
(AGENPARL) – mar 18 luglio 2023 Le collane di Fondazione Veronesi – Parere del comitato etico
Madri domani
considerazioni etiche
sulla crioconservazione
degli ovociti
e sulla possibilità
di posticipare la maternità
PARERE DEL COMITATO ETICO
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
Madri domani
considerazioni etiche sulla crioconservazione degli ovociti
e sulla possibilità di posticipare la maternità
PARERE DEL COMITATO ETICO
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
Componenti del Comitato Etico
di Fondazione Umberto Veronesi
Carlo Alberto Redi, Presidente
Università degli Studi di Pavia e Accademia dei Lincei
Giuseppe Testa, Vicepresidente
Università degli Studi di Milano e Fondazione Human Technopole
Marco Annoni, Coordinatore
Centro Interdipartimentale per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca del CNR
e Fondazione Umberto Veronesi ETS
Guido Bosticco
Università degli Studi di Pavia
Roberto Defez
Istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR di Napoli
Domenico De Masi
Sapienza Università di Roma
Michela Matteoli
l’Humanitas University e Direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR
Telmo Pievani
Università degli Studi di Padova
Giuseppe Remuzzi
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS
Luigi Ripamonti
Medico e Responsabile Corriere Salute, Corriere della Sera
Giuliano Amato, Presidente Onorario
Giudice Costituzionale, già Presidente del Consiglio dei ministri
Cinzia Caporale, Presidente Onorario
Coordinatore del Centro Interdipartimentale per l’Etica
e l’Integrità nella Ricerca del CNR
Giorgio Macellari
Scuola di Specializzazione in Chirurgia di Parma
Emanuela Mancino
Università degli Studi Milano-Bicocca
Alberto Martinelli
Università degli studi di Milano e Presidente della Fondazione AEM
Data di pubblicazione 2023
PARERE DEL COMITATO ETICO
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
I Compiti del Comitato Etico
di Fondazione Umberto Veronesi
“La scienza è un’attività umana inclusiva, presuppone un percorso cooperativo verso una meta comune ed è nella scienza che gli ideali di libertà e pari dignità di tutti gli
individui hanno sempre trovato la loro costante realizzazione. La ricerca scientifica
è ricerca della verità, perseguimento di una descrizione imparziale dei fatti e luogo
di dialogo con l’altro attraverso critiche e confutazioni. Ha dunque una valenza etica
intrinseca e un valore sociale indiscutibile, è un bene umano fondamentale e produce costantemente altri beni umani.
Compiti del Comitato Etico saranno quello di dialogare con la Fondazione e con i
ricercatori, favorendo la crescita di una coscienza critica, e insieme quello di porsi
responsabilmente quali garanti terzi dei cittadini rispetto alle pratiche scientifiche,
guidati dai principi fondamentali condivisi a livello internazionale e tenendo nella
massima considerazione le differenze culturali”.
Il Comitato Etico
In particolare, la ricerca biomedica promuove beni umani irrinunciabili quale la salute e la vita stessa, e ha un’ispirazione propriamente umana poiché mira alla tutela
dei più deboli, le persone ammalate, contrastando talora la natura con la cultura e
con la ragione diretta alla piena realizzazione umana.
L’etica ha un ruolo cruciale nella scienza e deve sempre accompagnare il percorso di
ricerca piuttosto che precederlo o seguirlo. È uno strumento che un buon ricercatore usa quotidianamente.
La morale è anche l’unico raccordo tra scienziati e persone comuni, è il solo linguaggio condiviso possibile. Ci avvicina: quando si discute di valori, i ricercatori non sono
più esperti di noi. Semmai, sono le nostre prime sentinelle per i problemi etici emergenti e, storicamente, è proprio all’interno della comunità scientifica che si forma
la consapevolezza delle implicazioni morali delle tecnologie biomediche moderne.
Promuovere la scienza, come fa mirabilmente Fondazione Umberto Veronesi, significa proteggere l’esercizio di un diritto umano fondamentale, la libertà di perseguire
la conoscenza e il progresso, ma anche, più profondamente, significa favorire lo sviluppo di condizioni di vita migliori per tutti.
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LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
Sintesi
Introduzione1
1 -> La crioconservazione degli ovociti consente alle donne di preservare la propria
fertilità a fronte di eventuali malattie ereditarie o acquisite, di trattamenti medici
che potrebbero comprometterla, o del naturale declino della capacità riproduttiva
dovuto all’età;
La “crioconservazione pianificata degli ovociti” rappresenta una delle frontiere
più recenti e inte-ressanti per le tecniche di procreazione medicalmente assistita
(PMA) che sono già disponibili2. Questo insieme di tecniche permette alle donne di
conservare i propri ovociti – e, dunque, la pro-pria capacità riproduttiva – in previsione dell’eventuale futura impossibilità o difficoltà di concepire un figlio a causa di una
patologia, di un trauma, o del naturale declino della fertilità dovuto all’età.
Gli ovociti vengono prelevati dopo il ricorso a cicli di stimolazione ovarica,
per essere poi conservati a temperature molto basse (“crioconservati” in azoto liquido) in apposite biobanche, mantenendoli inalterati nel tempo (anni, o decenni).
Tramite la fecondazione in vitro, questi ovociti possono essere inseminati con un
gamete maschile, – fresco o crioconservato, da partner o donatore – per ottenere
un embrione da impiantare nell’utero materno. Una donna può così concepire un
proprio figlio biologico anche dopo essere diventata infertile o ipofertile.
Storicamente, la possibilità di differire nel tempo la maternità era già stata
introdotta grazie a diverse forme di contraccezione che sono emerse nel corso della
storia dell’umanità, e di cui le prime testimonianze risalgono fino all’antico Egitto.
Tuttavia, la contraccezione su basi propriamente scientifiche è più recente e risale
al secolo scorso, quando sono stati scoperti i farmaci a base ormonale come la pillola anticoncezionale. A partire dai primi anni ’60, l’accesso a queste e altre forme
di contraccezione ha permesso alle donne di esercitare una maggiore autonomia
rispetto alle proprie scelte riproduttive, tracciando cambiamenti profondi sul piano
socioculturale e contribuendo all’affermazione dei diritti civili e alla riduzione delle
diseguaglianze di genere.
Mentre la contraccezione consapevole ha finora permesso alle donne di
evitare gravidanze non pianificate, la criopreservazione degli ovociti offre dunque
una nuova libertà: preservare in modo programmato la propria capacità riproduttiva,
in vista di un progetto esistenziale, andando oltre la perdita incidentale o naturale
della fertilità. Questa possibilità è piuttosto recente. Anche se la prima gravidanza
da un ovocita congelato risale al 1986, solo negli ultimi anni l’uso di queste tecniche
ha cominciato a diffondersi grazie a due fattori3. Il primo è stato lo sviluppo della “vitrificazione”, una tecnica ultrarapida di congelamento che ha migliorato significativamente l’efficacia e il successo delle tecniche di PMA con ovociti ed embrioni criopreservati4. Perfezionata nel 2015, la vitrificazione permette di minimizzare i danni a
2 -> Queste tecniche permettono di espandere l’autonomia riproduttiva e ridurre
alcune diseguaglianze di genere dovute sia alla differente durata della propria finestra riproduttiva, sia a norme e fattori contestuali e sociali;
3 -> Allo stato attuale delle conoscenze, i nati da ovociti criopreservati non presentano anomalie congenite o rischi per la salute superiori rispetto ai nati da ovociti
ottenuti dopo stimolazione ormonale tramite tecniche di fecondazione in vitro. Secondo le evidenze, i rischi per la salute delle donne sono contenuti e legati soprattutto ai cicli di stimolazione ovarica necessari al pick up (prelievo)degli ovociti;
4 -> La scelta di ricorrere alla crioconservazione degli ovociti riguarda l’autonomia di
ogni singola donna e necessita la sottoscrizione di un consenso informato valido. I
professionisti sanitari hanno l’obbligo sia di evitare qualsiasi ingerenza o pressione
indebita, sia di fornire tutte le informazioni necessarie riguardo ai rischi, l’efficacia,
lo stato delle evidenze disponibili, le scelte da compiere sul destino degli ovociti
eventualmente inutilizzati e le possibili alternative alla genitorialità;
5 -> La crioconservazione degli ovociti è eticamente ammissibile anche nei casi in
cui consente di procreare responsabilmente in prossimità e oltre i limiti della propria
naturale fertilità, segnatamente le donne che attraversano la fase di subfertilità che
precede la menopausa;
6 -> Diverse barriere impediscono l’accesso alla crioconservazione pianificata degli ovociti, tra cui: la mancanza di informazione rispetto all’esistenza, disponibilità
e caratteristiche di queste tecniche; le disparità rispetto alle patologie che danno
diritto a ottenere un rimborso per accedere a queste tecniche tramite il Servizio Sanitario nazionale; le diseguaglianze regionali rispetto all’età massima per accedere
ai percorsi di procreazione medicalmente assistita.
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livello cellulare del congelamento e, quindi, diminuire il numero di ovociti necessari
per avere una buona probabilità di concepire e procreare.
Il secondo fattore è stato il progresso degli studi scientifici in merito alla
sicurezza, al rischio e all’efficacia di queste tecniche. Dopo anni di sperimentazione,
nel 2012, l’American Society for Reproductive Medicine (ASRM) ha pubblicamente
dichiarato che, in base alle evidenze disponibili, la criopreservazione degli ovociti
non andava più considerata una “tecnica sperimentale”5. La raccomandazione, allora, era di limitarne l’uso solo alle donne che stavano per sottoporsi a terapie mediche che avrebbero potuto comprometterne la fertilità – come, ad esempio, la chemioterapia o la radioterapia per la cura dei tumori. Nel 2014 la ASRM ha però rivisto
questa sua posizione alla luce di ulteriori studi, arrivando a definire la criopreservazione degli ovociti come una tecnica standard “al servizio di tutte le donne che
vogliono provare a proteggersi da una futura infertilità a causa dell’invecchiamento
riproduttivo o di altre cause”. Negli stessi anni anche la European Society for Human
Reproduction and Embryology (ESHRE) ha approvato l’uso della conservazione pianificazione degli ovociti per la preservazione della fertilità6.
Da allora, l’offerta di servizi pubblici e privati per la conservazione degli ovociti è cresciuta in modo esponenziale. Secondo uno studio, tra il 2019 e il 2021, solo
negli Stati Uniti, il ricorso a questa tecnica è aumentato del 39%7. La conservazione
degli ovociti è già disponibile anche in Italia nei centri di PMA di secondo e terzo
livello accreditati presso il Servizio Sanitario Nazionale e presso diverse strutture
private, ed è accessibile sia per ragioni strettamente mediche che di altra natura.
In tale contesto, il presente parere del Comitato Etico della Fondazione
Umberto Veronesi intende analizzare le principali questioni bioetiche relative alla
conservazione pianificata degli ovociti. Secondo il Comitato Etico della Fondazione
Veronesi, non solo la conservazione degli ovociti è una pratica eticamente lecita,
anche in quei casi in cui permette di procreare responsabilmente in prossimità e
oltre il limite naturale della fertilità, ma la consapevolezza circa l’esistenza di questa
tecnica presso la popolazione civile andrebbe maggiormente incoraggiata, unitamente a un impegno più deciso a sostegno della ricerca scientifica. Promuovere
una migliore conoscenza dei profili di sicurezza, rischio ed efficacia di queste tecniche, nonché una migliore conoscenza di quali siano le opportunità procreative che
il progresso biomedico offre oggi, significa, infatti, compiere un passo importante
a tutela di una delle libertà fondamentali per ogni essere umano: poter decidere, in
modo autonomo e consapevole, se, quando e come diventare genitore.
PARERE DEL COMITATO ETICO
La criopreservazione degli ovociti
tra emergenza clinica
e pianificazione consapevole
Il progresso in campo oncologico è stato uno dei fattori decisivi per lo sviluppo di
tecniche sempre più efficienti di conservazione degli ovociti8. Grazie alla ricerca
scientifica, infatti, negli ultimi anni la sopravvivenza dopo una diagnosi di tumore
è migliorata significativamente. Per alcune neoplasie come il tumore al seno, la
percentuale di persone in vita a cinque anni da una diagnosi precoce sfiora il 90%,
come ricordato anche nell’ultimo parere del Comitato Etico a favore del riconoscimento di un “diritto all’oblio oncologico”9. Tuttavia, molti trattamenti per la cura dei
tumori pos-sono compromettere la fertilità10. Sia la radioterapia che la chemioterapia, infatti, sono terapie potenzialmente “gonadotossiche” che possono danneggiare le ovaie. Per questo motivo, nel passato recente, diventare madri dopo essere
guarite da un tumore era quasi impossibile. Oggi, invece, dopo la diagnosi, ma prima
di sottoporsi alle terapie, le donne in età fertile possono sottoporsi al prelievo degli
ovociti (o di tessuto ovarico) per conservarli ed eventualmente utilizzarli, se lo desiderano, dopo aver completato il ciclo di cure, una volta superata la malattia, o in
un futuro più lontano11.
I tumori non sono però le uniche malattie per cui si ricorre a terapie salvavita potenzialmente gonadotossiche. Alcune malattie autoimmuni o del sangue
come l’artrite reumatoide, il Lupus, la dermatomiosite, l’anemia emolitica e la trombocitopenia autoimmuni, infatti, richiedono di sottoporsi a cicli di chemioterapia e,
pertanto, presentano gli stessi rischi per la fertilità delle terapie oncologiche. Anche per le donne colpite da queste patologie la criopreservazione degli ovociti offre
non solo un modo di preservare la propria capacità riproduttiva oltre la malattia, ma
anche uno strumento per non sentirsi deprivate, dopo la diagnosi, di un eventuale
futuro come madri. In questo senso, la sola esistenza della possibilità di conservare
gli ovociti rappresenta un sostegno concreto sul piano esistenziale, psicologico ed
emotivo per chi riceve una diagnosi.
Ancora poco diffuso, ma non per questo meno importante, è poi il ricorso alla conservazione degli ovociti a causa di patologie non fatali ma che possono
comunque compromettere la fertilità come l’endometriosi, una patologia ginecologica cronica legata alla presenza di tessuto endometriale al di fuori dell’utero, la
quale colpisce tra il 10 e il 15% delle donne12. L’endometriosi può ridurre notevolmente la fertilità e, nei casi più gravi, può portare anche alla isterectomia (rimozione
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chirurgica dell’utero) o ovariectomia (rimozione chirurgica delle ovaie). In molti casi,
le donne affette da endometriosi hanno però un normale ciclo ovarico. In modo simile, esistono molte altre patologie sistemiche che pur in presenza di un apparato
riproduttivo normale non consentono di condurre una gravidanza sicura: tra queste vi sono diverse patologie cardiache acquisite o congenite, dell’apparato osseo,
renale o nervoso e molte altre condizioni che sono incompatibili con la gravidanza
nonostante la presenza di ovociti sani. In tutti questi casi è possibile ricorrere al prelievo degli ovociti (che possono essere poi criopreservati o meno), e poi alla fecondazione in vitro unitamente alla “gestazione per altri” (GPA) per concepire un figlio
biologicamente proprio13.
Altre condizioni possono poi giustificare il ricorso alla conservazione degli ovociti anche in assenza di una diagnosi di malattia già conclamata. Le donne
che ereditano la mutazione a carico dei geni BRCA1 e BRAC2, ad esempio, hanno
un rischio molto più alto di sviluppare nel corso della vita tumori al seno e alle ovaie. In alcuni casi, queste persone scelgono di sottoporsi a interventi preventivi per
asportare questi tessuti e ridurre così il proprio rischio futuro. Di nuovo, sapere che
è possibile conservare i propri ovociti prima di sottoporsi a queste procedure può
modificare in modo significativo il panorama delle scelte terapeutiche e riproduttive
delle persone portatrici di queste e di altre patologie genetiche ereditarie.
Infine, vi sono altre condizioni – come la “menopausa precoce” (definita come l’insorgenza della menopausa prima dei 40 anni) –, che comportano una finestra riproduttiva anormale per du-rata o altri aspetti, oppure condizioni idiopatiche che
possono rendere una donna infertile senza avere cause conosciute. Anche in questi
casi, la conservazione degli ovociti offre la possibilità, prima inedita, di preservare la
propria capacità riproduttiva nella prospettiva di una sua perdita prematura.
Accanto a queste motivazioni legate a una diagnosi o alla presenza di mutazioni e condizioni particolari, però, la conservazione degli ovociti offre la possibilità di posticipare la maternità anche alle donne che intendono preservare la propria fertilità per altri motivi. Naturalmente, queste motivazioni sono tanto diverse
quante sono le persone che compiono tale scelta. Secondo gli studi, però, le motivazioni prevalenti di chi ricorre a queste tecniche sono: (i) l’assenza di un partner;
(ii) la necessità di posticipare la maternità per completare un percorso di studi o di
formazione, oppure per concentrarsi sul lavoro in una fase decisiva per la propria
carriera; (iii) la scelta di posticipare la maternità in futuro in attesa di essere più stabili a livello professionale, economico, sociale o personale; (iv) l’agire ora per salvaguardare un eventuale desiderio di genitorialità futuro a fronte dell’età14. Scorrendo
tra tali motivazioni, emerge come, insieme ad una riflessione sull’opportunità della
crioconservazione, sia quanto mai opportuna un’ampia ed approfondita riflessione
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sulla relazione tra il soggetto femminile e la progettazione esistenziale connessa al
vissuto del tempo, delle dinamiche affettiva, relazionali e sociali e soprattutto alla
genitorialità. Si tratta di aspetti socioantropologici non secondari che confluiscono
nello spazio delle esperienze, dei vissuti e dei desideri dei singoli e che non possono non essere oggetto di riflessione (e di azioni), qualora si consideri il gesto della
conservazione come un’opzione di differimento del pensarsi genitori.
Il corpo femminile sperimenta un vissuto che lo espone al confronto con
il limite, soprattutto relativamente al potenziale riproduttivo che assume il termine (desunto da una metafora economica che richiederebbe pensiero e, auspicabilmente, revisioni) di “riserva ovarica”15. La componente di cura della dimensione
simbolica del differimento generativo non può prescindere da una formazione del
soggetto (quindi un’opportunità affine e da affiancarsi all’intervento della scienza
medica) che si occupi dell’orizzonte delle attese.
In un contesto sociale nel quale il picco della fertilità femminile (raggiunto, tipicamente, tra i 20 e i 30 anni) in molti casi non coincide con una condizione di sufficiente stabilità relaziona-le e professionale, la CPO (“conservazione pianificata degli
ovociti”) consente di ridurre questo divario posticipando la maternità a un’età nella
quale si è raggiunta una condizione più favorevole alla genitorialità ma nella quale
è sempre più difficile concepire a causa del declino della fertilità e dell’esaurimento
della propria riserva ovarica. Ogni donna dotata di un funzionale apparato riproduttivo, infatti, possiede un certo numero di ovociti determinato alla nascita e diverso
per ciascuna. Esaurita tale “riserva ovarica”, attualmente non esiste altro modo di
concepire se non tramite la procreazione medicalmente assistita, la quale richiede
un ovocita donato da una persona terza, oppure la conservazione omologa dei propri ovociti prima del loro effettivo esaurimento16.
Oltre al fatto di posticipare la maternità per sé, la crioconservazione degli
ovociti rappresenta anche una tecnica efficace per diminuire il rischio di anomalie
cromosomiche e genetiche per quelle donne che sono ancora fertili ma scelgono
di procreare in età avanzata. Concepire dopo i 35 anni, infatti, incrementa in modo
significativo il rischio che il nascituro possa sviluppare anomalie genetiche – tra
cui la trisomia 21, responsabile per circa il 95% dei casi di Sindrome di Down17. In
alcuni casi, tali anomalie sono incompatibili con il normale sviluppo del feto e con
la sua sopravvivenza. Riscontrare una o più anomalie genetiche gravi può portare una donna a confrontarsi con scelte difficili non solo sul piano terapeutico ma
anche su quello etico, laddove tale riscontro può portare a considerare il ricorso
all’interruzione della gravidanza. Crioconservando i propri ovociti quando sono ancora giovani è invece possibile ridurre o eliminare il rischio aggiuntivo di anomalie
cromosomiche e genetiche che deriva dal concepire in età avanzata.
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Secondo gli studi, infatti, l’incidenza delle anomalie cromosomiche e genetiche dipende più dall’età dell’ovocita che dall’età della donna.
La conservazione degli ovociti è, infine, utile o indispensabile anche per
le coppie omosessuali che vogliono condividere un progetto di genitorialità. Per le
coppie formate da due donne, ad esempio, può essere necessario conservare i propri ovociti nell’attesa di un donatore di sperma, mentre per le coppie formate da due
uomini, invece, ricorrere a degli ovociti criopreservati e donati può essere l’unica opzione se non esiste una donatrice di ovociti disponibile18.
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Infertilità,
non-volontarietà e terminologia
Nel dibattito si tende spesso a distinguere tra la criopreservazione degli ovociti
per ragioni mediche (ad esempio, dopo una diagnosi di tumore) da quella per ragioni “personali”, “elettive”, o “sociali” (ad esempio, per prevenire l’infertilità causata
dall’avanzamento dall’età).
In questo parere, si è scelto invece di utilizzare solo una terminologia generica, indicando il complesso di tecniche che consiste nel conservare a basse
temperature i propri ovociti per fini riproduttivi con la dicitura neutra “crioconservazione pianificata degli ovociti” (o semplicemente “conservazione pianificata degli
ovociti”, abbreviata in “CPO”).
A parere del Comitato Etico, questa opzione è preferibile per tre ragioni. La prima è
che, come si chiarirà più avanti, molte delle questioni bioetiche fondamentali sono
comuni a tutti i percorsi di CPO, a prescindere dalle motivazioni di fondo e dal contesto di riferimento. Ai fini di questo parere, dunque, è più sensato adottare un termine generale che abbraccia la CPO sia dopo una diagnosi, sia come espressione di
una scelta che riguarda il proprio futuro riproduttivo19.
La seconda ragione consiste poi nel condividere alcune posizioni critiche
secondo cui le terminologie comunemente utilizzate per indicare la CPO al di fuori
di contesti strettamente medici (ad esempio, “social freezing”), possono implicitamente sminuire il valore di scelte personali compiute per prevenire una condizione
non volontaria come l’infertilità. Per molte donne oltre i trent’anni, infatti, decidere
a favore di un’eventuale maternità differita può rappresentare una necessità – ad
esempio, perché attualmente prive di partner o dei mezzi economici sufficienti a
sostenere una famiglia – in vista della futura perdita della fertilità legata all’avanzamento dell’età.
Infine, la terza ragione deriva dal fatto che il concetto di “infertilità” può essere inteso in senso più o meno patologico e medicalizzato a seconda dei quadri
teorici di riferimento o del contesto20. Come avviene anche per altre distinzioni bioetiche (tra cui, ad esempio, quella tra “terapia” e “potenziamento”), il progresso della tecnica ridisegna e sfuma i confini di concetti e categorie un tempo rigidamente
separate, con il risultato che tali strumenti concettuali diventano nel tempo sempre
meno adeguati per riferirsi ai nuovi fenomeni che sono emersi nel frattempo.
A parere del Comitato Etico è dunque sempre preferibile utilizzare una terminologia generica come “conservazione pianificata degli ovociti” per riferirsi all’in15
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sieme di tecniche oggetto di questo parere, specificando il contesto e le motivazioni solo nel caso in cui ciò sia utile a definire con maggiore precisione le implicazioni
bioetiche che posso verificarsi nei vari scenari.
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Principali questioni bioetiche
relative alla criopreservazione
degli ovociti
Come ogni nuova biotecnologia che ha un impatto concreto sulle scelte di vita delle
persone, anche la criopreservazione degli ovociti solleva un insieme di importanti
e complesse questioni bioetiche, biogiuridiche e biopolitiche, le quali riguardano:
(i) la sicurezza e i rischi di queste tecniche; (ii) il rispetto e la promozione dell’autonomia riproduttiva e le scelte sul destino degli ovociti eventualmente inutilizzati,
(iii) l’esistenza di nuovi possibili fattori di pressione indebita sulle scelte riproduttive; (iv) le diseguaglianze di genere e socio-economiche nell’accesso a queste
procedure; (v) le implicazioni morali connesse al posticipare la genitorialità oltre il
naturale limite della propria fertilità legato all’età, sia dal punto di vista della salute e
del benessere delle madri e dei nascituri, sia da punto di vista di considerazioni più
generali che riguardano questioni di giustizia intergenerazionale.
Il resto del presente parere intende affrontare questi diversi aspetti della CPO con il doppio proposito generale, da una parte, di promuovere una corretta
informazione riguardo alle principali caratteristiche e implicazioni etiche di queste
tecniche e, dall’altra, di facilitare un migliore dibattito bioetico che possa coinvolgere la cittadinanza, i decisori politici e i professionisti sanitari.
4.1 I rischi delle tecniche di CPO per le donne, i nascituri e gli embrioni
Un primo aspetto rilevante relativo alla conservazione degli ovociti riguarda l’invasività e i rischi di queste tecniche, e dunque il principio bioetico di non-maleficenza.
Se i rischi per la salute delle donne e dei nascituri legati a queste tecniche fossero
significativi, o comunque maggiori rispetto ad altre tecniche, ciò costituirebbe una
buona ragione prima facie per limitarne l’uso, oppure per preferire, a parità di condizioni, altri metodi per preservare la fertilità e per concepire.
I dati e le evidenze disponibili suggeriscono però che le tecniche per la
CPO sono relativamente sicure e comportano rischi accettabili se non minimi per
la salute delle donne, dei nascituri, nonché per gli embrioni. Molte delle tecniche
principali utilizzate per i percorsi di CPO (stimolazione ovarica, prelievo degli ovociti, etc.) e di PMA, infatti, sono note e utilizzate da tempo, tanto da non essere più
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considerate procedure “sperimentali” ma “standard” già da diversi anni.
Secondo gli studi, il rischio maggiore per le donne che si sottopongono
alla CPO è relativo ai cicli di stimolazione ovarica che precedono il pick up degli
ovociti. La sindrome da iperstimola-zione ovarica è l’effetto avverso più comune di
queste procedure ed ha effetti collaterali lievi o moderati nel 3-6% dei casi, mentre
può avere effetti collaterali più gravi nel 1-3% dei casi. Per ot-tenere la maturazione
contemporanea di più follicoli ovarici, al fine di disporre di più ovociti utili ad essere
fecondati, occorre sottoporsi a più cicli di stimolazione ovarica e questo è un fattore
che incide sui rischi e sui costi complessivi. Rispetto agli effetti sul medio e lungo
periodo, inoltre, studi molto recenti hanno escluso un legame tra la stimolazione
ovarica con le gonadotropine un incremento nel rischio di sviluppare tumori all’utero e al seno . Per quanto riguarda l’invasività della procedura, invece, essa non è
maggiore di quella che viene praticata per la donazione degli ovociti, una procedura
comunemente praticata e che le donne intraprendono senza avere alcun beneficio
diretto in termini di salute. Infine, successivamente al prelievo è frequente avvertire
per alcune ore un senso di stanchezza e di spossatezza22.
La stima definitiva del rischio della CPO per la salute è, tuttavia, ancora limitata dalla mancanza di dati conclusivi23. Alcune tecniche come la vitrificazione, infatti, sono ancora relativamente recenti e, pertanto, sono necessari più dati e studi
con campioni più numerosi per riuscire a stimarne con relativa certezza il rapporto
tra rischi, efficacia e benefici. Questi studi, però, richiedono tempo e risorse. Occorre aspettare anni prima sia che le donne che hanno conservato i propri ovociti li
utilizzino, sia che i bambini nati dopo CPO possano crescere in modo tale da poter
essere comparati con il resto della popolazione per il loro stato di salute e sviluppo.
Nonostante i dati incoraggianti, dunque, è importante continuare a investire nella
ricerca scientifica per chiarire ulteriormente i profili di rischio, sicurezza ed efficacia
di queste tecniche al fine di chiarire alcuni aspetti essenziali che ne riguardano gli
effetti sul medio e lungo periodo.
Più solide sono invece le evidenze che riguardano lo stato degli embrioni e
dei nascituri concepiti con queste tecniche. Secondo diversi studi, gli embrioni ottenuti da ovociti criopreservati tramite vitrificazione sono comparabili per percentuale di fertilizzazione, impianto e gravidanze portate a termine rispetto a quelli ottenuti da donatrici sane dopo superovulazione ormonale24. I bambini nati tramite CPO
non presentano percentuali di anomalie congenite superiori a quelli di altri bambini
nati tramite altre tecniche di PMA. Recentemente, alcuni studi hanno evidenziato
la possibilità che i bambini nati tramite fecondazione in vitro abbiano un rischio di
effetti metabolici e cardiovascolari leggermente maggiore rispetto ai bambini senza
ricorso alla FIV, ma il dibattito è ancora in corso . Per questo motivo, alcune associa18
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zioni e linee guida suggeriscono comunque cautela nel ricorso alla fecondazione in
vitro quando non è necessaria.
Se i rischi per la salute dei nascituri sono minimi e comunque equivalenti
a quelli dei nati tramite altre tecniche di procreazione medicalmente assistita, da
questo punto di vista non esiste dunque alcuna buona ragione per limitare il ricorso
della conservazione pianificata degli ovociti per fini riproduttivi rispetto ad altre tecniche di PMA che oggi sono già ampiamente promosse e utilizzate.
4.2 Autonomia riproduttiva, consenso informato
e gestione futura degli ovociti
L’argomento più robusto a sostegno delle tecniche di CPO riguarda la difesa e l’espansione dell’autonomia riproduttiva delle donne sotto due aspetti26. Il primo riguarda la possibilità reale di posticipare la maternità, mantenendo condizioni favorevoli in termini di numero e qualità degli ovociti, e riuscire così a organizzare e
pianificare con maggiore libertà la propria vita presente e futura a livello educativo,
professionale, economico, sociale, psicologico, emotivo e relazionale. Ricorrendo
alla CPO, una donna può decidere di differire nel tempo un evento importante come
la maternità, avendo la possibilità di riallineare le proprie necessità nel presente con
un progetto di genitorialità nel futuro secondo i propri valori, principi, credenze e
obiettivi.
Il secondo aspetto riguarda, invece, i vantaggi della CPO per l’autonomia
delle donne che intraprendono percorsi di PMA. Avere a disposizione i propri ovociti, infatti, permette alle donne di non dover ricorrere a ovociti donati, evitando così
costi e procedure ulteriori e di avere, se lo si desidera, un legame genetico con il
nascituro. Inoltre, la CPO permette alle donne di non essere più legate al partner che
avevano quando hanno preservato i gameti, a differenza di quanto avviene invece
nel caso di embrioni concepiti con la FIV ( la “fecondazione in vitro”) e poi criopreservati. Grazie alla CPO, la preservazione dei propri gameti per fini riproduttivi viene
infatti resa indipen-dente, e dunque più libera, rispetto al consenso o all’esistenza di
un altro partner al momento in cui ci si sottopone al prelievo.
Questo ultimo aspetto è rilevante anche per il rispetto dell’autonomia di
quelle donne (e di quelle coppie) che ritengono moralmente problematici l’ottenimento e la criopreservazione di embrioni i quali, qualora non fossero impiantati,
dovrebbero essere donati, eliminati, o eventualmente utilizzati per scopi di ricerca
scientifica. Preservando i gameti separatamente, invece, tali questioni bioetiche
semplicemente non sussistono visto che non esistono argomenti convincenti per
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assegnare uno statuto morale ai gameti prima che avvenga il concepimento, anche
se, naturalmente, esistono comunque una serie di questioni bioetiche legate al loro
utilizzo.
Un argomento “cautelativo” molto comune è che la CPO, specialmente al di fuori dei
contesti strettamente medici, può danneggiare le donne dando loro un “falso senso
di sicurezza” rispetto alla possibilità di concepire, facilitando così un atteggiamento
“compiacente” nei confronti della perdita della fertilità27. Criopreservare i propri ovociti, infatti, non offre la certezza di riuscire a concepire e procreare un figlio, ma solo
una ragionevole probabilità in questo senso.
Per quanto riguarda il successo procreativo della CPO, esso dipende da più
fattori, tra cui l il momento in cui sono stati criopreservati gli ovociti, il loro numero
e l’età della donna. Secondo i dati attuali con 24 ovociti si ha un “cumulative live birth rate” (o CLBR, un indice del successo totale di procreazione) rispettivamente di
oltre il 90%, e dell’85.2% per 10-15 ovociti utilizzati – se questi sono stati prelevati e
conservati prima dei 35 anni di età . La conservazione di 10 ovociti offre una probabilità di una nascita per ogni ovocita del 60.5% per le donne sotto i 35 anni, ma di solo
il 29.7% per quelle oltre i 35 anni28. Può dunque accadere che, nonostante la disponibilità di un certo numero di ovociti conservati, questi non siano comunque sufficienti a portare a termine una gravidanza. Esiste dunque il rischio che chi sceglie la
CPO non abbia compreso in modo corretto i profili di efficacia di queste tecniche e
di sovrastimarne l’efficacia, come per altro confermato da alcuni studi.
Tuttavia, il metodo per limitare questo rischio non è restringere l’accesso a
queste tecniche al di fuori di contesti emergenziali o clinici ma, semmai, prevedere
percorsi adeguati di consenso informato affinché ogni donna abbia la possibilità di
conoscere tutti gli aspetti necessari a prendere una decisione pienamente autonoma. L’argomento del “falso senso di sicurezza” è, semmai, un argomento contro la
cattiva informazione e il mancato rispetto dell’autonomia, non contro la CPO.
In questo senso, il dovere etico di rispettare l’autonomia decisionale delle
donne da parte dei professionisti sanitari è perlomeno duplice. Da una parte, infatti,
si tratta di rispettare il dovere positivo di fornire tutte le informazioni necessarie al
fine di compiere scelte adeguatamente informate. Nel caso della CPO, questo significa, in primo luogo, comunicare in modo dettagliato e preciso tutti i potenziali rischi di questa procedura per la salute della donna. Oltre ai rischi, però, vi sono
anche altre informazioni essenziali, le quali riguardano: (i) i dati relativi all’efficacia
e al successo rispetto alla condizione ed età della donna; (ii) i maggiori rischi per
la salute della donna e dei nascituri legati a una maternità in età più avanzata; (iii)
i costi complessivi della procedura; (iv) le possibili alternative che esistono per la
genitorialità; (v) la mancanza di studi che riportino gli effetti di queste tecniche sul
PARERE DEL COMITATO ETICO
medio e lungo periodo. Inoltre, ciò significa anche favorire un’adeguata comprensione permettendo alla persona di avere il tempo di valutare le proprie scelte, la
possibilità di porre domande e chiarire eventuali dubbi e, se utile, di accedere a dei
percorsi di counselling. Questi aspetti sono particolarmente importanti nel caso di
servizi che offrono la CPO privatamente, come servizio a pagamento, e per i quali
esiste il rischio di un marketing troppo aggressivo e ingannevole.
Dall’altra parte, invece, i professionisti sanitari hanno anche il dovere negativo di non intervenire impedendo o indirizzando in modo coercitivo le scelte delle
donne che valutano il ricorso alla CPO. Questo aspetto è essenziale: all’interno dei
confini permessi dalla legge, non spetta al medico o al professionista sanitario decidere né se è opportuno per una donna ricorrere a queste tecniche per conservare
e/o utilizzarli i propri ovociti come parte di un processo di PMA, né valutare i motivi
intimi e personali che portano a tali scelte. Queste decisioni, infatti, spettano sempre e solo alle donne stesse. Analogamente, è indispensabile prevedere dei percorsi strutturati e opzionali di informazione e counselling per le donne che ne fanno
richiesta e potrebbero beneficiarne.
Infine, come parte del processo di consenso informato prima di intraprendere la CPO, è necessario che la donna sia informata per decidere sul futuro dei
propri ovociti eventualmente inutilizzati. La percentuale di ovociti utilizzati dopo la
criopreservazione è stimata tra il 6 e il 20% del totale, a seconda degli studi, anche
se questi dati devono essere considerati provvisori in attesa di campioni più numerosi29. Tra le motivazioni principali emerse per non aver utilizzato i propri ovociti vi
sono: (i) il non aver trovato un partner; (ii) il non volersi rivolgere a un donatore sconosciuto; e (iii) l’aver già concepito in modo tradizionale. È dunque importante che
durante il processo che porta al consenso informato le donne decidano anche sul
destino di possibili ovociti criopreservati ma potenzialmente inutilizzati. Ogni donna deve essere informata della possibilità di poter: (a) donare questi ovociti a terzi
in modo solidale per processi di PMA; (b) donare questi ovociti per scopi di ricerca
scientifica; (c) distruggere gli ovociti dopo un tempo prestabilito; (d) poter cambiare
idea nel corso del tempo rispetto a quale fine destinare gli ovociti. Inoltre, deve anche essere informata dell’impossibilità, stabilita dalla legge, di utilizzare tali ovociti
per concepire un embrione post-mortem, e cioè nel caso in cui la donna a cui appartengono gli ovociti, o l’uomo a cui appartengono i gameti maschili, sia nel frattempo
deceduto. Naturalmente, non esiste alcun obbligo, a livello normativo o morale, di
utilizzare gli ovociti che si è scelto in passato di conservare.
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
Affinché un consenso informato sia valido esso deve essere il frutto di una scelta
sufficientemente autonoma30. Generalmente, una scelta può essere definita tale se
soddisfa tre condizioni. Primo, deve essere una scelta “intenzionale”, e cioè non accidentale. Secondo, deve essere una scel-ta “competente”, e cioè adeguatamente
informata e ragionata. Terzo, deve essere una scelta “volontaria”, e cioè non influenzata né da fattori esterni come la coercizione e la manipolazione, né da fattori interni
come una dipendenza o una malattia mentale. Diversi fattori possono però in-fluire
sul rispetto e soddisfacimento di queste condizioni, potenzialmente compromettendo l’autonomia di chi sceglie di ricorrere alla CPO senza per questo inficiare la
sua capacità di compiere una scelta puntuale che, a livello superficiale, può apparire
sufficientemente autonoma.
Fattori di questo tipo includono, ad esempio, i valori, le aspettative, i ruoli
di genere o professionali, i quali possono influire sull’autonomia personale attraverso processi di interiorizzazione e pressione sociale. Relativamente alla CPO, un
esempio di tali processi potrebbe verificarsi nel caso di programmi di welfare e benefit aziendali che prevedono la possibilità di ottenere rimborsi totali o parziali per
le dipendenti che scelgono la CPO. Recentemente, diverse aziende hanno introdotto questa possibilità, tra queste figurano Apple e Google. Da una parte questi programmi offrono un beneficio, perché facilitano certamente l’accesso alla CPO anche per donne che, al di fuori di essi, non avrebbero compiuto tali scelte per ragioni
economiche o di altra natura. Dall’altra parte, però, l’esistenza stessa di questi programmi può incidere sulle scelte delle donne cui sono rivolti, creando di fatto nuove
forme di pressione rispetto a norme sociali più o meno implicite. Tali programmi (che
risultano offerti solo ad un segmento particolare di donne lavoratrici) potrebbero
essere interpretati, ad esempio, come un invito indiretto a posticipare la maternità
a favore di un impegno maggiormente rivolto agli impegni presenti e sull’affermazione a livello professionale in una certa fase della vita. Inoltre, anche la scelta di non
usufruire di queste opzioni potrebbe essere interpretata come il segno di scarsa
ambizione, oppure come un rischio per l’azienda, perché potrebbe indicare la decisione di cercare, da lì a poco, una gravidanza. In altri termini, la sola esistenza di
questi programmi di welfare modifica inevitabilmente il contesto decisionale delle
donne cui tali programmi sono rivolti. Tale mutato contesto può tradursi, a sua volta, in nuovi fattori di pressione performativa. In questo modo, è possibile influenzare
l’autonomia delle donne (intesa come la capacità in senso ampio di costruire una
vita autonoma) senza però intaccare la loro autonomia decisionale (intesa come la
capacità di compiere una singola scelta che sia sufficientemente autonoma).
PARERE DEL COMITATO ETICO
Su una scala più generale, lo stesso fenomeno si presenta anche a livello sociale,
laddove la disponibilità di una tecnica come la CPO inevitabilmente ridisegna l’insieme delle aspettative e delle norme sociali in merito a ciò che una donna potrebbe o
non potrebbe fare rispetto al proprio corpo, alla propria capacità riproduttiva e, più
in generale, alla propria vita.
È chiaro che, laddove si offrano opportunità ritenute benefit a corollario di
un profilo professionale, appare necessario vigilare sulla possibile modellizzazione
delle vite e dei corpi e sulle aspettative economiche connesse all’efficienza lavorativa (non solo tacitamente legata all’impiego), a confronto con il rischio di una possibile deroga, da parte delle aziende, nell’adattare le proprie scelte ai bisogni della
donna che non scelga la crioconservazione (ne potrebbe derivare l’implicito messaggio per cui la maternità sia incompatibile con il lavoro o viceversa). Inoltre, non
vanno sottovalutate analisi che colgano una sorta di nuova (o dai contorni inediti)
prospettiva epistemica che intreccia il territorio della biologia con quello della temporalità e del governo del corpo.
Sebbene tali rischi di influenze indebite non siano né da escludere né da
sottovalutare, a parere del Comitato Etico essi non sono tali da costituire un fattore
pregiudizievole nei confronti di programmi volti a favorire un più ampio accesso alla
CPO, anche in ambito aziendale o profes-sionale. Come evidenziato nelle sezioni
precedenti e anche in quelle successive, infatti, i benefici di un più ampio accesso
alla CPO in termini di maggiore autonomia ed equità sono significativi a fronte di
rischi accettabili per la salute e il benessere dei soggetti coinvolti. Pertanto, l’istituzione di programmi di questo tipo è, a parità di altre condizioni, da considerarsi
un fattore positivo che può contribuire ad espandere l’autonomia riproduttiva delle
donne laddove ciò non sia possibile attraverso il ricorso al Servizio Sanitario nazionale. Ciò detto, tuttavia, il giudizio complessivo su ogni singola iniziativa di questo
tipo dipende, oltre che dalla proposta di accesso alla CPO in sé, anche da altri fattori, i quali includono, nel loro complesso, l’insieme di quelle norme sociali, di quei
valori e di quelle pratiche più o meno esplicite che determinano la particolare “cultura” che è presente e caratterizza ogni particolare contesto. Nel loro complesso,
tale fattore culturale costi-tuisce il retroterra entro il quale ogni singola scelta viene
interpretata e acquisisce il proprio senso pratico.
Pertanto, introdurre dei percorsi di accesso facilitato alla CPO nell’ambito
di programmi di welfare è di per sé una condizione utile ma non sufficiente a proteggere l’autonomia riproduttiva delle dipendenti e a promuovere l’equità di genere.
Accanto a questa possibilità, infatti, occorre assicurare che il contesto normativo e
culturale – nel caso di realtà private, la “cultura aziendale” e gli altri sistemi di welfare
e benefit offerti alle dipendenti e ai dipendenti – entro cui tale opzione si colloca sia,
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
a sua volta, esplicitamente allineato a promuovere tali valori.
4.3 Equità e diseguaglianze nell’accesso alle procedure di CPO
Il secondo argomento a favore della CPO riguarda ragioni di uguaglianza ed equità. La CPO permette di sanare un’altra diseguaglianza storica legata allo sviluppo
della tecnica stessa. Per gli uomini, infatti, la possibilità di criopreservare il proprio
sperma risale ai primi anni ’50, mentre la tecnica è divenuta standard fin dagli anni
’60. Finalmente, dopo oltre mezzo secolo, anche le donne possono criopreservare i
propri gameti e scegliere liberamente quando sottoporsi a cicli di IVF.
In secondo luogo, vi sono delle possibili diseguaglianze relative alle diverse
patologie e condizioni socioeconomiche di partenza. Esiste, infatti, una disparità di
accesso a queste tecniche. Il costo delle procedure di CPO varia significativamente
da struttura a struttura, ma si attesta tra i 2 e i 5 mila euro. In Italia la procedura è
gratuita per le donne che hanno meno di 40 anni e ricevono una diagnosi di tumore.
Tuttavia, esistono molte altre patologie che possono compromettere la fertilità o
portare alla sterilità e che, attualmente, non danno diritto a ottenere alcun rimborso
da parte del Servizio Sanitario Nazionale. In molte regioni l’endometriosi, ad esempio, non è riconosciuta tra le patologie che danno diritto a chiedere un rimborso al
SSN. Attualmente esistono dunque profonde diseguaglianze nell’accesso a percorsi di CPO sia in base alla patologia, sia in base all’area di residenza. Dal punto di vista etico, a parere del Comitato, queste diseguaglianze sono inaccettabili e vanno
rimosse. Se giustamente si riconosce alle donne colpite da tumore la possibilità di
preservare gratuitamente la propria fertilità tramite CPO, tale possibilità deve essere estesa anche a tutte le altre donne che soffrono di patologie che ne compromettono la fertilità.
Altre possibili diseguaglianze nell’accesso alla CPO riguardano le donne
che si rivolgono a queste procedure per altre ragioni, come il naturale declino della
fertilità. Non tutte le donne, in-fatti, sono nella condizione economica di potersi rivolgersi a servizi e strutture private di PMA per la CPO. Si determina così una possibile diseguaglianza tra chi ha i mezzi economici per accedere a queste tecniche e chi
no. Se, quindi, la CPO può aiutare a diminuire le diseguaglianze tra uomini e donne
rispetto alla durata della propria finestra riproduttiva, allo stesso tempo può anche
introdurre una nuova serie di diseguaglianze tra le donne stesse in base al loro status socioeconomico di partenza.
Inoltre, esistono possibili diseguaglianze che riguardano invece le modalità
di accesso a queste tecniche e, più in generale, alla PMA. In Italia, tali limitazioni de24
PARERE DEL COMITATO ETICO
rivano, essenzialmente, dai divieti imposti dalla legge 40 del 2004 recante “Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita”. Nel corso degli anni questa legge
è stata profondamente modificata alla luce dei pronunciamenti della Corte Costituzionale e altre sentenze che hanno eliminato alcuni dei suoi aspetti più restrittivi.
Ciò nonostante, a oggi questa norma impedisce ancora alle persone dello stesso
sesso o alle persone single di accedere ai percorsi di procreazione medicalmente
assistita31.
Infine, in Italia, l’accesso alla PMA è regolato su base regionale, con differenze notevoli rispetto all’età massima consentita. Ad esempio, in Umbria il limite
massimo è fissato a 42 anni, mentre in Veneto il limite massimo è di 50 anni. Le altre
regioni si collocano tra questi due estremi, con l’eccezione della Lombardia che non
stabilisce un limite massimo di età per la PMA omologa. A parere del Comitato Etico
queste differenze sono moralmente ingiustificabili, perché determinano disuguaglianze sostanziali nei confronti del rispetto autonomia riproduttiva di tutti i cittadini, il quale rappresenta un principio e un valore che non può e non deve variare in
base a criteri geografici.
(4.4) La genitorialità in età avanzata: profili etici e sociali
La tendenza attuale in tutti i paesi più sviluppati è di posticipare sempre di più la genitorialità. Secondo i dati del 2020, l’età media per il primo figlio in Italia ha raggiunto
i 31,4 anni. Generalmente, la fertilità femminile raggiunge il suo massimo tra i 20 e i
30 anni, per poi declinare in modo rapido prima dopo i 32 e poi ancora dopo i 37 anni,
arrivando a essere vicina allo zero negli anni che precedono la menopausa, che di
solito sorge intorno ai 50 anni. Il periodo tra i 40 e i 50 anni rappresenta dunque per
la maggioranza delle donne una fase di subfertilità, anche se esistono differenze
individuali importanti. È proprio in questa fascia di età che si concentra il ricorso a
tec-niche di PMA e nel quale è prevedibile, nel prossimo futuro, un aumento significativo dell’accesso alle tecniche di conservazione pianificata degli ovociti.
In questa sezione saranno considerati alcune implicazioni etiche legate a
un aumento dei percorsi di PMA tramite CPO, soprattutto nella fascia di età tra i 40 e
i 50 anni. È evidente, infatti, che la PMA tramite ovodonazione e la PMA tramite CPO
sono molto diverse per modalità e implicazioni. La PMA eterologa ha costi e tempi
più alti e dipende dalla disponibilità di ovociti altrui e non consente di preservare
il legame genetico. La PMA tramite CPO, invece, ha costi minori, non dipende dalla
disponibilità di donatrici di ovociti e consente di avere figli biologicamente propri.
Inoltre, oggi la CPO è sempre più comune dopo una diagnosi. È dunque ragionevole
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
aspettarsi che, nel prossimo futuro, si verifichi un significativo incremento dei percorsi di PMA per donne in età subfertile (40-50) dovuto alla possibilità di ricorrere
alla CPO. Se, dunque, gli argomenti pro e contro la maternità in questa fascia di età
riguardano in generale il ricorso alla PMA, tuttavia essi acquisiscono maggiore forza
proprio a seguito dell’esistenza di una tecnica come la CPO.
Un incremento di gravidanze in questa fascia di età potrebbe però avere
effetti sulla salute delle donne e dei nascituri. Un aumento delle gravidanze tra i 40
ei 50 anni implica infatti che, rispetto a oggi, nel futuro ci saranno: (i) più donne che
diventeranno madri in questa fascia di età; (ii) più figli che nasceranno da donne in
questa fascia di età. Dal punto di vista bioetico, la domanda è se tali fenomeni siano
di per sé tali da giustificare una limitazione all’accesso a tecniche di CPO.
In primo luogo, vi sono le considerazioni legate alla salute delle donne. Oltre i 40 anni i rischi di una gravidanza per la propria salute aumentano e includono,
tra gli altri, problemi cardiocircolatori; placenta previa; preeclampsia; distacco di
placenta e un maggiore rischio di aborto spontaneo. Fatte salve le considerazioni
avanzate in merito al consenso informato e all’autonomia personale, a parere del
Comitato, il giudizio sull’accettabilità o meno di tali rischi attiene solo alle donne
che valutano il ricorso alla CPO. Se una persona è sufficientemente autonoma e informata, allora tale persona deve anche essere libera di potersi assumere questi
rischi32. D’altra parte, decisioni simili accadono di frequente in gravidanze a rischio
senza PMA (ad es. gravidanze rischiose per via di varie patologie) laddove si riconosce già alle donne una piena autonomia decisionale rispetto all’assunzione del
rischio di continuare la gravidanza o di terminarla attraverso un aborto terapeutico.
Più complesso dal punto di vista morale è, invece, il caso che riguarda i rischi per chi nasce da gravidanze in questa fascia di età. Secondo gli studi, infatti, i
rischi tendono ad aumentare in funzione dell’età della gestante e includono le anomalie cromosomiche (come la sindrome di Down), una maggiore mortalità fetale e
la sofferenza intrauterina. Vi sono poi ulteriori rischi dovuti alla maggiore probabilità
di nascere prematuri, di avere basso peso alla nascita, e di avere una presentazione
atipica al parto (come la posizione podalica). In teoria, queste evidenze potrebbero
giustificare un argomento che sostiene la necessità di stabilire un limite oltre il quale il rischio di una gravidanza in età troppo avanzata potrebbe essere troppo grande
per la salute dei nascituri.
Tuttavia, questo argomento si rivela piuttosto debole per le gravidanze
nella fascia di età 40-50. Questo tipo di rischi, infatti, è lo stesso di alcuni percorsi
di PMA che sono già praticati di routine in alcune regioni e, in alcuni casi, che sono
attivamente promossi. Se, dunque, tale rischio è considerato accettabile in questi
casi, non esiste ragione per non considerarlo tale anche nel caso in cui vi siano più
PARERE DEL COMITATO ETICO
casi di PMA in questa fascia di età dovuti alla disponibilità della CPO omologa. La valutazione del rischio è, in questi casi, su base individuale e non aggregata, e quindi
la numerosità dei casi non conta a fronte di un rischio che è già considerato accettabile caso per caso.
Oltre alle considerazioni basate sul rischio per la salute di donne e nascituri, però, la gravidanza in età più avanzata solleva altre obiezioni basate su considerazioni di tipo sociale, perché determina una diversa proporzione tra le diverse
generazioni e ha dunque implicazioni a livello intergenerazionale. Un possibile aumento delle gravidanze in donne tra i 40-50 anni implica, infatti che, rispetto a oggi,
nel futuro potrebbero esserci: (i) più donne (e genitori) in questa fascia di età che si
prenderanno cura di figli fino alla loro maturità; (ii) più figli che si prenderanno cura
prima di madri (e genitori) anziani, e cioè oltre i 70 anni di età. Di nuovo, dal punto di
vista bioetico, la domanda è se tali fenomeni siano di rilevanza tale da giustificare
una limitazione nell’accesso alla CPO.
Per quanto riguarda (i), è evidente che la qualità di vita e lo stato di salute
delle persone oltre i 40 anni è mutato profondamente nel corso degli ultimi decenni.
Oggi molte persone oltre questa età sono perfettamente in grado di prendersi cura
di un figlio fino alla sua maturità in mo-do più che adeguato e, anzi, in alcuni casi
anche in modo più maturo e responsabile rispetto a persone che hanno procreato
molto presto. Diventare genitori in età più avanzata, infatti, può coincidere con una
maggiore stabilità economica, professionale e personale33. Quindi, il fatto che una
persona procrei oltre i 40 anni non è di per sé un fattore necessariamente negativo
per la salute e il benessere del nascituro e, anzi, può in alcuni casi rappresentare un
vantaggio.
Similmente, anche per quanto riguarda (ii), il fatto che i figli debbano prendersi cura prima di genitori anziani non è un fattore di per sé necessariamente negativo. Visto che, in Italia, la speranza di vita ha oramai superato gli 80 anni sia per
gli uomini che per le donne, anche se si concepisce a 50 anni, allora il figlio o la figlia
che nascerà perderà in media i propri genitori intorno a 30 anni, e cioè ampiamente
oltre l’età considerata necessaria a raggiungere la piena maturità34. Quindi, il fatto
di doversi prendere cura prima dei propri genitori anziani non è necessariamente
qualcosa di intrinsecamente negativo, ma dipende, nuovamente, dalle singole situazioni35 .
Per inciso, sorge qui anche un terzo problema di equità legato alla genitorialità in età avanzata. Un uomo che procrea a 50 anni – e anche molto oltre, ad
esempio a 70 anni –, viene spesso considerato come un esempio di eccezionale
virilità e forza, un evento positivo da celebrare a livello sociale36. Se una donna pro27
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
crea intorno ai 50 anni, invece, spesso questa decisione viene considerata in modo
negativo come se fosse un atto irresponsabile: una forzatura rispetto allo stato
naturale delle cose37. Questa asimmetria è ingiustificabile dal punto di vista di un
argomento basato sulle responsabilità condivise che i genitori devono avere nei
confronti del benessere dei figli. Se è accettabile per un uomo diventare padre in
età avanzata, lo stesso deve essere accettabile anche per una donna della stessa
età (fatte salve le considerazioni precedenti legate alla salute e allo sviluppo del
nascituro). Viceversa, se deve essere considerato irresponsabile per una donna
procreare a 50 anni e oltre tale età, lo stesso si dovrebbe applicare anche alla genitorialità maschile. Anzi, considerato che le donne tendono a essere in media più
longeve, semmai esistono buone ragioni per invertire questa asimmetria a favore
della genitorialità femminile in età più avanzata.
Alla luce di queste osservazioni, la posizione del Comitato Etico in merito
alla possibilità di procreare responsabilmente in prossimità e oltre il termine naturale della propria fertilità si basa su tre considerazioni. La prima è che la decisione di
procreare rappresenta un aspetto intimo, profondo e importantissimo per il proprio
progetto di vita, tanto da doversi considerare come una parte essenziale del rispetto dell’autonomia personale di ciascuno. Pertanto, è eticamente sbagliato porre
un qualsiasi limite all’autonomia riproduttiva altrui, a meno che non esistano argomenti sufficientemente forti relativi agli effetti che tali decisioni possono avere per
persone terze, in primis per i nascituri. Nel caso della CPO, l’argomento cautelativo
più convincente contro la maternità differita si basa sull’aumento del rischio per la
salute e lo sviluppo del nascituro. Tale argomento è però molto debole almeno per
le gravidanze che avvengono fino a un’età di 50 anni, perché lo stesso rischio è già
considerato accettabile in altri percorsi di PMA che non prevedono la CPO o in altri
casi di gravidanze a rischio. Se la scelta di procreare avviene in modo informato e
responsabile, a parere del Comitato Etico, il ricorso alla PMA tramite CPO in questa
fascia di età, quindi, non solo è eticamente permissibile ma ne andrebbe, anzi, maggiormente promossa la conoscenza presso la cittadinanza. Ciò anche alla luce delle
evidenze che suggeriscono che le probabilità di concepire con successo in questa
fascia di età sono maggiori se gli ovociti sono stati prelevati prima dei 35 anni.
La seconda considerazione, invece, riguarda il limite massimo di età che
può essere individuato. Il fatto stesso che si debba stabilire un limite massimo di
età per accedere alla PMA con CPO – ed eventualmente quale esso sia – è una questione di per sé complessa che dipende da considerazioni tanto empiriche quanto
normative, sociali, politiche, culturali, etc. Come in molti altri casi, stabilire un limite
di età oltre il quale vietare il ricorso a una tecnica riproduttiva è difficile, perché tale
limite risulta inevitabilmente arbitrario e dunque potenzialmente iniquo. Ciò pre28
PARERE DEL COMITATO ETICO
messo, il Comitato Etico si esprime a favore di un eguale accesso per tutte le donne
alla PMA tramite CPO fino all’età di 50 anni, e cioè il limite massimo che è già stato
previsto in alcune re-gioni di Italia. Se è già possibile ricorrere alla PMA con ovociti
donati fino a questa età, tenuto conto dei profili di rischio per i nascituri, infatti, non
vi sono buone ragioni per proibire il ricorso alle stesse tecniche tramite CPO invece
che con ovociti donati. Di conseguenza, vanno rimosse le differenze che ora sussistono su base regionale, permettendo a tutte le donne un accesso simile alla PMA
tramite CPO fino ai 50.
Infine, la terza considerazione riguarda la possibilità di diventare madri (e
genitori) oltre tale limite di età. L’analisi di tale questione esula dai propositi del presente parere, ma è comunque utile aggiungere alcune osservazioni. In primis, il progresso tecnico scientifico potrebbe riservare nuove scoperte e tecniche nel futuro
che potrebbero giustificare un’estensione ulteriore di questo limite. Ad esempio,
allungando in modo significativo la speranza di vita in buona salute delle persone.
La natura del limite che viene eventualmente individuato è, dunque, sempre e comunque contingente e riflette i mutamenti che avvengono a livello sia conoscitivo
che sociale. In secundis, è possibile che i concetti stessi di genitorialità, infertilità e invecchiamento subiscano nel futuro ulteriori slittamenti di senso, portando
PARERE DEL COMITATO ETICO
LE COLLANE DI FONDAZIONE VERONESI
dunque a ripensare norme che sono state concepite nel passato per applicarle a
un contesto di valori, idee e norme sociali che saranno almeno in parte diverse. Per
questo motivo, oltre alla precedente raccomandazione, il Comitato solleva anche la
necessità di rilanciare un dibattito pubblico più ampio, interdisciplinare e inclusivo,
dedicato al tema della genitorialità in età avanzata.
Conclusioni
Negli ultimi cinquant’anni la ricerca scientifica ha ridefinito profondamente il significato di termini come “procreazione”, “infertilità”, “genitorialità”, “autonomia riproduttiva” e “famiglia”. Dopo la nascita nel 1978 di Louise Brown, la prima bambina
concepita con la fecondazione in vitro, la medicina riproduttiva e le tecniche di “procreazione medicalmente assistita” (o PMA) hanno compiuto progressi notevoli che
hanno permesso a milioni di persone di superare condizioni ereditarie, patologie e
limiti biologici prima incompatibili con il concepimento e la genitorialità .