluppo del parco. Il primo è centrato sull’economia della accoglienza turistica e della ristorazione; il secondo sull’economia dell’allevamento stanziale.
La tipizzazione ci aiuta a capire alcune linee di sviluppo interne al territorio del parco. Per arrivarvi, bisogna attivare una ricerca sulle aziende e sull’organizzazione lavorativa dei relativi fulcri sociali. È importante capire in che modo si riproducono le unità economiche che danno vita (in questo caso) all’industria famigliare; e, in particolare, arrivare a comprendere le differenze sociali, il ruolo della donna, delle strategie matrimoniali e della trasmissione delle competenze; la vita degli strumenti di lavoro, le forme dell’abitare e del convivere. Il tutto condotto per via squisitamente orale, con la raccolta di documentazione e conoscenze dirette, costruite con gli attori locali.
Lo studio rende conto di queste due linee di sviluppo, ma esso non esaurisce le ulteriori comunità del parco. L’estensore del report potrà continuare l’analisi grazie ad una borsa dottorale della Sapienza di Roma e, alla fine del prossimo lavoro, vedremo meglio le altre realtà che dal report sono rimaste in sordina o non sono state ad oggi adeguatamente trattate.
Qualche riflessione ulteriore però è necessaria.
Conoscere un parco
Le critiche sono state rivolte al fatto che il report avrebbe ‘preferito’ solo alcune realtà sociali, sottintendendo che queste ultime siano d’accordo. In realtà, l’atteggiamento critico verso il parco non è prerogativa unica degli allevatori estensivi, ma anche degli altri attori. E questo il report bene lo evidenzia; e ben evidenzia il fatto che la costituzione del parco ha prodotto malumori e atteggiamenti ostili in tutto il secolo di vita che lo caratterizza.
Ora, se vogliamo vedere le cose in maniera cruda e realistica, un parco, sia pure semplificando, non può che essere oggetto di critiche. Ciò accade, perché rappresenta un livello di sintesi di diritti e di soddisfazione di bisogni, mai pari alle aspettative dei singoli, e perché può raggiungere uno status stabile solo quando le sue culture costitutive convergono su una visione complessiva (una ‘mission’ territoriale, non esente peraltro da ulteriori possibili cambiamenti) che va oltre i diritti dei singoli gruppi sociali. A volte, il costo da pagare è rinunciare a qualcosa. Solo una ragionata democrazia negoziata e un lavoro continuo di confronto permettono di superare i contrasti iniziali e in itinere.
Ne consegue che conoscere una realtà intimamente in movimento e spesso conflittuale richiede attenzione continua e pazienza. In questa sede farei l’elogio della cautela. La conoscenza è un’operazione faticosa; non fuoriesce dalla testa di Giove come la dea della saggezza. Essa assomiglia al mito di Sisifo, condannato a spingere ripetutamente un masso dalla valle alla sommità di un monte, per l’eternità. Insomma, la scienza si fonda su basi da rivedere continuamente, più che su fulminee illuminazioni.
Non voglio dire che la conoscenza sia un’astratta contemplazione del mondo, quanto sottolineare che l’analisi dei dati deve essere il più rigorosa possibile, e che questa operazione (di testa) non va scambiata con la valutazione etica (di cuore) che guida la ricostruzione antropologica.
Se nessuna conoscenza è imparziale e assoluta, perché esprime sempre un punto di vista, il compito della scienza è di rendere trasparente la propria prospettiva e metterla a confronto con le altre prospettive. Insomma, non c’è nessun punto di vista da cui vedere un intero mondo. E in questo noi siamo oltre la modernità.
Lo studio antropologico non è solo rigore oggettivistico, è anche stimolo per delineare altri futuri. Uno studio scientifico dei fatti sociali non esclude il momento dell’azione. E per azione si intende capire quali possibilità, fra le azioni di una cultura, possano risultare innovative e foriere di coesione o avanzamento. Ogni cultura ha possibilità di sopravvivere molto maggiori di quanto a prima vista appaia. L’antropologo può offrire materia su cui riflettere, senza cadere nel tradizionalismo o nel passatismo.
Se non esiste nessun punto di vista capace di comprendere totalmente un parco, non v’è nemmeno nessuna sintesi economica che rappresenti allo stesso modo tutte le parti del territorio. Dal punto di vista economico, il normale gioco degli attori interessati a trarre reddito proporzionale all’investimento impegnato (shareholders) non sempre si trasforma nel gioco di attori interessati a prendersi ‘cura’ dell’intero territorio (stakeholders) come istanza superiore.
Il convegno ha conosciuto una vivace polemica collegata alla salvaguardia dei diritti degli attori sociali a trarre reddito da risorse attuali. Il parco, a sua volta, non può non essere interessato alla situazione delle economie in crisi. Tra questi due poli si giocheranno i prossimi passi.
Non bisogna stupirsi della forte reazione al convegno, ma prendere atto di un giusta passione per la difesa e per l’attaccamento a favore del proprio territorio e della propria attività. Di tale sentimento il parco non può fare a meno. Benvenute quindi le critiche e benvenuto il dibattito, anche acre. Non bisogna lasciarsi fuorviare dalle forme concitate del dire e dell’argomentare, ma guardare alla sostanza che vi sta dietro.
Preme, però, soffermarsi su una questione particolare, su cui esprimo disaccordo: la semplicistica affermazione della bocciatura degli antropologi. Non si tratta del fatto che a nessuno piace essere rimandato a settembre o ripetere l’anno. Qui non si tratta di sapere o non sapere. Al contrario, con il loro lavoro gli antropologi hanno favorito un reale dibattito pubblico, svolgendo l’importante ruolo di indagare e portare a coscienza questioni e problemi che altrimenti rimarrebbero soltanto conflittuali. Laici per formazione e per carattere, gli antropologi non si sono soffermati alla superficie e possono dire, con un’espressione che ben si adatta al tema: ben scavato vecchia talpa!
Alessandro Simonicca, Sapienza Università di Roma