
(AGENPARL) – gio 20 aprile 2023 Garante dei diritti delle persone private della libertà personale
della città di Lecce
Relazione di fine mandato
Maria Mancarella
Premessa
Prima di entrare nel merito della relazione sull’attività da me svolta durante il mio mandato di Garante delle persone private della libertà personale della città di Lecce, al fine di favorire la comprensione dei parametri entro cui tale attività si è svolta, ritengo indispensabile fare una breve e sommaria introduzione su quelli che noi genericamente chiamiamo “i diritti dei detenuti”, sulla loro origine, sui riferimenti normativi nazionali e transnazionali che li hanno definiti e sanciti.
Il lavoro continua nella seconda parte con un’analisi della situazione del carcere di Lecce in questi anni, con un focus sul periodo di grande difficoltà vissuta nella fase calda della pandemia da Covid 19; segue un approfondimento delle attività svolte in qualità di Garante e una breve scheda di alcune esperienze laboratoriali che ho seguito da vicino.
Il lavoro si conclude con una riflessione sul lavoro di ascolto dei detenuti.
In appendice alcuni allegati: i comunicati stampa; le locandine delle attività di sensibilizzazione realizzate in autonomia e in collaborazione con altre associazioni; le tabelle con i dati salienti sulla situazione del carcere di Lecce oggi.
PRIMA PARTE
L’inviolabilità dei diritti della persona umana
La nozione di diritti umani si è sviluppata nel corso di un lungo processo ancora in itinere e affonda le sue radici nella filosofia degli antichi greci e in quella di molte religioni.
Per diritti umani si intendono i diritti di cui ognuno gode unicamente in forza della sua qualità di essere umano, indipendentemente dal colore della pelle e dalla cittadinanza, dalle convinzioni politiche o religiose, dal ceto sociale, dal sesso o dall’età.
Secondo la dottrina del diritto naturale, i diritti umani fondamentali hanno validità precostituita rispetto a qualunque forma di Stato e pertanto non dipendono dalla garanzia di una costituzione nazionale che nel momento in cui viene elaborata o modificata è chiamata al loro rispetto. Lo Stato non può negarli né revocarli e il singolo non può rinunciarvi volontariamente o sotto costrizione. Tuttavia, le prime costituzioni nazionali riconoscevano diritti solo ai cittadini di sesso maschile e solo più tardi, a partire dalla Dichiarazione dei diritti umani e del cittadino in Francia del 1789, gradualmente anche a tutti gli esseri umani.
I diritti umani di prima generazione, al centro delle costituzioni nazionali e dei cataloghi dei diritti fondamentali della modernità, erano inizialmente le libertà civili e politiche e includono la libertà di parola, il diritto a un giusto processo, la libertà di religione e i diritti di voto. Essi furono sanciti per primi dalla Carta dei diritti degli Stati Uniti d’America e in Francia dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nel XVIII secolo, anche se il diritto a un giusto processo risale alla Magna Carta del 1215 e ai Diritti degli Inglesi.
Solo nel corso del XIX secolo con la seconda generazione dei diritti si è iniziato a parlare, se pur in modo prudente e limitato, di diritti economici, sociali e culturali, legati all’uguaglianza, riconosciuti dai governi solo dopo la Seconda guerra mondiale.
Nel XX secolo si affacciano i diritti umani di terza generazione, quei diritti che vanno al di là del mero aspetto civile e sociale, legati ai principi della solidarietà, del rispetto dell’ambiente, della comunicazione e della sostenibilità economica.
Nel XXI secolo va emergendo la quarta generazione, connessa con il formarsi di recenti richieste di protezione dalle nuove tecnologie, quali l’integrità del patrimonio genetico a fronte dei progressi della ricerca biologica; il diritto alle cure palliative, ossia l’accesso a tutti i trattamenti, inclusi i trattamenti che permettano al malato di evitare inutili sofferenze, il diritto al multiculturalismo.
I Diritti Umani, in quanto inalienabili e fondamentali della persona, sono intrinsechi alla sua stessa natura; il loro formale riconoscimento, e quindi la legislazione in materia, i vincoli e le tutele, nascono con l’evoluzione della civiltà moderna e grazie all’apporto materiale dei singoli Stati e dei loro legislatori.
Partiamo dunque dal concetto che l’inviolabilità dei diritti della persona esprime l’idea, universalmente riconosciuta, che vi siano alcuni diritti che non possono e non debbono costituire oggetto di lesione, qualunque sia la situazione giuridica da tutelare, e che, pertanto, non possono e non devono essere violati. Questi diritti sono riconosciuti e garantiti dalla Costituzione Italiana e da accordi internazionali che l’Italia ha sottoscritto.
La Costituzione Italiana
La Costituzione Italiana sancisce il riconoscimento e la garanzia da parte della Repubblica dei diritti inviolabili dell’uomo.
Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
L’inviolabilità non si riferisce solamente ai diritti che la Costituzione espressamente qualifica come inviolabili, quali la libertà personale, di domicilio, di comunicazione, diritto di difesa, ma si estende ad altri diritti previsti nel testo come la libertà di pensiero, il diritto alla vita, all’unità famigliare, il diritto alla salute. Il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo si estendono alle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità: tali formazioni sono riconosciute e garantite a livello costituzionale nella misura in cui consentono e favoriscono il libero sviluppo della persona o meglio nella misura in cui garantiscono la tutela di interessi costituzionalmente rilevanti.
L’inviolabilità non è la semplice garanzia negativa contro indebite intromissioni dell’autorità nella sfera riservata dell’individuo: essa assume il significato di pretesa all’effettivo soddisfacimento delle esigenze primarie della persona. Questo principio è esteso ai detenuti, in quanto l’art.2 tutela anche i diritti inviolabili all’interno delle formazioni sociali, ivi compresi i cosiddetti ordinamenti speciali, tra cui l’ordinamento penitenziario, nei quali il perseguimento delle finalità che caratterizzano il singolo ordinamento non può comportare un sacrificio totale dei diritti delle persone.
Per quanto riguarda l’esecuzione penale, il primo strumento normativo che ha dato attuazione concreta ai principi costituzionali di umanizzazione delle pene e trattamento personalizzato è contenuto nella Riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 26 luglio 1975, nella quale il legislatore, richiamando i principi dell’umanità e del rispetto della dignità della persona umana, ha posto al centro dell’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale il principio che il detenuto va considerato in primis come “ persona ”, assicurando che l’esecuzione della pena avvenga nel pieno rispetto dei suoi diritti e della sua dignità personale.
Le disposizioni contenute nell’ordinamento penitenziario riconoscono a tutti i detenuti la titolarità di situazioni soggettive anche e soprattutto nei confronti dell’amministrazione penitenziaria e configurano le aree di intervento del magistrato di sorveglianza, che si caratterizza per il ruolo di garante della legalità nei confronti dell’operato dell’amministrazione stessa.
L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive, attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria, è estranea al vigente ordinamento costituzionale, che si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti.
La dignità della persona sancita dall’Art.3 dalla Costituzione protegge tutto il bagaglio dei diritti inviolabili dell’uomo, che il detenuto conserva anche lungo tutto il corso dell’esecuzione penale.
“Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
L’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità -nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di sicurezza- non possono perciò mai consistere in trattamenti penitenziari che
comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività dei detenuti. Lo stato sociale deve, perciò, fondarsi sui principi di:
finalità rieducativa e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità,
personalizzazione della responsabilità penale,
ragionevolezza della pena tutti sanciti dalla Costituzione
La condizione di detenuto non può portare all’annullamento dei diritti inalienabili, ma li deve preservare a partire da una duplice prospettiva. Se si vuole evitare che le pene degradino a trattamenti contrari al senso di umanità, il detenuto deve essere oggetto di protezione giuridica sia rispetto a quei diritti indipendenti dalla sua situazione di carcerato sia come soggetto di garanzie minime non sopprimibili, nella sfera giuridica condizionata dallo status di detenuto e dalle necessità di esecuzione della pena.
L’art. 27 comma 3° della Costituzione stabilisce, infatti, che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Tali statuizioni di principio, nel concreto operare dell’ordinamento, si traducono non soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all’organizzazione e all’azione delle istituzioni penitenziarie ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristretti.
Art. 27 La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.
Su questo articolo si è espressa più volte la Corte Costituzionale non solo mettendo in evidenza l’intrinseca interrelazione tra le due proposizioni, “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (1966) ma dichiarando che “la necessità costituzionale che la pena debba tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (1988).
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Nata come codice etico giuridicamente non vincolante è diventata nel tempo punto di riferimento di ogni deliberazione nazionale, locale o trattato internazionale sull’argomento. Redatta dalla Commissione dei Diritti Umani (creata dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, composta da membri selezionati sulla base del criterio della rappresentatività geografica e presieduta da Eleanor Roosevelt, vedova del presidente americano Franklin Roosevelt, grande sostenitrice dei diritti fondamentali), venne presentata ufficialmente nel settembre 1948. La sua elaborazione è il frutto della volontà di evitare che gli orrori della seconda guerra mondiale, ancora vivi nelle popolazioni, potessero ripetersi.
La presenza di alcune criticità e divergenze importanti, la distinzione e contrapposizioni in blocchi delle posizioni impedì di far confluire quegli sforzi in una carta internazionale dei diritti legalmente vincolante anche se, probabilmente, fu proprio la sua natura non vincolante a decretarne il successo. Divenne un documento con una forte autorità morale, che enuncia
principi generali che trascendono ogni legislazione internazionale ma nello stesso tempo li includono.
Il Preambolo della Dichiarazione così inizia e termina:
“La noncuranza e il disprezzo per i diritti umani hanno prodotto atti barbarici che hanno oltraggiato la coscienza dell’umanità; l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani possono godere di libertà di parola e credo, libertà dalla paura e dalla povertà è stata proclamata come la più elevata aspirazione della gente comune… Tutti gli esseri umani sono nati liberi e con uguali diritti e dignità.”
“L’Assemblea Generale proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.”
Pur essendo una dichiarazione di principi senza valore vincolante per gli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, di fatto la Dichiarazione ha orientato l’evoluzione del diritto internazionale ed è stata recepita in molte legislazioni nazionali e Trattati internazionali come il “Patto internazionale sui diritti civili e politici” ed il “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo fissa alcuni dei principi base per la tutela dei diritti delle persone limitate nella libertà personale e più in generale delle persone che entrano a qualsiasi titolo a contatto col sistema giudiziario e penale del proprio Paese.
Ne richiamiamo alcuni che rappresentano i punti fermi da cui partire per ragionare in termini di tutela e garanzia dei diritti delle persone private della libertà personale.
Art.5 “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a punizione crudeli, inumani o degradanti”,
Art. 9 “Nessuno individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto, esiliato”,
Art.10 “Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad un’equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”.
Articolo 11 Comma 1. “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.”
“Art. 23 Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta d’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario ad altri mezzi di protezione sociale”.
“Art. 26 Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione dev’essere gratuita {…} l’istruzione elementare dev’essere gratuita, l’istruzione tecnica e professionale dev’essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore dev’essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), siglata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore nel 1953, sancisce in modo risolutivo la tutela dei diritti fondamentali della persona: il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, il diritto ad un processo equo per chi è sottoposto a procedimenti penali o civili, la proibizione della tortura, nonché l’obbligo per gli Stati membri di rispettare i diritti di ogni essere umano.
Gli istituti europei per la tutela dei diritti dei detenuti
Infrangendo il tabù di una realtà carceraria ammantata di riservatezza ed estraneità rispetto alla società civile, il congresso delle Nazioni Unite adotta il 30 Agosto 1955 la Risoluzione per la prevenzione del delitto ed il trattamento dei delinquenti.
Di particolare rilievo nel panorama internazionale per il diritto dei detenuti, la Risoluzione introduce “Le regole minime per il trattamento dei detenuti” che riconoscono i principi umani da rispettare e garantire nel trattamento dei detenuti e nella gestione degli istituti penitenziari; una sorta di condizione minima al di sotto della quale non é possibile andare per delineare un sistema compatibile con i valori di umanità e giustizia.
Le regole comprendono più o meno tutti i settori della vita carceraria, dalla pulizia degli ambienti all’igiene personale, al diritto alla salute, al servizio sanitario, alla tutela delle relazioni familiari; essi sono stati ripresi ed integrati con la risoluzione Onu n. 43/173, emanata il 9 dicembre del 1988, che ha dato vita ad un Corpus dei principi per la protezione di tutte le persone in stato di detenzione adottato dal Consiglio d’Europa, che rappresentano una sorta di guida per tutti gli stati membri.
Le Regole penitenziarie europee hanno fortemente contribuito allo sviluppo dei diritti dei detenuti, attraverso la garanzia di norme volte ad assicurare un livello soddisfacente di umanità e dignità nei sistemi penitenziari, spesso messi a dura prova dal crescente tasso di sovraffollamento o a causa di condizioni igieniche inadeguate.
Il corpus normativo non costituisce un vincolo dal punto di vista del diritto internazionale, tuttavia, sebbene siano solo Raccomandazioni, esse rappresentano il primo passo, di straordinaria rilevanza, in un contesto di totale assenza di norme di diritto internazionale che riguardano il trattamento dei detenuti. Esse dichiarano che le condizioni di detenzione dei detenuti o delle persone sottoposte a custodia da parte della polizia sono rimesse alla tutela dello Stato, che è, perciò, obbligato a garantire uno standard minimo delle condizioni delle carceri e un livello minimo di protezione e di rispetto della dignità dell’uomo e in particolare dei detenuti, i quali versano in una condizione particolarmente fragile e di delicata vulnerabilità. Le regole approvate sancivano il potere di ogni individuo di ricorrere ad un’istanza nazionale e sovranazionale qualora la violazione dei diritti fosse stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali: la strada era ormai aperta per la nascita della Corte europea dei diritti dell’uomo, istituita nel 1959 con sede a Strasburgo, che diviene nel 1998 Corte permanente dei Diritti dell’Uomo, istituita con il compito di controllare il rispetto della CEDU da parte degli Stati contraenti e gestire le petizioni individuali e inter-statali.
Chiude il percorso la Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, siglata il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, che istituisce il Comitato contro la tortura competente a verificare l’attuazione della Convenzione negli Stati aderenti all’Onu.
L’art. 1 della Convenzione riconosce al Comitato il potere di verificare, per mezzo di sopralluoghi, il trattamento delle persone private della libertà, al fine di rafforzare, se necessario, «la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani o degradanti»; l’art. 3 impone ad ogni Stato di accertare che le condizioni di vita di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana, evitando di creare disagi che si spingano oltre all’inevitabile livello di sofferenza legato allo stato detentivo.
La Corte rappresenta come trattamento inumano:
la detenzione in un’unica cella di molti reclusi,
l’impedimento ad uscire dalla cella,
l’impossibilità di vedere l’esterno e di fare filtrare la luce,
la permanenza in carcere di persone anziane e malate,
l’assenza di cure adeguate a salvaguardare la salute e il benessere di ogni detenuto.
In pratica, per stabilire se la persona detenuta stia subendo un trattamento degradante, la Corte ritiene si debbano considerare tre criteri oggettivi:
le condizioni del detenuto,
la qualità delle cure dispensate,
l’opportunità di mantenere lo stato detentivo alla luce delle condizioni di salute del ricorrente.
L’Ordinamento penitenziario italiano
Dal regolamento del 1931 alla grande svolta: la riforma del 1975 e l’umanizzazione della pena
In attuazione ai principi enunciati dalle “Regole minime per il trattamento dei detenuti”, approvate nel gennaio del 1973 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa e successivamente modificate con il titolo di “Regole penitenziarie europee”, l’Italia approva, nel 1975, una riforma che sostituisce definitivamente il regolamento carcerario del 1931 e segna una storica svolta dal punto di vista dei principi ispiratori della legislazione sul penitenziario. Fino a quel momento il carcere era concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera e il regolamento carcerario improntato ad una filosofia di applicazione della pena che vedeva nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. L’isolamento trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna -limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti- peraltro assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e delle punizioni. Lo stesso valeva per le visite degli istituti penitenziari ad opera di persone estranee all’amministrazione, riservata solo ad un elenco tassativo di personalità pubbliche.
L’impermeabilità del luogo e l’isolamento dalla società trovavano conferma anche nelle strutture architettoniche dei penitenziari, per lo più ispirate al modello del Panopticon di Bentham, e si accompagnavano ad una struttura rigidamente centralizzata e verticistica dell’amministrazione penitenziaria, con una rigida subordinazione del personale di custodia al direttore, che a sua volta dipende dall’amministrazione centrale, dalla quale attende le relative autorizzazioni.
La riforma penitenziaria del 1975 segna una storica svolta, poiché sostituisce definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931, mettendo finalmente in pratica, dopo molti anni, un dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato.
L’art. 1, comma 1, della legge di riforma stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”, e ancora, “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”
Principio basilare di questa concezione è che la pena possa e debba essere tendenzialmente rieducativa e cioè debba includere una serie di attività e interventi di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del detenuto. Gli elementi del trattamento previsto riguardano: l’istruzione, il lavoro, le attività culturali, ricreative e sportive, nonché gli opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia che si riferiscono, in pratica, a tutti quei diritti inalienabili che i detenuti mantengono in quanto persone anche durante il periodo di detenzione.
Vengono introdotte, al fine dell’osservazione scientifica e del reinserimento sociale del detenuto, figure professionali del tutto nuove all’interno dell’istituzione carceraria. Accanto alla polizia penitenziaria, preposta alla custodia del detenuto e al mantenimento dell’ordine pubblico, compaiono gli educatori, portatori del preciso mandato del trattamento rieducativo, e gli assistenti sociali, curatori della nascente “area penale esterna”, che prende corpo con la previsione delle “misure alternative alla detenzione”.
Il gruppo di osservazione scientifica della personalità è costituito da un nucleo stabile di componenti professionali. Essi corrispondono alle aree di indagine che interessano le esigenze che il soggetto presenta sotto il profilo medico-psicologico, affettivo, educativo e sociale. Tale nucleo è costituito da: il medico, lo specialista, l’educatore e l’assistente sociale, con il direttore dell’istituto, membro e presidente. Ad esso si aggiungono, con contributi diretti o mediati dai componenti stabili, tutti coloro che a vario titolo entrano in relazione con il soggetto.
Tra i compiti che la normativa penitenziaria raggruppa sotto le competenze dell’area educativa troviamo: la cura delle attività di istruzione scolastica e professionale, di quelle lavorative, culturali, ricreative, sportive e in genere miranti al trattamento rieducativo dei condannati e degli internati; l’offerta agli imputati di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali, e ciò anche attraverso la collaborazione della comunità esterna.
L’art.17 apre infatti le porte del carcere al mondo esterno, stabilendo che la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita sollecitando la partecipazione all’azione rieducativa di privati e di istituzioni esterne, pubbliche o private; dispone che tutti coloro che sono interessati all’opera di risocializzazione dei detenuti sono autorizzati a frequentare gli istituti penitenziari con il permesso del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, contribuendo, in tal modo, a promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.
L’art. 19 si occupa della formazione professionale, intesa come attività istruttiva parascolastica, al fine di favorire il reinserimento sociale del detenuto attraverso l’apprendimento delle tecniche per lo svolgimento di una attività produttiva; incentiva la lettura e la conoscenza, favorendo l’accesso alle pubblicazioni contenute nelle biblioteche degli istituti penitenziari, di cui sollecita l’istituzione.
La disciplina penitenziaria tende, dunque, a favorire l’istruzione (anche professionale), prevedendo alcuni incentivi (economici, concessione di alcuni benefici) volti a stimolare il detenuto allo studio e alla formazione; favorisce e sostiene le attività culturali che contengono l’apertura verso tutte quelle esperienze che contribuiscono alla promozione dell’individuo e allo sviluppo della sua personalità e che vedono la diretta partecipazione dei detenuti, quali, ad esempio, il teatro, lo sport, la redazione di giornali interni, la musica, la pittura.
L’impianto dell’ordinamento penitenziario pone, dunque, alla base del trattamento i valori dell’umanità e della dignità della persona, ai quali fa da corollario l’affermazione del principio della assoluta imparzialità nei riguardi di tutti i detenuti, “senza discriminazioni in ordine di nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose” (art. 1, 2° comma o. p.). Il rispetto per la persona si esprime anche nell’abolizione della prassi di indicare i reclusi con il numero di matricola, fatta propria dal Regolamento del 1931, prescrivendo che “i detenuti e gli internati siano chiamati o indicati con il loro nome” (art. 1, 4° comma, o. p.).
La riforma sancisce il principio dell’individualizzazione del trattamento e per la prima volta introduce e prevede tutte le situazioni in cui è possibile superare il carcere come unica forma di espiazione della pena attraverso l’introduzione delle alternative alla detenzione. La legge prescrive, pertanto, l’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale, utile nell’assegnare al detenuto il “luogo” in cui scontare la pena (tipo di istituto e sezione).
Al riguardo è esemplificativo l’art. 13, il quale stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L’osservazione é compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa. Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione”.
La legge del ’75 introduce, di fatto, due principi molto importanti che riguardano la discontinuità e la flessibilità della pena: prevede i permessi, che consentono ai detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, in particolare quelli familiari; la liberazione anticipata; parla di misure alternative alla detenzione, che vanno dall’affidamento in prova al servizio sociale, alla semilibertà o alla detenzione domiciliare. A gestire tutto ciò sarà la magistratura di sorveglianza in stretta e inedita collaborazione con l’amministrazione penitenziaria.
L’attuazione di tutti i punti della legge non è stata, ovviamente, immediata. Sono dovuti passare molti anni prima che si desse avvio ad una reale, anche se lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli edifici fino al personale qualificato e al trattamento stesso delle pene e dei detenuti.
Le modifiche successive
Negli anni ’80 l’attenzione nei confronti della difesa dei diritti umani cresce nell’opinione pubblica e coinvolge anche il carcere e i suoi rapporti con il territorio. Cresce altresì il ruolo del volontariato come ponte tra i detenuti e la società civile, emerge in modo evidente il profondo divario tra legge scritta e le sue reali e concrete possibilità di attuazione dal punto di vista delle
strutture e del personale, cresce l’attenzione a tutti quei problemi che la riforma del ’75 non era riuscita ad affrontare e che aveva lasciato irrisolti: primo fra tutti il sovraffollamento, ma anche l’insufficienza e l’inadeguatezza delle strutture carcerarie, le condizioni sanitarie, il limitato ricorso all’area penale esterna.
Alla soluzione di questi problemi, alla volontà di ampliare e approfondire le questioni lasciate aperte dalla riforma, alla consapevolezza che solo un carcere utile è quello capace di cambiare le cose e di modificare le situazioni individuali, alla volontà, largamente condivisa in quegli anni, di dar senso e sostanza normativa al dettato costituzionale sulla finalità rieducativa della pena, a tutto questo si ispira la legge 663/1986 che va sotto il nome di legge Gozzini.
Questa legge ha introdotto la detenzione domiciliare e una serie di norme finalizzate all’ampliamento delle misure alternative, tra cui la semilibertà, al fine di consentire lo svolgimento delle attività di cura, di assistenza familiare o di istruzione professionale già in corso nel periodo precedente la carcerazione, da utilizzare anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza. La legge introduce anche i permessi premio, concessi a quei detenuti che non risultano di particolare pericolosità sociale, e la liberazione anticipata, applicabile a ciascun condannato e che consiste nello sconto di quarantacinque giorni per ogni semestre scontato con regolare condotta.
La legge Gozzini permette, dunque, a chi sta in carcere di avviare un graduale percorso di rientro nella società, controllato e con tappe chiare, e a piccoli passi di “allenarsi alla legalità e alla libertà”, consente in ogni caso di coltivare la speranza che ci sia sempre un’altra possibilità nella vita.
Dopo l’entrata in vigore della legge, per un lungo periodo si creò un sistema di accesso alle misure alternative contraddittorio e arbitrario: solo il condannato che disponeva di una buona difesa riusciva ad ottenere una misura alternativa, aspettando in carcere la decisione del magistrato di sorveglianza e finendo per scontare, tutta o in parte, la pena inflitta. Tali contraddizioni furono riviste dalla cd. L. Simeone Saraceni (L.27 maggio 1998, n.165), che amplia la possibilità di fruizione delle misure alternative, in particolar modo dell’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati fino a tre anni di reclusione ed ha ispirato la legge
n. 231 del 1999 che introduce il principio dell’incompatibilità del regime carcerario per i malati di Aids e quelli affetti da altre gravi malattie, in ragione dei maggiori rischi di contagio all’interno delle strutture penitenziarie. La legge si poneva in modo esplicito il raggiungimento di due obiettivi: agire sull’aumento della popolazione carceraria e accrescere la riduzione della recidiva anche perché, già in quel periodo, molti studi dimostravano l’esistenza di una relazione diretta tra le modalità in cui si sconta una pena e la commissione di nuovi reati.
A partire dagli anni ‘90, il sistema penitenziario italiano è messo a dura prova da una serie di situazioni di emergenza, dal terrorismo alla minaccia mafiosa, che portano ad un incremento del numero dei detenuti e al parallelo aumento delle misure di sicurezza (come l’introduzione del 41-bis) a discapito del trattamento rieducativo e del ricorso alle misure alternative alla detenzione.
La disciplina normativa, introdotta nel 1992 con l’art. 41.bis, ha subito modifiche sostanziali con le leggi n. 279 del 2002 e la legge n.94 del 2009 ed è specificamente regolata da Circolari amministrative.
Come si legge nella Premessa della Circolare Dap del 2 Ottobre del 2017 sull’Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 4l bis O.P, si tratta di “una misura di prevenzione che ha come scopo quello di evitare … contatti e comunicazioni tra esponenti della
criminalità organizzata, detenuti o internati, all’interno degli istituti di pena nonché contatti e comunicazioni tra gli esponenti detenuti delle varie organizzazioni e quelli ancora operanti all’esterno. … Le disposizioni impartite nelle pagine che seguono … riguardano le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna.” La circolare indica in modo dettagliato le modalità con cui il regime va applicato.
“Il detenuto/internato può … fruire di colloqui visivi della durata massima di un’ora, nella misura inderogabile di uno al mese da effettuarsi ad intervalli di tempo regolari. Il detenuto/internato può essere autorizzato a fruire di un colloquio telefonico mensile dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, in alternativa al colloquio visivo.
I detenuti/internati al 4l bis possono permanere all’aperto per non più di due ore al giorno da trascorrere all’aria aperta o svolgendo attività ricreative/sportive in appositi locali adibiti a biblioteca, palestra e sala hobby.
I cancelli delle camere di detenzione devono rimanere chiusi durante l’intero arco della giornata salvo il tempo necessario alla movimentazione del detenuto/internato.
L’isolamento diurno impedisce al detenuto/internato ogni forma di comunicazione con altri detenuti/internati anche appartenenti al medesimo gruppo di socialità; ove necessario al fine di assicurare l’isolamento il blindato può essere chiuso. L’isolato … fruisce della socialità e dell’ora d’aria da solo.”
Il presupposto di questo inasprimento è dato dalla constatazione che la detenzione ordinaria non spezza affatto il vincolo associativo e la persistenza di questo vincolo costituisce di per sé un pericolo per la sicurezza pubblica. Che i soggetti posizionati ai vertici delle associazioni mafiose continuino di regola ad esercitare durante lo stato di detenzione le prerogative connesse al loro ruolo è un dato di fatto in qualche modo acquisito nell’ordinamento. Tuttavia, l’estrema afflittività di tale strumento, discendente dalla severità delle restrizioni ma anche dalla durata delle stesse, suscita non pochi interrogativi sul limite della tollerabile compressione di diritti fondamentali, posto che il vigente ordinamento costituzionale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti inviolabili, il riconoscimento e la garanzia dei quali l’art. 2 Cost. pone tra i principi fondamentali della Repubblica.
Nel giugno del 2000 viene adottato un nuovo Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (DPR 30 giugno 2000, n. 230), che si ispira alle “Regole minime per il trattamento dei detenuti” adottate dall’ONU nel 1955 e alle “Regole penitenziarie europee” del Consiglio d’Europa del 1987 e ribadisce la necessità, nonché il dovere, di umanizzare le condizioni di vita dei detenuti.
Il nuovo Regolamento prevede che l’istituto penitenziario debba assicurare l’esistenza di luoghi di pernottamento e di locali comuni per le attività da svolgersi durante il giorno, le singole camere devono essere dotate di finestre che consentano il passaggio dell’aria e della luce, di acqua calda e bidet (in particolare nelle sezioni femminili). Afferma che deve essere data massima attenzione all’alimentazione, poiché si deve tener conto, oltre che delle esigenze dietetiche, anche delle diverse usanze culturali e delle prescrizioni religiose a causa della eterogenea popolazione detenuta: prevede disposizioni apposite per i detenuti stranieri; predispone l’accertamento di eventuali maltrattamenti al momento dell’ingresso in carcere; indica le caratteristiche dei luoghi, interni ed esterni nei quali devono essere effettuati gli incontri con i familiari; dedica ampio spazio al volontariato; autorizza, infatti, l’ingresso in carcere a tutti coloro che dimostrano interesse e sensibilità per la condizione umana dei
sottoposti a misure privative della libertà e che danno prova di concrete capacità nell’assistenza a persone in stato di bisogno.
La legge n.67 del 2014 introduce nel nostro Ordinamento la possibilità di sospendere il processo, nella fase anteriore alla esecuzione della pena, per messa alla prova dell’imputato, nel solco del cosiddetto probation giudiziale e sulla falsa riga dell’analoga figura prevista dal rito minorile (D.P.R. n. 448/1988).
La messa alla prova prevista per gli adulti si discosta nettamente da quella minorile. La sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato minorenne mira a limitare le conseguenze di una permanenza nel circuito penitenziario, attivando un percorso di maturazione e cambiamento che, partendo da una riflessione critica del proprio passato, conduca il minore ad allontanarsi dalla scelta deviante, reinserendosi nella vita della collettività. La permanenza in carcere produce quello che Clemmer definisce come processo di prisonizzazione, che alimenta e approfondisce l’antisocialità del detenuto, rendendolo sempre più estraneo alla società civile e sempre più aderente alla subcultura della comunità del carcere. L’istituto della messa alla prova previsto dalla legge del 2014, invece, pur partendo dalle difficoltà del sistema penitenziario a causa del drammatico sovraffollamento delle carceri e dalle condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea, pone l’organizzazione detentiva-penitenziaria italiana nel solco del rigoroso rispetto della dignità umana. In particolare, si colloca nel quadro della necessità di un profondo ripensamento del sistema processuale e sanzionatorio, spinto a favorire il ricorso a sanzioni non penali o comunque alternative alla detenzione per realizzare un’equilibrata de- carcerizzazione”, dedicando particolare attenzione alla riparazione ed alla mediazione tra vittima e reo.
Incongruenze della riforma e boom penitenziario
Negli anni sono emerse ulteriori incongruenze tra i principi della riforma e la sua concreta attuazione. All’interno degli istituti, ad esempio, hanno continuato ad agire numerosi meccanismi farraginosi e preclusivi della fruizione di diritti fondamentali per i detenuti, a partire da quelli che riguardano i controlli sanitari fino ad arrivare ai rapporti con l’esterno – colloqui, visite, telefonate -, i cui passaggi burocratici sono ancora gestiti in modo non univoco e spesso poco efficace. Ciò è riscontrabile soprattutto nei metodi di lavoro utilizzati nei confronti di tossicodipendenti, omosessuali, transessuali, immigrati, giudicabili, giudicati in primo grado, definitivi, trattati, a differenza di quanto si impara nei corsi, in modo indifferenziato e spersonalizzato.
In questi anni tutto il sistema ho vissuto una fase di riassetto delle carriere, in cui il personale è spesso stato inserito in livelli differenti, senza una adeguata preparazione, determinando, così, instabilità organizzativa e scarsa interazione tra gli operatori del mondo penitenziario: addetti alla sorveglianza e figure preposte al trattamento rieducativo quali educatori, assistenti sociali e psicologi.
Non essendoci una cultura specialistica comune tra le diverse figure professionali, ognuno finisce per far riferimento a modelli esterni al contesto, acuendo le difficoltà in termini di collaborazione e determinando una generale perdita di senso e di incisività del proprio operare. Il senso di frustrazione che ne deriva può indurre tutti a perdere fiducia nel proprio lavoro e nella possibilità di riabilitazione del detenuto e di conseguenza ad accentuare un approccio di tipo puramente regolativo e burocratico. Per quanto concerne la polizia penitenziaria, poi, non
c’ è stata negli ultimi anni una formazione culturale e professionale adeguata a fornire parametri riqualificanti, da utilizzare nel quadro delle nuove attività trattamentali previste dalla riforma. Tutto ciò si è a volte tradotto in uno sconfinamento in atteggiamenti autoritari, talora violenti: per prevenirli risultano di fondamentale importanza il corretto funzionamento delle strutture, l’efficienza dei servizi e l’adeguata preparazione degli operatori, visto che il carcere, come abbiamo detto, offre continue e pericolose tentazioni di violazione dei diritti.
In sintesi, il quadro delle carceri italiane si presenta oggi in maniera profondamente disomogenea: pochi sono i regolamenti interni regolarmente approvati e vigenti negli istituti, molte e variegate le prassi, vi è carenza di personale di polizia, il sovraffollamento è ormai una caratteristica comune a tutti gli istituti, così come l’elevato numero di tossicodipendenti, nonché l’elevato numero di atti di autolesionismo. Vi è, inoltre, un mancato adeguamento degli istituti (spesso per mancanza di fondi) a quanto richiesto dal nuovo regolamento di esecuzione, problema, questo, che rende impossibile introdurre docce in cella, sbarre che consentano il passaggio di luce naturale, nidi per i figli delle detenute madri, cucine comuni ogni 200 persone, in sostanza tutto ciò di cui hanno pieno diritto i detenuti sulla base del regolamento d’esecuzione del 2000.
Tale situazione si inserisce in un più preoccupante contesto sociale che vede protagonista, negli ultimi anni, un boom penitenziario che non conosce precedenti. A partire dagli anni ’90 il numero di persone in stato di detenzione o in attesa di una probabile condanna è cresciuto rapidamente in quasi tutti i paesi nord-occidentali. Tutte le democrazie sviluppate procedono, ormai, alla costruzione di nuove carceri e incrementano le spese destinate alle forze di polizia e al personale carcerario adibito alla custodia.
È cambiato anche il clima culturale e le politiche penali, che vedevano il carcere come strumento di reinserimento sociale, stanno lasciando il campo a politiche che vedono la detenzione esclusivamente come strumento repressivo e incapacitante.
Secondo la concezione emergente la pena deve servire da deterrente e la prevenzione speciale deve limitarsi all’incapacitazione temporanea. Non si chiede al sistema penale di reinserire socialmente il reo: gli si chiede solo di metterlo, almeno per un certo periodo di tempo, in condizioni di non nuocere. Tale fenomeno affonda le sue radici nelle numerose problematiche che i governi occidentali sono chiamati ad affrontare. Oggi, per fronteggiare le masse di migranti ed emarginati, si fa ricorso alle mere misure incapacitanti, al mero contenimento.
Si può, inoltre, osservare un circolo vizioso che sembra aver accelerato con forza nell’ultimo decennio del secolo scorso: si osservano variazioni concomitanti piuttosto chiare tra aumento della popolazione detenuta e condannata, incremento della percezione sociale di insicurezza, inasprimento della domanda sociale di tipo punitivo (fortemente incoraggiata per via politica). Le politiche penali ruotano, infatti, intorno al tema, ormai diventato centrale, della sicurezza. Così, migranti, tossici e minori diventano, a volte, vittime di strumenti incapacitanti, poiché rappresentano nicchie di esclusione sociale in cui il cittadino non ama affatto identificarsi e da cui si sente fortemente minacciato. La parola d’ordine sicurezza interpreta, quindi, un sentimento diffuso e gli fornisce, semplificandone la complessità sociale, una risposta simbolica.
Spesso la pena sembra svincolata da ogni ipotesi di risocializzazione e reinserimento sociale e si ricorre ad essa, invece, in maniera simbolica, invocandone sempre più la severità. Lo scarso utilizzo di misure alternative al carcere a favore del ricorso a scelte di tipo contenitivo e di mero
controllo sembra indicare la loro riduzione a semplici strumenti di controllo sul territorio della crescente popolazione detenuta, che non è possibile o non è più necessario contenere all’interno degli istituti di pena.
3. I diritti dei detenuti
Il diritto ad una vita dignitosa. Il problema dei problemi: il sovraffollamento
In Italia il sovraffollamento è sempre stato uno dei problemi di cui maggiormente ha sofferto il sistema penitenziario. A causa delle condizioni di detenzione provocate dal sovraffollamento, la Corte europea ha una prima volta condannato l’Italia nel 2009, sulla base della proibizione della tortura e a pene e trattamenti inumani e degradanti, di cui all’art. 3 Cedu.
Il caso riguardava un cittadino della Bosnia-Erzegovina detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare una sentenza di condanna. Il ricorrente invocava i parametri indicati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT) che indicano in 7 metri quadrati la superficie minima auspicabile di cui ciascun detenuto deve poter disporre all’interno della propria cella.
Nella sentenza si legge: “Riferiva il ricorrente che nel corso della sua permanenza nel carcere romano aveva soggiornato in diverse celle, ciascuna di circa 16,20 metri quadrati, che aveva condiviso con altri detenuti. In particolare, il ricorrente si doleva del fatto che dal 30 novembre 2002 al 15 aprile 2003 aveva dovuto dividere la cella con altre cinque persone, ognuna delle quali poteva disporre di una superficie di circa 2,70 metri quadrati, mentre dal 15 aprile al 20 ottobre 2003 aveva condiviso la cella con altri quattro detenuti, disponendo così ciascun detenuto, in media, di una superficie di 3,40 metri quadrati.”
La Corte condanna l’Italia per violazione dell’art 3 della Convenzione, che, scrive, “sancisce uno dei valori fondamentali di tutte le società democratiche, ed impone allo Stato di assicurare che le condizioni detentive siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della pena non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad una prova d’intensità superiore al livello di sofferenza che discende, inevitabilmente, dallo stato di privazione della libertà personale, e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente garantite”.
Nonostante lo Stato italiano abbia tentato di arginare il problema, le misure adottate, più idonee a fronteggiare situazioni emergenziali, non si tradussero in riforme strutturali del sistema penitenziario e penale per cui, nel 2013, la Corte condannò nuovamente l’Italia per la violazione dell’art 3 della Convenzione, ritenendo che le condizioni di vita dei detenuti integravano i requisiti necessari per la sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani e degradanti
La pronuncia della Corte EDU emessa l’8 gennaio 2013, nota come sentenza Torreggiani dal nome di uno dei ricorrenti, è una pronuncia storica che arricchisce il panorama del diritto penale europeo con significative ricadute nell’ordinamento dello stato convenuto, l’Italia.
Il perdurante fenomeno del sovraffollamento nelle carceri italiane induce la Corte a procedere all’esame congiunto di 7 differenti ricorsi, emettendo una sentenza pilota, strumento cui la Corte ricorre in presenza di ripetuti ricorsi: ne riunisce alcuni valutandoli contestualmente, rinviando poi l’esame dei casi omogenei in relazione ai quali sospende il giudizio.
La ripetitività dei ricorsi delinea, dunque, una violazione sistematica di uno dei diritti tutelati dalla Convenzione da parte dello stato italiano.
Qualora accerti la violazione, la Corte, dopo la pronuncia della sentenza pilota, invita lo stato convenuto ad adeguare la legislazione nazionale alla Convenzione, indicando le misure di carattere generale che il governo è tenuto ad adottare entro un lasso di tempo prestabilito. Decorso infruttuosamente il termine senza che il convenuto abbia adottato le misure in questione, la Corte passerà ad esaminare i ricorsi omogenei, esponendo lo Stato al rischio di ulteriori condanne.
La gestione del sovraffollamento
La prassi e il diritto nazionale contengono, in realtà, un’articolata disciplina in materia, che trova conferma nell’art 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975, la legge sull’ordinamento penitenziario, che recita quanto segue: “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. […] I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti”.
Inoltre, secondo quanto emerge dai rapporti generali del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT), lo spazio auspicabile per le celle collettive è di ben 4 m² e il problema è ancora più grave se si tiene conto che tutti i servizi e le attività in un carcere sono influenzati negativamente dall’eccessivo numero di detenuti, poiché, se occorre farsi carico di un numero di detenuti maggiore rispetto a quello per il quale l’istituto è stato progettato, la qualità complessiva della vita in un istituto si abbassa, anche in maniera significativa.
La decisione della Corte merita, però, delle precisazioni, in merito alle argomentazioni addotte dalla stessa a sostegno della condanna che testimoniano il complesso iter decisionale sfociato poi nella sentenza.
In primo luogo la Corte afferma che, anche se le misure privative della libertà comportano inevitabilmente alcuni inconvenienti, ciò non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione, anche perché la persona incarcerata ha bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. La Corta ricorda pertanto che l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione.
In secondo luogo la Corte afferma che, sebbene nulla suggerisce che vi sia stata intenzione di umiliare o di degradare i ricorrenti, l’assenza di un tale scopo non può escludere una constatazione di violazione dell’articolo 3, se si tengono anche in considerazione gli ulteriori trattamenti denunciati dai ricorrenti, come la mancanza di acqua calda nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere in cui si trovavano i ricorrenti.
La Corte pertanto “invita l’Italia a risolvere il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri, incompatibile con la Convenzione” e, preso atto dell’alto tasso di sovraffollamento delle carceri, che rappresenta un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”, esorta gli Stati, come l’Italia, che non siano in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della
Convenzione, ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà e tramite una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere.
Alle pressanti richieste della Corte, l’Italia risponde con una serie di decisioni:
introduzione della cd. liberazione anticipata speciale, che consente di decurtare 45 giorni per ogni semestre di pena scontata sulla base della prova concreta della partecipazione del condannato all’attività di rieducazione;
il potenziamento delle misure alternative quali l’affidamento in prova per i condannati con pene anche residue fino a 4 anni;
la possibilità di applicare anche più di due volte l’affidamento in prova terapeutico per condannati tossicodipendenti e alcoldipendenti;
la previsione dello spaccio di sostanze stupefacenti di lieve entità come autonoma figura di reato speciale, con l’abbassamento della pena detentiva da sei a cinque anni. Per quanto riguarda gli stranieri, il potenziamento dell’istituto dell’espulsione. Si tratta di interventi deflattivi particolarmente importanti, giacché i tossicodipendenti e gli stranieri rappresentano due delle categorie di detenuti più numerose negli istituti di pena;
le procedure per il controllo elettronico in caso di arresto domiciliare, nonché di esecuzione presso il domicilio di pene detentive non superiori ai 18 mesi
Viene introdotta la “sorveglianza dinamica” o “regime aperto», fondata su separazione degli spazi destinati al riposo da quelli riservati ai momenti di socialità e allo svolgimento delle attività trattamentali. La sicurezza penitenziaria deve essere garantita per il tramite di controlli che seguono le regole proprie della nuova concezione di sorveglianza
Il diritto all’istruzione
Per quanto riguarda il diritto all’istruzione, è ancora una volta la riforma del 1975 a porre particolare attenzione all’aspetto rieducativo della detenzione e agli istrumenti utili per raggiungerlo. L’impostazione culturale che ha ispirato il testo dell’Ordinamento Penitenziario è quella di ritenere la detenzione non uno stato definitivo ma uno stato transitorio, un momento in cui il detenuto ha la possibilità di crescere sia a livello personale, sia nei confronti della società. Le norme sull’ordinamento penitenziario e il relativo Regolamento di esecuzione affermano che, poiché tutti hanno diritto ad un percorso scolastico e alla formazione per almeno dodici anni, esso deve essere garantito anche in carcere. A tal fine il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria dovrà disporre, di concerto con il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale, la dislocazione ed il tipo di corsi da istituire nell’ambito del provveditorato e, sulla base di protocolli d’intesa tra i Ministeri preposti, provvedere all’attivazione, lo svolgimento ed il coordinamento dei corsi di istruzione stabiliti.
Poiché la direzione dell’istituto deve dare la possibilità a tutti di potervi partecipare, anche a chi è già impegnato nel lavoro o in altre attività interne, è necessario evitare una sovrapponibilità delle attività trattamentali e si devono regolamentare i trasferimenti degli studenti reclusi, in quanto il trasferimento resta una delle principali cause che spingono ad abbandonare gli studi.
Per quanto riguarda la scuola superiore vi è la possibilità di istituirla all’interno dell’istituto penitenziario, con le procedure previste dagli ordinamenti scolastici e “i più capaci e meritevoli hanno diritto a frequentare l’università. Per garantire a tutti la possibilità di studiare è prevista l’individuazione, all’interno dell’istituto penitenziario “i detenuti e gli internati, studenti
universitari, sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo, inoltre, disponibili per loro, appositi locali comuni” e possono essere autorizzati a tenere nella propria camera i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio.
L’Ordinamento Penitenziario e il relativo Regolamento di esecuzione prevedono l’organizzazione di corsi di scuola dell’obbligo e di addestramento professionale, mentre per quelli d’istruzione superiore usano un linguaggio meno prescrittivo: “possono essere istituite scuole di istruzione secondaria”. Impegnano ciascun istituto penitenziario a costituire una commissione didattica (composta da direttore, responsabile dell’area trattamentale e dagli insegnanti) con il compito di formulare il progetto di istruzione.
L’istruzione in carcere, oltre che un diritto costituzionale, è anche un elemento del “trattamento rieducativo” del condannato, cioè di un programma di interventi da attuare “secondo un criterio di individualizzazione”, al fine di “promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”. Nonostante ciò la normativa penitenziaria non riconosce con chiarezza all’istruzione quella priorità che meriterebbe in quanto diritto costituzionale, così come per il lavoro. In alcuni passi essa sembra essere concepita alla stessa stregua di altre attività “trattamentali”, quali quelle sportive e culturali. Se è vero che non si può obbligare degli adulti a recuperare la scolarità non completata, non si può accettare che la frequenza scolastica sia presentata al detenuto come una tra le tante opportunità di trattamento rieducativo, a cui per di più deve spesso rinunciare in caso di coincidenza con l’orario delle attività lavorative.
Con il Decreto interministeriale 12 marzo 2015 “Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento a sostegno dell’autonomia organizzativa e didattica dei Centri Provinciali per l’istruzione degli adulti” sono state definite le indicazioni per il passaggio della scuola in carcere al nuovo ordinamento dell’istruzione degli adulti, a norma del D.P.R. 29 ottobre 2012 n. 263
Il nuovo assetto organizzativo e didattico vede nei Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA) una tipologia di istituzione scolastica che realizza i percorsi di scuola primaria e di certificazione linguistica (Percorsi di primo livello) e – mediante specifici accordi con le istituzioni scolastiche di secondo grado – i percorsi di istruzione secondaria (Percorsi di secondo livello).
I Percorsi di istruzione di primo livello sono articolati in due periodi didattici e finalizzati:
al conseguimento, al termine del primo periodo didattico (della durata di 400 ore che possono essere incrementate con ulteriori 200 ore in assenza della certificazione conclusiva della scuola primaria), del titolo di studio conclusivo del primo ciclo di istruzione (ex licenza media inferiore);
al conseguimento, al termine del secondo periodo didattico (della durata di 825 ore) della certificazione attestante l’acquisizione delle competenze di base connesse all’obbligo di istruzione ex DM 139/07 relative alle attività ed agli insegnamenti generali comuni a tutti gli indirizzi degli istituti professionali e tecnici (biennio dei citati corsi di scuola media superiore). Per l’utenza straniera il nuovo assetto didattico prevede lo svolgimento di percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana, finalizzati al conseguimento di una certificazione attestante il raggiungimento di un livello di conoscenza della lingua italiana non inferiore al livello A2 del Quadro comune europeo (art. 4, comma 1, lett. c del Regolamento).La
loro durata è di 200 ore, di cui 20 da destinare ad attività di accoglienza, orientamento ed eventuale rinforzo per consentire agli allievi stranieri di fruire efficacemente del corso di studi. I Percorsi di istruzione di secondo livello sono finalizzati al conseguimento del diploma di istruzione tecnica, professionale e/o artistica e sono realizzati dalle istituzioni scolastiche presso le quali funzionano i percorsi di istruzione tecnica, professionale ed artistica, collegate ai CPIA mediante specifici accordi.
I Percorsi di secondo livello sono articolati in tre periodi didattici:
primo periodo didattico finalizzato all’acquisizione della certificazione per l’ammissione al secondo biennio del liceo artistico e/o dei percorsi degli istituti tecnici o professionali, in relazione all’indirizzo scelto dallo studente;
secondo periodo didattico finalizzato all’acquisizione della certificazione per l’ammissione all’ultimo anno del liceo artistico e/o dei percorsi degli istituti tecnici o professionali, in relazione all’indirizzo scelto dallo studente;
terzo periodo didattico finalizzato all’acquisizione del diploma di liceo artistico e/o di istruzione tecnica o professionale, in relazione all’indirizzo scelto dallo studente.
Il nuovo sistema, infine, intende valorizzare il patrimonio culturale e professionale della persona, mediante la ricostruzione della storia individuale ed il riconoscimento delle competenze/conoscenze acquisite. Prevede – infatti – che i percorsi di istruzione siano organizzati in modo tale da consentire la personalizzazione dell’iter formativo in base ad un Patto formativo individuale, la cui definizione spetta alla Commissione dei docenti.
Corsi di formazione professionale
Sono organizzati a seguito di accordi con le Regioni, gli Enti locali competenti e le Agenzie formative accreditate dalle Regioni, in base alle esigenze della popolazione detenuta ed alle richieste del mercato del lavoro.
Le Direzioni possono progettare anche attività formative per rispondere ad esigenze del lavoro penitenziario.
La realtà, però, è ben diversa: non si conoscono protocolli d’intesa recenti sulla materia e le commissioni educative non sempre funzionano come dovrebbero.
A causa poi del problema del sovraffollamento, non solo non esistono spazi che consentano lo studio e la concentrazione, ma in alcuni istituti mancano addirittura locali idonei (e anche quelli non idonei) e attrezzature.
Un altro aspetto particolarmente carente è quello relativo all’assenza di una formazione specifica, sia in ingresso che in itinere, degli insegnanti al cui senso di responsabilità è affidato la progettazione e la realizzazione dell’attività didattica. Quando il funzionamento di un servizio viene lasciato alle virtù dei singoli, è inevitabile che non funzioni come dovrebbe.
Studiare all’università
Portare l’Università in carcere, permettendo ai detenuti di studiare e di laurearsi, significa offrire alle persone che vivono in stato di detenzione una nuova opportunità di realizzare il loro potenziale e di riscattare il proprio futuro.
Il diritto dei detenuti a proseguire gli studi fino ad arrivare all’Università è uno di quei diritti espressi e garantiti almeno “sulla carta”.
In realtà la riforma dell’ordinamento carcerario del 1975 non parla di un vero e proprio “diritto” ma afferma solo che “è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed
equiparati”. Il DPR n.431 del 1976 dedica due articoli (il 42 e il 44) agli studi universitari e ribadisce che l’agevolazione debba concretizzarsi in “opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto e di sostenere gli esami”; afferma che gli studenti possono essere esonerati dal lavoro, a loro richiesta, che vengono rimborsate loro le spese sostenute per tasse, contributi scolastici e libri di testo e viene corrisposto “un premio di rendimento nella misura stabilita dal Ministero”.
Negli anni successivi, si avviano in Italia molte esperienze in differenti istituti attraverso l’impegno di un numero crescente di Università, ma poco cambia sul piano normativo.
Nel 2000, il DPR n. 230 aggiunge un comma all’art.44 e pone l’attenzione sull’esigenza di garantire alcune condizioni che rendano più facile l’impegno per lo studio: “I detenuti e internati, studenti universitari, sono assegnati, ove possibile, in camere reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo, inoltre, disponibili per loro, appositi locali comuni. Gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio”. È un passo avanti ma si usa ancora un linguaggio che mostra la mancata centralità del tema: “ove possibile”, “possono” essere autorizzati … nessun reale dovere è in capo ai responsabili degli istituti, sia per le situazioni dei detenuti “comuni”, sia, a maggior ragione, per quei detenuti che si trovano in sezioni connotate da esigenze di maggiore controllo (come i vari reparti per “protetti”, “incolumi”, collaboratori di giustizia, i reclusi nei circuiti dell’alta sicurezza o in 41 bis). L’unica disposizione formulata in termini indicativi, subordinata solamente all’impegno a superare gli esami e al versare in condizioni economiche disagiate, ovvero il rimborso delle spese sostenute per tasse, contributi e libri, non risulta mai applicata, né qualche detenuto studente ha mai ricevuto il previsto premio di rendimento.
In tempi più recenti, nonostante la questione del diritto allo studio universitario continua ad essere all’attenzione di molti, il tema continua ad essere trattato nei termini di una “agevolazione” e non di un diritto. L’unica variazione interessante è quella relativa all’art. 42 e riguarda i trasferimenti. Si prospettano due cose importanti: da un lato, l’esigenza di considerare lo studio (dunque anche la non interruzione di percorsi universitari avviati), tra i criteri da tenere in conto per la disposizione di trasferimenti; dall’altro, la necessità di dare risposta entro termini ragionevoli alle richieste di trasferimento per motivi di studio, per poter frequentare un corso di laurea in una università che offra questa opportunità ai detenuti che si trovano in un determinato carcere.
La realtà ancora una volta è, però, molto distante.
La situazione in Italia
La Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (CNUPP), istituita presso la CRUI il 9 aprile 2018, rappresenta la formalizzazione del Coordinamento dei responsabili di attività di formazione universitaria in carcere, con l’obiettivo di:
svolgere attività di promozione, riflessione e indirizzo del sistema universitario nazionale e dei singoli Atenei in merito alla garanzia del diritto allo studio delle persone detenute o in esecuzione penale esterna o sottoposte a misure di sicurezza detentive
offrire alle persone ristrette opportunità di percorsi universitari in maniera diffusa, anche in aree geografiche in cui oggi esse sono assenti o poco strutturate, affinché il diritto allo studio sia fruibile indipendentemente dall’istituzione penitenziaria in cui chi ne ha interesse si trova recluso.
Vengono perciò definite, partendo dalle buone prassi sperimentate e dalle molte criticità rilevate in ognuna delle esperienze sviluppate negli anni precedenti, delle linee-guida sulle condizioni che – in ogni Ateneo – possono meglio favorire percorsi di studio per questa particolare categoria di studenti, sostenere l’impegno di docenti e funzionari nell’organizzazione delle attività didattiche e delle pratiche amministrative e, non ultimo, favorire l’incontro tra l’universo carcerario e la comunità universitaria nel suo insieme.
Il protocollo d’intesa che definisce le modalità per il confronto permanente tra CNUPP e DAP è siglato nel Settembre del 2019.
La realtà dei Poli Universitari Penitenziari italiani, iniziata più di venti anni fa a Torino, è stata replicata, pur con differenze locali, in numerose altre sedi universitarie.
Nei quattro anni di vita della CNUPP – Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari-, gli Atenei aderenti con studenti attivi sono passati da 27 nel 2018/19 a 34 nel 2020/21 più 7 in fase di attivazione; gli Istituti Penitenziari in cui operano i Poli Universitari Penitenziari da 70 a 82; il numero di studenti iscritti da 796 a 1246 .Tra questi dati spicca l’incremento della componente femminile, che passa da appena 28 studentesse nel 2018-19 a 45 nel 2021-22, un calo rispetto al precedente A.A. nel quale erano 64.
MONITORAGGIO CNUPP A.A. 2021/2022
A.A. 2021/22 – UNIVERSITÀ ADERENTI A CNUPP CON ISCRITTI
1 Abruzzo – Università dell’Aquila
2 Abruzzo – Università di Teramo
3 Abruzzo – Università Gabriele D’Annunzio di Chieti e Pescara
4 Calabria – Università di Catanzaro – Magna Grecia
5 Calabria – Università della Calabria
6 Campania – Università della Campania “Luigi Vanvitelli”
7 Campania – Università di Napoli Federico II
8 Emilia-Romagna – Università di Bologna
9 Emilia-Romagna – Università di Ferrara
10 Emilia-Romagna – Università di Parma
11 Lazio – Università di Cassino e del Lazio Meridionale
12 Lazio – Università Roma Tre
13 Liguria – Università di Genova
14 Lombardia – Università di Brescia
15 Lombardia – Università di Milano
16 Lombardia – Università di Milano-Bicocca
17 Marche – Università “Carlo Bo” di Urbino
18 Piemonte – Università di Torino
19 Puglia – Università del Salento
20 Sardegna – Università di Cagliari
21 Sardegna – Università di Sassari
22 Sicilia – Università di Catania
23 Sicilia – Università di Messina
24 Sicilia – Università di Palermo
25 Toscana – Università di Firenze
26 Toscana – Università di Pisa
27 Toscana – Università di Siena
28 Toscana – Università per stranieri di Siena
29 Trentino-Alto Adige – Università di Trento
30 Umbria – Università di Perugia
31 Veneto – Università di Padova
32 Lazio – Università di Roma Tor Vergata
33 Lazio – Università di Roma La Sapienza
34 Lazio – Università della Tuscia
Tabella 1
A.A. 2021/22 – UNIVERSITÀ ADERENTI A CNUPP IN FASE DI ATTIVAZIONE
Emilia-Romagna – Università di Modena e Reggio Emilia
Marche – Università di Macerata
Piemonte – Università del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”
Puglia – Politecnico di Bari
Puglia – Università di Bari
Puglia – Università di Foggia
Sicilia – Libera Università della Sicilia Centrale “KORE” di Enna
Emilia-Romagna – Università di Modena e Reggio Emilia
Marche – Università di Macerata
Piemonte – Università del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”
Puglia – Politecnico di Bari
Puglia – Università di Bari
Puglia – Università di Foggia
Sicilia – Libera Università della Sicilia Centrale “KORE” di Enna
Tabella 2
La costituzione della CNUPP ha permesso agli Atenei impegnati a garantire il diritto agli studi universitari per le persone private della libertà personale di agire in maniera coordinata e interloquire sia con il sistema universitario sia con quello penitenziario. Le interazioni avviate con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in particolare con la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, ha permesso di siglare nel settembre del 2019 un protocollo d’intesa che definisce le modalità per il confronto permanente tra CNUPP e DAP. Nel 2021 sono state emanate le Linee guida sui percorsi di studio universitario delle persone in esecuzione pena e sulle modalità di collaborazione tra le Università, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria e gli Istituti Penitenziari.
Obiettivi della CNUPP nel prossimo futuro sono:
migliorare la qualità della formazione delle persone detenute impegnate in percorsi di studio universitario, anche attraverso modelli didattici innovativi; è in corso una prima sperimentazione per adottare strumenti per la didattica a distanza anche oltre la pandemia;
migliorare le performances degli studenti (diminuzione degli abbandoni, incremento degli esami sostenuti e del numero dei laureati);
lavorare al raccordo con l’istruzione secondaria superiore all’interno degli Istituti e Università.
Impegni sono inoltre previsti sul fronte della formazione del personale dell’Amministrazione Penitenziaria (polizia penitenziaria e operatori dell’area trattamentale), nonché per lo sviluppo di attività di ricerca sulle problematiche carcerarie.
La presenza delle Università nei luoghi di detenzione ha, in questo senso, una profonda valenza culturale per la più ampia riflessione sul significato della pena e dell’esecuzione penale; può
consentire di trasformare la detenzione da un tempo “sospeso” a un periodo fecondo, in cui il cittadino condannato possa intraprendere percorsi formativi anche di alto livello, che gli consentano di investire sul proprio capitale umano – strumento indispensabile per ridurre i rischi di recidiva – con benefici sia per il singolo che per la società. (Dal Comunicato stampa dell’Università del Salento sull’avvenimento)
Il diritto al lavoro. Il lavoro penitenziario da obbligo a privilegio
L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario, legge 26 luglio 1975 n. 354, individua il lavoro come uno degli elementi cardine del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa.
Nel nuovo regolamento del 2018, svolgere un’attività lavorativa diventa una condizione principale che deve essere sempre incoraggiata, in quanto, essendo il lavoro un elemento costitutivo nella nostra società, potrebbe favorire quel processo di reinserimento sociale di cui tanto si discute. L’intento del legislatore è quello di spingere il detenuto o l’internato a svolgere un lavoro qualificato e professionale, richiesto sul mercato del lavoro esterno. A tal proposito
«Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato» […] «l’organizzazione e i metodi di lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera». In più, il lavoro deve tener conto delle preferenze e delle attitudini personali, nonché delle attività svolte precedentemente. Il lavoro penitenziario – obbligatorio per i condannati – non viene più considerato come un fattore di ulteriore afflizione, piuttosto dovrà rispettare appieno i principi legati al reinserimento sociale. 128 Le ore di lavoro non possono superare i limiti stabiliti dalla legge e deve essere garantito il riposo festivo e la tutela previdenziale. Non viene riconosciuto il diritto alle ferie.
Nel nuovo OP il lavoro penitenziario, ad eccezione di quello in semilibertà, può esser svolto o come lavoro presso l’amministrazione penitenziaria, oppure come lavoro presso imprese pubbliche e private (ex art.21). Il lavoro esterno – ex art.21 OP – è un beneficio concesso dal direttore dell’istituto di pena, che consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa, anche autonoma, oppure per frequentare un coro di formazione professionale. La L.8 marzo 2001, n.40 ha introdotto la possibilità di ammettere al lavoro esterno le madri di bambini di età inferiore ai 10 anni (o i padri, se la madre è impossibilitata), per prestare assistenza ai figli (art.21 bis OP). Possono accedervi: gli imputati – previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria – i condannati e gli internati per reati diversi da quelli previsti all’art.4 bis OP, i condannati per i reati previsti all’art.4bis O – dopo l’espiazione di un terzo della pena e di non oltre 5 anni – i condannati all’ergastolo, dopo l’espiazione di almeno dieci anni. Gli altri possono accedervi solo in presenza di determinate condizioni previste dalla legge. L’ammissione al lavoro esterno deve essere prevista nel programma di trattamento.
Per quanto riguarda l’aspetto retributivo, la legge non parla di retribuzione ma di mercede e remunerazione, stabilendo che le mercedi siano equitativamente stabilite in misura non inferiore ai due terzi delle tariffe sindacali.
Ne abbiamo parlato a Lecce il 17 Giugno 2019 nell’Auditorium del Museo Castromediano in un incontro sul tema del lavoro in carcere, con particolare riferimento al lavoro di pubblica utilità, organizzato dalla C.C. Borgo San Nicola di Lecce.
Il tema del lavoro in carcere è di particolare rilevanza. Risorsa “rara” già fuori, nella società, il lavoro
è, dentro, un obiettivo particolarmente ambito ma molto difficile da raggiungere.
Durante l’incontro sono state analizzate tutte le potenzialità, ma anche tutte le criticità di una modalità di lavoro destinato ai detenuti, il lavoro di pubblica utilità, che la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 2018 ha scelto di incentivare.
Riporto qui il mio intervento.
Sentiamo parlare e leggiamo alternativamente di “lavoro carcerario”, “lavoro dei detenuti”, “lavoro penitenziario”, come fossero sinonimi; anche la letteratura di tipo scientifico, sociologico o giuslavorista, utilizza una di queste espressioni senza darne una definizione, esplicitarne il contenuto o indicarne l’ambito di applicazione. In realtà sono espressioni che contengono profonde differenze.
Proviamo a chiarirne l’ambito semantico di riferimento.
Fino alla grande Riforma del ’75, l’espressione più utilizzata anche in letteratura per indicare tutti quei rapporti di lavoro presenti negli istituti penitenziari, che vedono i detenuti in qualità di prestatori di lavoro, è stata “lavoro carcerario”.
A partire dal 1975, però, lo stesso termine “carcere” scompare quasi completamente sia dai testi della legge di riforma n.354, sia dai successivi Regolamenti attuativi, quasi a voler eliminare ciò che la parola richiamava con il suo riferimento alla radice latina del termine, il verbo coercere, costringere, rinchiudere, che evocava un luogo chiuso, marcato da afflizione, punizione, segregazione. Qualcosa che, in quel contesto di riforma, appariva in contrasto con i nuovi orientamenti che attribuivano alla pena una finalità principalmente rieducativa.
In realtà la parola “carcere” e il corrispondente aggettivo rimangono soprattutto nel linguaggio comune e non scompaiono del tutto neppure nella letteratura per indicare sia gli istituti penitenziari che tutto ciò si riferisce alla pena detentiva.
Successivamente all’emanazione dell’Ordinamento Penitenziario, l’espressione “lavoro carcerario” viene percepita per così dire come antiquata ma soprattutto come inadeguata ad esprimere il senso della complessità delle situazioni cui si riferiva, poiché limitava il suo raggio di riferimento al solo rapporto di lavoro posto in essere all’interno degli istituti penitenziari, lasciando fuori tutti quei rapporti di lavoro che si svolgono all’esterno o sono prestati da soggetti beneficiari di una misura alternativa alla detenzione.
Buona parte della dottrina, da quel momento, ha preferito adottare l’espressione “lavoro dei detenuti”, ritenendola più adeguata e inclusiva di molte delle situazioni che caratterizzano i rapporti di lavoro e le attività svolte dai soggetti in esecuzione penale, non solo dentro il carcere ma anche all’esterno, sia per il tempo strettamente necessario alla prestazione dell’attività lavorativa, sia nelle situazioni di semilibertà.
In realtà l’espressione “lavoro dei detenuti” non comprende tutta la casistica esistente: non rientrano nella nozione di “lavoro dei detenuti” tutte quelle situazioni che vedono coinvolti come prestatori di lavoro detenuti in affidamento ai servizi sociali e quindi formalmente “scarcerati”, il lavoro di pubblica utilità e tutte quelle forme di lavoro prescritte, con finalità rieducativa e risarcitoria, in sostituzione della pena detentiva.
Anche per questi motivi, numerosi autori hanno ritenuto più corretto utilizzare l’espressione “lavoro penitenziario” che consente di includere in questa definizione la maggior parte delle occorrenze possibili.
L’espressione è mutuata dalla definizione utilizzata nel Libro bianco sull’organizzazione e la gestione delle lavorazioni penitenziarie che parla di “prison work” (prizen weark) e lo definisce
come “l’attività intrapresa da una persona sottoposta a misure di restrizione della libertà” e quindi non necessariamente di tipo detentivo.
Rientrano, infatti, in questa definizione i rapporti di lavoro riguardanti i detenuti beneficiari di una misura alternativa alla detenzione. Possono, infine, rientrare a buon diritto nella categoria del lavoro penitenziario tutte quelle forme di lavoro prestate da soggetti condannati alla pena del lavoro sostitutivo o al lavoro di pubblica utilità, anche se in questo caso il riferimento alla parola “lavoro” è in senso lato, trattandosi di attività prestate a titolo gratuito a favore di istituzioni, associazioni o cooperative.
Pur essendo quella inclusiva, anche questa espressione lascia fuori alcune situazioni, anzi nello specifico non vi fa esplicito riferimento: non distingue tra coloro che sono sottoposti alla misura cautelare della custodia in carcere, e coloro che si trovano nelle case di reclusione, in quanto condannati a sentenza definitiva; non fa menzione di chi è sottoposto alle misure di sicurezza né degli internati nelle case di lavoro e nelle colonie agricole o comunque sottoposti a misura di sicurezza detentiva. Non rileva, infine, la diversa natura del datore di lavoro, che potrà essere tanto la stessa amministrazione penitenziaria, un’impresa pubblica o privata, o una cooperativa. È chiaro dunque che quando parliamo di lavoro riferendoci alla realtà penitenziaria dobbiamo comunque e sempre aggiungere un’altra parola, un aggettivo che lo connoti e lo definisca: è un po’ come diceva Troisi nella famosa scena dell’Annunciazione, “scusate, ma è possibile che a Napoli solo lavoro non se ne trova, sempre co’ n’ata parola vicina addà sta”.
Nel caso dei detenuti il linguaggio ancora una volta marca profondamente la differenza tra il lavoro svolto da chi è in stato di libertà e il lavoro dei detenuti che, appunto, ha bisogno sempre di un’altra parola vicino.
Eppure l’art. 27 della Costituzione non consente alcun dubbio al riguardo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e l’Ordinamento Penitenziario afferma che il trattamento (cioè l’insieme delle azioni che devono favorire il reinserimento sociale) del condannato deve (sarebbe meglio dire dovrebbe) essere svolto principalmente mediante il lavoro, che deve essere assicurato al detenuto e deve essere remunerato.
Già nella sua vecchia formulazione, l’art. 20 dell’O.P. comma V dispone che l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario debbano riflettere quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolare il loro reinserimento sociale.
È, dunque, un lavoro quanto più possibile simile a quello prestato nella società esterna quello che il Legislatore ha previsto, ritenendo che solo in questo modo avrebbe potuto essere uno strumento utile per il reinserimento del detenuto nella società, una società fondata sul lavoro. Non è sempre stato così: per lungo tempo il lavoro dei detenuti è stato considerato non riconducibile alla categoria del rapporto di lavoro di diritto comune. Una tale assimilazione era impedita dalla natura stessa dell’attività lavorativa in carcere, a lungo considerata parte costitutiva della pena e come tale finalizzata essenzialmente all’afflizione del detenuto.
Considerato un’attività tipica della condizione schiavile, il lavoro era inquadrato, nella Roma imperiale, tra le sanzioni previste dal diritto “penale” che, pur non privando il reo della vita, produceva una vera e propria capitis deminutio del reo, ovvero la perdita del proprio status civile di libero e implicava la perdita dei beni e di ogni capacità giuridica.
La condanna era quella che potremmo chiamare ai lavori forzati, il lavoro rappresentava l’essenza stessa della pena.
Sia tra i Greci che tra i Romani accanto ai Tribunali era presente l’ergastulum, (dal greco ergastérion), cioè un luogo di lavoro, bottega, laboratorio, nel quale vi era la perfetta sovrapposizione della sanzione criminale al concetto di «destinazione ad un luogo di lavoro», secondo un’idea che sarà accolta anche molto tempo dopo.
Abbandonato durante il medioevo, sostituito da condanne esemplari e spettacolari, è solo in età moderna che il binomio lavoro e carcere diviene inscindibile.
Nell’Inghilterra elisabettiana e nell’Olanda della prima metà del XVII secolo nascono le case di correzione, le house of corrections, basate sull’utilizzo del lavoro come elemento di correzione ma in realtà con la funzione di calmierare il salario libero, controllare la forza lavoro, educare e ammaestrare intere generazioni di lavoratori a bassissimo costo.
È in questo momento che carcere e lavoro si legano fortemente tra loro. Il carcere si trasforma in una realtà produttiva assai simile alle fabbriche per organizzazione del lavoro e modalità produttiva, nel mentre le fabbriche diventano istituti sempre più totalitari, non dissimili da altre istituzioni quali le scuole, gli ospedali, le carceri.
Le case di correzione si diffusero nel resto d’Europa (Germania, Austria, Francia e in alcune zone dell’Italia), sul modello di quelle inglesi e olandesi, trovando nel limitato e tardivo sviluppo del manifatturiero e nel diffondersi dell’etica protestante basata sul lavoro una solida base ideologica alla crescita del lavoro all’interno degli istituti correzionali. Il lavoro, pur gestito spesso in maniera improduttiva, venne reso obbligatorio anche in alcune carceri vere e proprie, destinate ad ospitare gli autori di reati anche gravi.
Il legame tra carcere e lavoro cominciò ad incrinarsi già dalla fine del XVII secolo.
Nel tempo, lo sviluppo industriale e la scarsa produttività del lavoro penitenziario avevano trasformato progressivamente le work house in vere e proprie “house of terror”. La loro funzione non era più quella di utilizzare la forza lavoro internata, quanto quella di reprimere la povertà e fungere da deterrente a condotte di tipo delinquenziale o anche solo immorali e il lavoro era diventato solo uno strumento di intimidazione e controllo.
Negli Stati italiani, soprattutto in quelli più sviluppati, si moltiplicarono, in tutto il XVIII secolo, i tentativi di utilizzare produttivamente la manodopera reclusa.
A Milano vengono costruiti un ergastolo e una casa di correzione; nel 1786 in Toscana la pena di morte fu sostituita con i lavori forzati, nel mentre nel Regno di Napoli, in un contesto ancora largamente feudale, le condizioni delle carceri, affollatissime, rimanevano particolarmente gravi e la forca continuava instancabilmente a decimare i poveri.
Pur privo di una adeguata redditività economica, il lavoro penitenziario rimase presente in molte forme in tante realtà carcerarie italiane sempre come lavoro coatto, privo di redditività, finalizzato al disciplinamento dei corpi e delle menti piuttosto che alla loro rigenerazione.
Solo nel 1889, i lavori forzati furono eliminati dal nostro ordinamento, ma si continuò a ritenere il detenuto non un lavoratore a pieno titolo, ma (cito) “un “lavorante”, ovvero un soggetto in punizione che si preferisce non resti inoperoso”.
La “Carta del lavoro carcerario” del 1931, con i suoi principi ispiratori della disciplina del lavoro dei detenuti, sostanzialmente non muta le prescrizioni previste dal precedente regolamento carcerario del 1891. Il lavoro è visto come fattore rieducativo o di redenzione morale, in grado di ridurre la pigrizia, regolarizzare la vita del reo e distrarlo da cupe meditazioni. Permane il collegamento stretto tra lavoro e pena, mentre, dal punto di vista economico, si passa dalla gratificazione per il lavoro svolto alla mercede, utilizzando un concetto di reciprocità solo apparente.
L’utilizzo del termine “mercede”, in sostituzione di “retribuzione”, termine ancora oggi utilizzato per definire l’onerosità del lavoro svolto nella società libera, rappresenta una delle contraddizioni presenti nel sistema di definizione dei rapporti all’interno delle relazioni carcerarie. Ancora una volta è il linguaggio a marcare la differenza. Da una parte il legislatore ha inteso riconoscere e valorizzare la dimensione “reale” del lavoro penitenziario, che in ipotesi di gratuità sarebbe rimasto del tutto simile al lavoro forzato, ma lo fa utilizzando un altro termine, ovvero “mercede”, a voler evidenziare la differenza fra le due forme di remunerazione del lavoro, segnando quasi l’impossibilità a equiparare il lavoro penitenziario a quello generale del lavoro nell’impresa.
La grande svolta nella regolamentazione del lavoro penitenziario è rappresentata dalla riforma dell’Ordinamento Penitenziario del ’75, che rappresentò lo storico passaggio dal concetto di lavoro carcerario in funzione strettamente punitiva a quello di lavoro carcerario inteso come elemento cardine di un più generale trattamento rieducativo. Proprio a tal fine, la legge stabilisce che, l’organizzazione del lavoro penitenziario debba riflettere quella del lavoro presente nella società libera, prescrive che debba essere remunerato e che non debba avere carattere afflittivo.
Il lavoro è perciò obbligatorio ma non costrittivo: più che un obbligo del detenuto, sembra essere un dovere delle Amministrazioni penitenziarie che devono impegnarsi nel soddisfare tale necessità. Il c. 2 dell’art. 15 della L. n. 354 del 1975 recita «Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro».
Il lavoro cui la legge fa riferimento rimane, tuttavia, tutto nella dimensione della subordinazione e dell’eterodirezione; la forma del lavoro autonomo, pur prevista accanto a quello subordinato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o alle dipendenze di terzi, non è articolata in modo adeguato e rimane una modalità eccezionale di esecuzione del lavoro penitenziario.
I contenuti della riforma sono stati arricchiti negli anni da ulteriori leggi e da sentenze della Suprema Corte che ne hanno ampliato e rafforzato la portata.
L’art. 6 della Legge Gozzini del 1986 sostituiva completamente l’originario l’art. 21 (modalità di lavoro) della legge n. 354/1975, dando un contributo importante soprattutto in materia di lavoro all’esterno e di retribuzione, mentre la legge n. 296 del 1993 incentivava la qualificazione professionale della forza lavoro detenuta attraverso l’apertura del carcere ad imprese private, incaricate, a fianco di aziende pubbliche, di tenere corsi di formazione professionale e di organizzare direttamente il lavoro penitenziario.
Nel 2000, infine, la legge Smuraglia (legge 22 giugno 2000 n. 193), al fine di favorire lo sviluppo del lavoro penitenziario, guarda in direzione delle cooperative sociali, non solo invogliando le imprese ad assumere detenuti grazie agli sgravi e ai contributi, ma anche sostenendole nella ricerca di una soluzione ai tanti limiti imposti dal sistema carcerario, che vanno a penalizzare chi investe nel lavoro penitenziario.
La premessa dell’intervento riformatore, tuttavia, è che il lavoro penitenziario, se svolto con le modalità del lavoro libero, quindi senza alcun aiuto statale, ha esigue possibilità di essere minimamente redditizio e di sopravvivere. In realtà da sempre esso soffre di un cronico e gravissimo problema di effettività, determinato principalmente dallo scarso sviluppo del mercato del lavoro penitenziario, sia in termini di numero di posti lavorativi che di qualità dell’offerta.
Le modifiche all’ordinamento apportate dal decreto 124 dello scorso settembre sono tante, ma non hanno modificato sostanzialmente la disciplina in merito.
Il cambiamento più significativo sembra essere quello relativo all’introduzione di un nuovo art., il 20-ter, che disciplina dettagliatamente il lavoro di pubblica utilità, sino a ora diffuso solo come sanzione penale sostitutiva.
A prima vista, il lavoro di pubblica utilità sembra uno degli strumenti maggiormente idonei a realizzare la finalità rieducativa della pena. L’idea che “il lavoro nobilita l’uomo” può essere assunta, senza eccessive difficoltà, come filo conduttore di un percorso trattamentale ispirato ai principi di individualizzazione e risocializzazione. Ciò nonostante, il lavoro di pubblica utilità per molto tempo non ha conosciuto un’applicazione significativa, almeno sotto il profilo strettamente quantitativo.
In realtà la considerazione delle difficoltà del lavoro penitenziario in termini di effettività, accompagnata dalla fiducia nell’alta valenza risocializzante delle attività lavorative di pubblica utilità, aveva già indotto la Commissione Giostra a valorizzare questa forma di lavoro che sembrava riuscire a tenere insieme le due diverse esigenze.
Il decreto n.124/2018 riprende l’idea della Commissione ma non va nella stessa direzione.
La difformità più evidente è connessa con la sua collocazione: il LPU, previsto in origine come modalità di lavoro all’esterno, viene ora raffigurato come un elemento del trattamento e quindi ‘sganciato’ dal lavoro all’esterno; il suo ambito di operatività viene ampliato e il lavoro potrà svolgersi anche all’interno degli istituti con la partecipazione anche di detenuti che non hanno i requisiti per essere ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21; rimangono le limitazioni all’accesso alla partecipazione a tali programmi, lasciando un’ampia discrezionalità al magistrato di sorveglianza nella valutazione circa l’ammissione al programma.
Scompare, invece, completamente, qualunque riferimento a un possibile aumento dello sconto di pena riconosciuto a titolo di liberazione anticipata per coloro che ‘proficuamente’ partecipano a tali progetti.
A fronte di una auspicata maggiore attenzione, espressa nella sua relazione da parte del Garante Nazionale nei confronti del lavoro penitenziario, ai percorsi di formazione professionale, all’inserimento all’interno degli Istituti lavorazioni di aziende piccole, medie e grandi attraverso incentivi fiscali, al sostegno al lavoro esterno attraverso l’applicazione di misure alternative, la situazione continua ad essere di segno opposto a quella da lui e da molti auspicata.
La realtà ci dice che solo 18.404 delle 60.002 persone presenti nelle carceri italiane svolgono un lavoro, il 31% meno di un terzo. La stragrande maggioranza dei detenuti lavoratori presta la propria attività per la stessa Amministrazione penitenziaria e, per lo più, all’interno dell’istituto. Secondo i dati pubblicati da Antigone nel maggio 2019, vi sono attualmente ben 17 istituti (pari al 20%) in cui non ci sono lavoratori alle dipendenze di soggetti diversi dall’amministrazione. L’82% di queste 18mila persone lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, ma non percepisce un salario intero (il termine carcerario è mercede), poiché l’orario effettivo non supera le due o tre ore giornaliere e si lavora solo per alcuni mesi l’anno, per ruotare con altri e permettere a più persone di lavorare. A conti fatti, alla fine del mese, dopo aver sottratto la quota per il mantenimento (3,62 euro al giorno, cioè 108,6 euro al mese), la mercede spettante alla persona detenuta è intorno a 200 o 300 euro mensili.
I lavori negli istituti carcerari sono in genere lavori a bassa qualifica; vanno dalla pulizia delle sezioni, alla distribuzione del vitto, ad alcune mansioni di segreteria e alla “manutenzione ordinaria delle carceri” (Mof).
I lavori svolti all’esterno sono pochi e svolti prevalentemente in modalità sostanzialmente gratuita. I detenuti che lavorano sono definiti lavoranti, non lavoratori, a sottolineare la separazione tra dentro e fuori.
Da obbligo coercitivo, parte integrante della pena, come è stato per molti secoli, il lavoro penitenziario, divenuto per una breve stagione dovere dell’Amministrazione e in un certo qual modo un diritto per il detenuto, sembra oggi diventato un privilegio di pochi che rischia di tornare ad essere uno strumento di controllo più che di risocializzazione. Un privilegio da elargire a chi adeguatamente si conforma alle regole carcerarie, un premio da concedere in un sistema ordinato di turnazioni la cui interruzione, del tutto necessaria, va inserita in un sistema di giustizia distributiva che non prevede, al momento della sua interruzione, alcuna forma risarcitoria.
Il diritto alla salute
Nella Costituzione italiana il diritto alla salute della persona umana è qualificato come diritto fondamentale dall’art. 32; sempre nella Costituzione è fatto obbligo alla Repubblica di tutelarlo e di offrire cure gratuite agli indigenti. Quale diritto fondamentale nelle tradizioni costituzionali dei Paesi europei, il diritto alla salute è, poi, espressamente riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’art. 35 ed è presente, in via interpretativa, negli articoli 2, 3 e 8 della C.E.D.U.
Il diritto alla salute di coloro che si trovano in condizione di privazione della libertà trova quindi tutela e garanzia quale diritto inviolabile della persona, ma, in carcere, incontra numerosi limiti sia per quanto riguarda l’organizzazione dei servizi sanitari sia per le esigenze di tutela di altri interessi legati allo stato di detenzione, come le esigenze di sicurezza, che spesso diventano primarie rispetto al diritto di tutela della salute.
Il diritto alla salute, dunque, si configura come valore costituzionale supremo ascrivibile all’integrità psico-fisica della persona e, in quanto tale, non può essere compromesso neppure da esigenze finanziarie che, se pur nel bilanciamento dei diversi interessi, non possono determinare la compressione del nucleo irriducibile del diritto alla salute delle persone detenute, diritto protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana.
L’assistenza sanitaria in carcere e il riordino della medicina penitenziaria
La responsabilità della gestione e l’organizzazione dei servizi sanitari interni agli Istituti penitenziari rimane incardinata nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fino alla fine degli anni ’90, periodo in cui cresce un movimento di opinione a favore del passaggio delle competenze al Sistema sanitario nazionale. Un movimento che, partendo dall’esperienza di singoli e passando attraverso le associazioni di volontariato attive nelle carceri, arriva a coinvolgere Enti locali, sindacati, autorità politiche.
Si arriva così al Decreto Legislativo 22 giugno 1999, n. 230 di riordino della medicina penitenziaria, a norma dell’articolo 5, della legge 30 novembre 1998, n° 419 che, ispirandosi all’art. 32 della Costituzione, sancisce il passaggio del personale sanitario e delle risorse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale.
Il decreto così recita:
Articolo 1 Diritto alla salute dei detenuti e degli internati
I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla
base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali.
Il Servizio Sanitario Nazionale assicura, in particolare, ai detenuti ed agli internati: a) livelli di prestazioni analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi; b) azioni di protezione, di informazione e di educazione ai fini dello sviluppo della responsabilità individuale e collettiva in materia di salute; c) informazioni complete sul proprio stato di salute all’atto dell’ingresso in carcere, durante il periodo di detenzione e all’atto della dimissione in libertà; d) interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e sociale; e) l’assistenza sanitaria della gravidanza e della maternità, anche attraverso il potenziamento dei servizi di informazione e dei consultori, nonché appropriate, efficaci ed essenziali prestazioni di prevenzione, diagnosi precoce e cura alle donne detenute o internate; f) l’assistenza pediatrica e i servizi di puericultura idonei ad evitare ogni pregiudizio, limite o discriminazione alla equilibrata crescita o allo sviluppo della personalità, in ragione dell’ambiente di vita e di relazione sociale, ai figli delle donne detenute o internate che durante la prima infanzia convivono con le madri negli istituti penitenziari.
Ogni Azienda unità sanitaria locale, nel cui ambito è ubicato un istituto penitenziario, adotta un’apposita Carta dei servizi sanitari per i detenuti e gli internati. Ai fini della predisposizione della Carta dei servizi sanitari le Aziende unità sanitarie locali e l’amministrazione penitenziaria promuovono consultazioni con rappresentanze di detenuti ed internati e con gli organismi di volontariato per la tutela dei diritti dei cittadini.
I detenuti e gli internati conservano l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale per tutte le forme di assistenza, compresa quella medico – generica.
Sono iscritti al Servizio sanitario nazionale gli stranieri, limitatamente al periodo in cui sono detenuti o internati negli istituti penitenziari. Tali soggetti hanno parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai cittadini liberi, a prescindere dal regolare titolo di permesso di soggiorno in Italia.
I detenuti e gli internati sono esclusi dal sistema di compartecipazione alla spesa delle prestazioni sanitarie erogate dal Servizio sanitario nazionale
Dal 1 Aprile del 2008 la salute delle persone detenute diviene formalmente e definitivamente una competenza del Servizio sanitario nazionale, portandosi dietro tutti i vantaggi ma a volte acuendone le criticità.
L’attribuzione della sanità penitenziaria alle competenze del Servizio Sanitario Nazionale sembra aver realizzato una svolta, rimasta, fino a questo momento, in larga parte simbolica, almeno nella misura in cui pretende di estendere ai soggetti ristretti un modello di tutela pensato e realizzato per i soggetti liberi. Nella quotidianità della detenzione permangono sostanziali criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa.
Il problema centrale, dunque, con riferimento alle persone recluse, è quello della prevalenza delle esigenze di sicurezza, che creano una situazione di limitazione dell’espressione del diritto alla salute inteso come valore supremo e, in special modo, del diritto ai trattamenti sanitari, che si traduce nella richiesta dell’ottenimento di trattamenti di miglior livello rispetto a quelli che gli operatori sono in grado di fornire; nel diritto a vivere in un ambiente salubre; nel rifiuto di
trattamenti sanitari non imposti dalla legge; nel diritto a lasciarsi morire; nel diritto a rifiutare ogni forma di accanimento terapeutico.
Con specifico riferimento alla posizione del detenuto, l’esigenza della sicurezza in concreto può determinare una limitazione nella fruizione di tutti i diritti in questione, principalmente in ordine alla possibilità di scegliere il luogo della cura, che è effettuata dall’amministrazione penitenziaria e dall’autorità giudiziaria tenendo conto proprio delle esigenze di sicurezza nonché dell’adeguatezza o meno del servizio sanitario penitenziario rispetto al caso concreto. Nel contesto di detenzione, la peculiarità della situazione è tale che il detenuto rispetto al libero cittadino è limitato in quanto per lui esiste una:
impossibilità di scegliere il luogo di cura: è un diritto per il cittadino. L’Amministrazione penitenziaria e l’Autorità giudiziaria scelgono per il detenuto. –
limitazione del diritto alla scelta del medico curante. Per il detenuto invece è “obbligatorio” rivolgersi alle cure dei medici penitenziari. Se ha possibilità economiche la legge offre possibilità alternative.
Queste limitazioni sono motivate da ragioni di sicurezza che, se pur “ragionevoli”, restringono di molto la tutela del diritto alla salute, che ha a che vedere anche con il rifiuto dei trattamenti sanitari non imposti dalla legge, che discende a contrario dall’art. 32 c.p.v., sul diritto a lasciarsi morire, sul divieto di accanimento terapeutico e sul diritto all’ambiente salubre.
Data la particolare condizione della persona detenuta, costretta entro l’istituto di pena, il diritto alla salubrità dell’ambiente dovrebbe, invece, avere maggior rilievo: partendo dal presupposto che salute e vita in un ambiente insalubre sono oggi considerate incompatibili, visto che la vita in carcere si svolge (in questo caso) prevalentemente in un ambiente interno, negli istituti di pena deve essere assicurata una condizione che non contraddica tali esigenze.
Il diritto all’ambiente salubre emerge, perciò, come diritto a vivere in un ambiente “degno e dignitoso” per una persona umana o, più semplicemente, come diritto a vivere una vita “degna di un essere umano”.
È proprio a questi principi che si richiamano, almeno sulla carta, le disposizioni dell’ordinamento penitenziario che riguardano le modalità di realizzazione dei nuovi edifici penitenziari, che devono, ad esempio, assicurare la differenziazione tra locali di soggiorno e di pernottamento (artt. 5 e 6 O.P.), ma anche, più in generale, le prescrizioni rivolte a salvaguardare la salute del detenuto e a contenere le cause che potrebbero determinare il crearsi di un ambiente insalubre, quali quelle relative al vestiario e al corredo da fornire a ciascun detenuto (art. 7 O.P.), all’uso dei servizi igienici e alle forniture di oggetti necessari alla pulizia personale (art. 8 O.P.), alle caratteristiche dell’alimentazione e alla somministrazione del vitto (art. 9 O.P.), alla permanenza all’aria aperta per un determinato tempo giornaliero (art. 10 O.P.). Nella realtà di quasi tutti gli istituti penitenziari, invece, il diritto alla salvaguardia della salute e alla cura delle persone ristrette incontra notevoli difficoltà e ostacoli. Proviamo a evidenziarne alcuni.
I tempi della risposta al bisogno: il rapporto (numerico) tra medico di reparto e pazienti è inadeguato e può creare problemi al verificarsi di alcune circostanze: generalmente si fa riferimento ai casi in cui si presentino due (o più) urgenze contemporaneamente oppure alle chiamate notturne. Accade non di rado che, intervenuto per primo il personale di sorveglianza, sia interpellato un infermiere che, in caso di effettiva necessità dell’intervento, provvede a coinvolgere il medico di guardia che, se impegnato con altra emergenza o distante dal luogo del richiesto intervento, non può intervenire in tempi rapidi ed efficaci.
La continuità terapeutica: l’attivazione di un sistema nazionale di cartelle cliniche digitalizzate, già previso nel D.P.C.M. del 2008 e ormai da tempo nell’agenda politica, non può più essere rinviato. Attualmente, la cartella clinica informatizzata per i detenuti esiste in Emilia Romagna e, in via sperimentale, in Toscana. I vantaggi derivanti dalla digitalizzazione delle cartelle cliniche sarebbe molteplici e di notevole impatto: si abbatterebbero costi di natura monetaria (spese di fotocopiatura, spese per la ricomposizione del fascicolo cartaceo ex novo in caso di dispersione di materiale o danneggiamento, costi da affrontare per effettuare nuovamente visite o esami di cui non si rinvengano i referti medici) e si eviterebbero ritardi nella trasmissione delle cartelle nonché i rischi (di salute) connessi all’eventuale perdita di documentazione importante.
Un profilo problematico inerente la continuità terapeutica è rilevabile nelle procedure seguite per consentire l’ingresso nell’istituto penitenziario del medico di fiducia del detenuto, procedure che rendono, in molti istituti, l’utilizzazione di un medico di fiducia esterno come medico curante una pratica impossibile, sia per i tempi molto lunghi per ottenere il permesso sia perché l’autorizzazione viene interpretata come permesso di ingresso valido per una sola visita del medico di fiducia e ogni volta si deve ripetere lo stesso, lungo, iter.
L’esigenza di offrire assistenza psicoterapica: se il sostegno psicologico è garantito al soggetto detenuto attraverso l’opera dell’educatore, degli esperti e a volte dei volontari, non è nei fatti garantita l’assistenza psicoterapeutica, che consenta a tutti i detenuti che soffrono di disagi profondi, pregressi e/o connessi allo stato detentivo, di intraprendere un percorso individualizzato e scandito da incontri periodici, a orario definito, nell’ambito del quale un operatore specializzato si occupi precipuamente della persona e delle sue fragilità.
Il problema della tutela della salute delle persone detenute è un problema congenito. Sappiamo che il carcere è un’istituzione patogena, a prescindere da tutte le problematiche sanitarie, per via della reclusione, della ristrettezza degli ambienti di vita, dell’impossibilità di svolgere attività motoria significativa.
Il principio generale che l’assistenza sanitaria in carcere sia equivalente a quella esterna è un principio sacrosanto, che bisogna perseguire. Oggi la sfida più importante per la sanità penitenziaria, così come per la medicina territoriale, è il potenziamento degli strumenti della telemedicina, come richiesto pure dal Pnrr al Sistema sanitario nazionale, strumenti che consentono di migliorare, attraverso l’uso di nuove tecnologie, l’assistenza sanitaria dei detenuti.
La salute mentale in carcere
Nonostante la salute sia un diritto umano e costituzionale garantito per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizioni, valido “fuori” e “dentro” le mura, la salute mentale in carcere è ancora un’area particolarmente critica e in grande sofferenza, da parte di tutti.
Proprio per tutte le cose che abbiamo detto fin qui, carcere e la salute mentale sono in realtà incompatibili, pertanto le persone affette da gravi problemi psichiatrici dovrebbero scontare la pena in luogo diverso dal carcere. In carcere dovrebbero rimanere i detenuti affetti da patologie meno gravi, ai quali deve essere garantita una adeguata cura. Va inoltre ricordato che la salvaguardia della salute mentale non coincide con l’assistenza psichiatrica, per quanto importante essa sia: l’invito è a predisporre un ambiente sufficientemente adeguato a mantenere l’equilibrio psichico delle persone detenute e a non aggravare lo stato di chi già soffre di disturbi, assicurando in primo luogo condizioni dignitose di detenzione e il rispetto dei diritti umani fondamentali.
Con la riforma del 1975, scompare il vecchio manicomio giudiziario, rinominato Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.): cambia il punto di vista sul detenuto che da soggetto prevalentemente da punire passa a persona principalmente da curare. Sono previste anche misure che accompagnino il detenuto nel passaggio alla vita libera, con la previsione di periodi di semilibertà per consentirgli la partecipazione ad attività di tipo riabilitativo.
Il 1978 è l’anno della grande riforma Basaglia: con la legge 180 si chiudono ufficialmente gli Ospedali Psichiatrici e si definiscono le norme per il passaggio dei pazienti psichiatrici alle strutture del territorio previste dalla legge.
La svolta epocale si è avuta nel 2003, quando la Corte costituzionale, sentenza n. 253, stabilisce che il ricovero in O.P.G. non deve essere utilizzato in modo automatico e rigido, come un obbligo di legge, ma va personalizzato e valutato nel percorso terapeutico del singolo detenuto. Nel 2008 con il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria, per riconoscere gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari come parte integrante della medicina penitenziaria e di conseguenza incaricare le Regioni di prevedere percorsi riabilitativi per i pazienti dimissibili dal regime carcerario.
Abbiamo, però, dovuto aspettare fino al 31 marzo 2015 per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) mentre è ancora in atto la lenta transizione alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), previste dalla legge di riforma, da attivare attraverso una collaborazione tra il Ministero di Giustizia e il Ministero della Salute.
Cosa sono e come funzionano le REMS
Le REMS sono strutture sanitarie adibite all’accoglienza di autori di reato ritenuti infermi o seminfermi di mente, nonché socialmente pericolosi, alla luce dei criteri delineati dall’art. 133
c.p. Sono vere e proprie istituzioni deputate alla riabilitazione dei soggetti ospitati, mediante l’attuazione di progetti individuali, nelle quali l’attenzione primaria è posta alla malattia psichiatrica piuttosto che al reato e alla pena.
La gestione interna è di esclusiva competenza sanitaria mentre la parte perimetrale è affidata al servizio di vigilanza e sicurezza organizzato dalle singole Regioni in accordo con le Prefetture. Ogni modulo dell’area abitativa prevede massimo 20 posti letto e deve esserci uno spazio verde esterno dedicato agli ospiti che risponda a determinati requisiti di sicurezza. L’équipe è multidisciplinare con presenza nella struttura 24 ore su 24. Nel corso del percorso clinico giudiziario il giudice deve svolgere la funzione di garante e supervisore e deve fare in modo che le esigenze di controllo e sicurezza restino ben distinte da quelle di cura e protezione.
Alla data di settembre 2022 sono attive in Italia 30 REMS e ospitano pazienti detenuti. In realtà i posti disponibili sono pochi a fronte di una richiesta di gran lunga superiore che crea, spesso, lunghe liste d’attesa e determina una situazione molto pregiudizievole per i detenuti, che vengono lasciati in attesa di destinazione ad una residenza anche per lunghi periodi, aggravando le loro condizioni di salute e sottoponendo ad uno stress terapeutico e gestionale gli istituti che li ospitano, già oberati da mille difficoltà.
Nella tabella l’elenco delle Rems per regione.
Molti dubbi e criticità sono ancora presenti nell’organizzazione di tali realtà anche perché non ci sono degli standard nazionali ai quali riferirsi e nemmeno un monitoraggio del loro andamento. Il personale non ha sempre una formazione specifica che richiederebbe la particolare tipologia di paziente.
Il rischio è che nel loro interno si riformi un microsistema di tipo carcerario gestito però da personale socio – sanitario. Questo può portare a confusione e ad una gestione poco adeguata.
Il diritto a professare la propria religione
La riforma del ’75 apporta delle modifiche anche per quanto concerne la religione, infatti, per la prima volta, si riconosce la libertà di culto dei detenuti. Il nuovo regolamento di esecuzione
– DPR 30 giugno 2000, n.230, all’art.58 del regolamento esecutivo, prevede che: “I detenuti e gli internati hanno diritto a partecipare ai riti della loro confessione religiosa purché compatibili con l’ordine e la sicurezza dell’istituto e non contrari alla legge, secondo le disposizioni del presente articolo. È consentito ai detenuti e agli internati che lo desiderino di esporre, nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera a più posti, immagini e simboli della propria confessione religiosa. È consentito, durante il tempo libero, a singoli detenuti e internati di praticare il culto della propria professione religiosa, purché non si esprima in comportamenti molesti per la comunità. Per la celebrazione dei riti del culto cattolico, ogni istituto è dotato di una o più cappelle in relazione alle esigenze del servizio religioso […] «Per l’istruzione religiosa o le pratiche di culto di appartenenti ad altre confessioni religiose, anche in assenza di ministri di culto, la direzione dell’istituto mette a disposizione idonei locali. La direzione dell’istituto, al fine di assicurare ai detenuti e agli internati che ne facciano richiesta […] si avvale dei ministri di culto […]
Il diritto alla religione e alla sua manifestazione è dunque garantito, anche limitato dalle regole ed esigenze specifiche del carcere e delle sue logiche di sorveglianza, gestione dell’ordine e della sicurezza.
Il novero delle confessioni religiose presenti nei nostri penitenziari è molto ampio e comprende, oltre a coloro che professano le grandi religioni storiche (cattolicesimo, islamismo, buddismo, induismo), anche un consistente numero di stranieri dediti a culti spesso definiti “minori”, come i testimoni di Geova, o gli evangelici. In genere, al momento dell’ingresso in istituto, durante le procedure di registrazione dell’ufficio matricola, ai nuovi detenuti viene posta la domanda sul credo di appartenenza. Ciò avviene, oltre che per finalità statistiche, per valutare eventuali incompatibilità con altre persone detenute o per altre esigenze (ad esempio alimentari) derivanti dalla propria religione.
Se, in base alla normativa precedentemente citata, vengono formalmente riconosciuti ai detenuti i diritti legati alla sfera religiosa, si può notare che non è propriamente così sul piano del loro effettivo godimento perché, in realtà, vi sono differenze e discriminazioni. La prima si realizza nella disparità tra la disciplina dell’esercizio del culto cattolico e di tutti gli altri culti e, più in generale, tra l’esercizio dei culti che hanno delle intese con lo Stato italiano e quelli che non le hanno.
Pur essendo assicurata per tutti i culti, l’assistenza religiosa è, in realtà, garantita solo per il culto cattolico con la presenza di un Cappellano in ogni istituto. Per i culti diversi dalla religione cattolica, i ministri possono accedere negli istituti penitenziari secondo due diverse modalità:
se si tratta di confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato Italiano, i ministri possono entrare negli istituti “senza particolare autorizzazione” e secondo quanto previsto dalle leggi che hanno recepito le singole intese, ai sensi dell’art. 58 del Regolamento di esecuzione della legge 354/75. Attualmente, le Confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato Italiano sono: Tavola valdese, Assemblee di Dio in Italia, Chiesa evangelica luterana, Unione delle comunità ebraiche, Chiesa cristiana avventista, Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, Chiesa apostolica, Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, Unione buddhista italiana, Istituto buddista italiano “Soka Gakkai”.
Per i ministri di culto di confessioni che non hanno stipulato alcuna intesa con lo Stato è invece necessario un nulla osta rilasciato ad personam dall’Ufficio culti del Ministero dell’interno.
Negli ultimi anni è notevolmente aumentata la presenza di detenuti stranieri, soprattutto di fede islamica, e, in proporzione, è cresciuta la richiesta di assistenza religiosa islamica. l’Islam non ha un’organizzazione unitaria e per l’accesso degli imam negli istituti penitenziari si segue la stessa procedura prevista per i ministri di culto di confessioni religiose, richiedendo il nulla osta del Ministero dell’interno.
Il 5 novembre 2015 è stato siglato un Protocollo d’Intesa tra il DAP e l’UCOII (Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia). Il Protocollo però non ha carattere di esclusività nell’ambito dei rapporti con i ministri del culto islamico, vi sono infatti imam autorizzati dal Ministero dell’interno che non aderiscono all’UCOII.
Una minoranza di detenuti stranieri di fede ortodossa è seguita da propri sacerdoti. I rapporti tra lo Stato Italiano e la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia sono regolati dalla legge 30 luglio 2012 n. 126 per cui vescovi e sacerdoti possono accedere senza particolare autorizzazione negli istituti penitenziari. (dal sito del Ministero di Giustizia)
Ancora una volta, però, la realtà degli istituti penitenziari è ben diversa.
La prima discriminazione, infatti, si realizza nella disparità tra la disciplina dell’esercizio del culto cattolico e di tutti gli altri culti e, più in generale, tra l’esercizio dei culti che hanno delle intese con lo Stato italiano e quelli che non le hanno, che non godono delle stesse libertà.
Per chi non è cattolico, pregare in prigione diventa difficile per la mancanza di luoghi dedicati a culti non cattolici a causa dell’assenza di spazi dedicati; anche dove ci sono, il servizio non sempre è garantito per mancanza di personale. In alcune carceri i musulmani fanno insieme solo la preghiera del venerdì, in altre pregano a gruppi nelle sezioni, in altre ancora hanno a disposizione solo la cella.
Un altro tema particolarmente sensibile è legato alle autorizzazioni per l’ingresso in carcere degli Imam. La forte impronta preventiva in chiave “anti-radicalizzazione” del Protocollo d’Intesa tra il DAP e l’UCOII ha fatto sì che in moltissimi istituti i detenuti siano privi di una guida spirituale e questo fa sì che i detenuti si affidino ad imam improvvisati, scelti tra gli stessi detenuti.
Il diritto a svolgere attività culturali
Le attività culturali sono uno dei pilastri del percorso trattamentale del detenuto e, come previsto nell’ordinamento, il loro fine ultimo è quello di promuovere il reinserimento sociale delle persone detenute, attraverso la creazione di un progetto comune che favorisca i rapporti tra detenuti, contribuisca alla creazione di un clima pacifico, eviti la marginalizzazione dell’individuo rispetto al contesto esterno, favorendo il suo futuro reinserimento sociale.
L’Ordinamento vigente parla di tre aree di intervento: la cultura come occasione di crescita personale e come esperienza di apprendimento e conoscenza; lo sport quale strumento finalizzato a promuovere il benessere e l’integrità psico – fisica, l’acquisizione di abilità motorie e l’abbattimento delle tensioni indotte dalla detenzione; le attività ricreative come occasioni di socializzazione e di espressione della creatività e delle abilità personali.
Svolgere attività culturali all’interno degli istituti penitenziari è una realtà ormai consolidata che non riceve, tuttavia, un’attenzione adeguata da parte dell’Amministrazione penitenziaria. L’organizzazione di laboratori ed esperienze in questo campo è lasciata, nella maggior parte dei casi, alla creatività, disponibilità e capacità gestionale di associazioni e volontari esterni. Pur nella variabilità inevitabile, le attività più diffuse sono il teatro, lo yoga e i laboratori di lettura e scrittura. Nel 2017 su un numero di detenuti pari a 58.163, solo il 25% era coinvolto in un’attività culturale. (dati Associazione Antigone)
Il diritto a mantenere relazioni familiari significative
La detenzione raffigura un evento traumatico per il soggetto e la solitudine e la lontananza dai propri familiari costituiscono il più delle volte la causa di un crollo psicofisico, con la conseguenza di una inevitabile sgretolamento delle competenze emotivo-sentimentali. L’ingresso in carcere abbassa l’autostima, produce e amplifica un senso di insicurezza che può condurre ad una progressiva disorganizzazione della personalità. In poche ore è necessario abbandonare le normali abitudini di vita, il lavoro, gli affetti più cari per divenire un membro di una comunità sconosciuta, alle cui regole bisogna rapidamente abituarsi. La possibilità di mantenere contatti stabili e duraturi con il mondo esterno è fondamentale per i detenuti per contrastare gli effetti dannosi del carcere.
Il vigente OP individua nella famiglia il soggetto prioritario verso cui il detenuto ha diritto di rapportarsi e la considera una risorsa fondamentale nel percorso del suo reinserimento sociale. L’art..65: afferma: «… ogni sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e gestiti in maniera da […] mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie».
Inoltre, l’art.18, comma 5, OP stabilisce che può essere autorizzata nei rapporti con la famiglia, e in casi particolari con terzi, una corrispondenza telefonica, che diventa uno strumento di fondamentale importanza per il mantenimento dei rapporti con la famiglia. Nel mantenimento dei rapporti familiari riveste importanza anche la corrispondenza epistolare. L’art. 18 OP ammette la corrispondenza epistolare senza limiti quantitativi e qualitativi, sia per la posta in arrivo sia per la posta in partenza.
Il mantenimento di buone relazioni familiari contribuisce a ridurre il tasso di recidiva e il sostegno delle famiglie e dell’ambiente di provenienza aiuta il reinserimento nella comunità. Il mantenimento di contatti regolari con il genitore in carcere è, infine, fondamentale per lo sviluppo dei bambini, per le loro opportunità di vita e per arginare la possibilità che essi, crescendo, vengano a loro volta in contatto con l’area penale. Nel caso di detenzione di uno dei due genitori, i figli mantengono il diritto alle relazioni con entrambi i genitori e non devono essere discriminati.
Per tutelare i bambini e gli adolescenti che vivono la condizione di avere padre, madre o entrambi i genitori in carcere, il 21 marzo 2014 è stato sottoscritto dal Ministro della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dall’Associazione Bambinisenzasbarre la Carta dei figli dei genitori detenuti, documento unico in Europa, che afferma i diritti fondamentali del minore il cui genitore sia recluso.
La Carta impegna il sistema penitenziario all’accoglienza dei minori e istituisce un Tavolo permanente per il monitoraggio sull’attuazione dei suoi principi. Tra i punti fondamentali è sancito che il mantenimento della relazione familiare costituisce un diritto del bambino, al quale va garantita la continuità di un legame affettivo fondante la sua stessa identità e un dovere/diritto del genitore di mantenere la responsabilità e continuità del proprio stato.
Nonostante alcune circolari DAP del 2010 e del 2015 introducessero già per i detenuti di media sicurezza la possibilità di utilizzare schede telefoniche per effettuare le chiamate attraverso i telefoni mobili “senza ricorrere ad apposite richieste e lunghe attese” e quella di utilizzare collegamenti audiovisivi, via Skype o mediante “la piattaforma Microsoft Lync” per “permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”, tutto ciò avveniva, prima del marzo 2020, soltanto in pochissimi istituti, utilizzati come esperienza pilota.
L’arrivo e l’esplosione della pandemia con l’interruzione repentina e drastica di ogni contatto con l’esterno (interrotta ogni attività; sospeso l’ingresso dei volontari; interrotti i colloqui in presenza con i propri familiari) cambiò all’improvviso tutto. Il dramma dei primi giorni fu presto attutito dai cambiamenti introdotti nelle comunicazioni con la famiglia e con l’ingresso, per la prima volta in modo diffuso e massiccio, della tecnologia in carcere.
Le telefonate con la famiglia aumentarono così come il monte-minuti di conversazione mentre le videochiamate via Skype o tramite WhatsApp sostituirono i colloqui, consentendo anche a parenti che abitano molto lontano di rivedere i propri cari.
Con la fine delle norme di sicurezza nelle carceri si è, purtroppo, tornati al regime precedente, fatto di poche telefonate e pochi contatti con i familiari. Si torna a una telefonata da dieci minuti alla settimana, si cancella WhatsApp, rimane Skype ma con limiti e distinguo.
Il numero limitato di telefonate inevitabilmente incoraggia il “mercato illecito” di telefoni cellulari all’interno degli istituti, il più delle volte i telefoni sono acquisiti illegalmente dai detenuti allo scopo di contattare i propri cari.
I detenuti che di recente provengono dalla libertà sono abituati, come ognuno di noi, a vivere con il telefono cellulare in mano e a sentire i propri familiari più volte al giorno. Interrompere completamente questa possibilità finisce per aggiungere soltanto una ulteriore sofferenza per i detenuti, allontanando inutilmente la vita intramuraria da quella esterna.
A questo proposito sono ormai molti gli studiosi e le associazioni che ritengono che non vi siano ragioni per impedire, almeno ai detenuti definitivi per i quali non vi siano ragioni di sicurezza ostative, l’uso del personale telefono cellulare, opportunamente “bloccato” e abilitato a comporre esclusivamente i numeri autorizzati per un numero di chiamate limitate da effettuare nei tempi ritenuti più opportuni.
La Francia e l’Inghilterra hanno da poco approvato un piano che prevede in via sperimentale l’installazione di un telefono all’interno delle celle in alcuni istituti penitenziari. I telefoni saranno abilitati a fare chiamate solo a determinati numeri di familiari e le conversazioni verranno registrate e monitorate per scoprire eventuali violazioni. Le telefonate saranno a carico del detenuto ma potranno avvenire in ogni momento del giorno e della notte.
La detenzione femminile
In una società ancora maschio-centrica non poteva fare eccezione il carcere: se possibile il carcere lo è ancor più. È questa la fotografia che appare dal report di Antigone sulle donne in carcere in Italia, La situazione delle carceri femminili in Italia, pubblicato l’8 marzo 2023.
Poche da sempre, al 31 Gennaio 2023 le donne rappresentano il 4,6% della popolazione detenuta in Italia (2392 su 51.403), una percentuale stabile, con piccole oscillazioni, dagli anni ’90. Quanto al grado di giudizio, i dati di Antigone, riferiti al 2018, ci dicono che il 34% delle detenute non ha mai ricevuto una condanna definitiva e questa percentuale cresce se guardiamo i dati riferiti alle donne straniere: su 904 in carcere, 381 sono solo imputate, circa il 42,14%.
Le donne costituiscono un’esigua minoranza in tutti i paesi d’Europa e questo pone le varie amministrazioni penitenziarie di fronte agli stessi problemi, soprattutto per quanto riguarda i criteri di raggruppamento delle detenute. La scelta che si pone è tra pochi istituti, adeguatamente attrezzati, ma che mettono a rischio la possibilità delle donne detenute di stare vicino alla famiglia, oppure molte unità più piccole, strutturate come sezioni, in istituti maschili, meglio distribuite nel territorio ma con opportunità ridotte.
L’Italia sembra aver scelto quest’ultima opzione. Gli istituti di esclusiva detenzione femminile sono solo quattro: Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”; per il resto, la detenzione femminile è affidata a reparti ad hoc, 52 in tutto, all’interno di carceri maschili.
Istituti femminili Presenze al 31 Gennaio 2023
Pozzuoli 133
Roma Rebibbia 302
Trani 40
Venezia La Giudecca 74
Totale 549 su una popolazione di 2392 pari al 23%
La condizione delle donne in carcere è stata a lungo ignorata da norme e principi internazionali, particolarmente sotto il profilo della specificità dei bisogni, dalle relazioni familiari alla cura dei figli.
I motivi sono vari, a partire dalle categorie di detenute che affollano gli istituti. Si tratta di donne vissute in contesti di povertà, con un bagaglio di vita segnata da violenze e abusi, molto spesso recidive e colpevoli di atti di microcriminalità, con condanne inferiori ai tre anni.
C’è da considerare poi le condizioni degli istituti. Il 63,2% delle celle ospitanti donne nelle carceri visitate dall’Osservatorio Antigone è dotato di bidet così come previsto dal regolamento penitenziario, il 5,3% non lo è, mentre per il 31,6% il dato non è disponibile. Almeno il 15,8% degli istituti che ospitano donne non hanno un servizio di ginecologia, e nel 26,3% manca un servizio di ostetricia. E soprattutto, nelle carceri ospitanti bambini, non è sempre presente un pediatra, così come volontari che si occupano di accompagnare all’esterno i bambini che dormono in istituto.
Ci sono due approcci riferiti ai provvedimenti restrittivi, analizzati in un report dell’Organizzazione mondiale della sanità: da una parte il Justice Model, secondo cui non bisogna diversificare il trattamento in base al genere, in nome della formale uguaglianza fra
uomo e donna e il Care Model che si basa sul concetto di “maggior vulnerabilità” e minore pericolosità sociale della donna. Per questo, Il Care Model considera positivo differenziare l’esecuzione penale femminile da quella maschile, predisponendo spazi adeguati che siano, ove possibile, il meno somiglianti possibile alle carceri.
Le detenute madri e i bambini galeotti
La possibilità di far entrare i figli in carcere con la madre è prevista dalla legge n. 354/1975. La misura era pensata per evitare il distacco madre-bambino, poi, negli anni, sono stati modulati degli istituti alternativi attraverso due modifiche legislative, che hanno ridefinito i limiti di pena per le madri autrici di reato fuori dal carcere, a seconda dell’età del bambino.
Alle detenute madri è rivolta la legge 8 marzo 2001 n. 40, la cosiddetta “Legge Finocchiaro”, che introduce la “detenzione domiciliare speciale” e l’“assistenza all’esterno dei figli minori”, nel tentativo di superare definitivamente la logica custodialistica del carcere, e la legge n. 62/2011, meglio nota come legge sulla riforma dell’Ordinamento Penitenziario.
In quest’ultima il legislatore ha introdotto nuove disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, nel corso del processo penale e durante l’esecuzione della pena. La legge prevede, tra l’altro, l’aumento da tre a sei anni dell’età del bambino al di sotto della quale non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare della madre in carcere (o del padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole), salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza; la possibilità di espiare anche un terzo della pena o i 15 anni per le ergastolane presso un ICAM o nella propria abitazione o presso case di famiglia protette in caso di impossibilità di disporre di una propria abitazione. La legge prevedeva che il Ministro di Giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, potesse stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare strutture idonee a essere utilizzate come Case famiglia protette.
Consentendo alle madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, la legge, in realtà, preserva prioritariamente la relazione madre-bambino, a scapito dell’interesse del bambino a non crescere in un ambiente non adatto come quello carcerario; il bambino infatti si trova a vivere in una realtà circoscritta, alterata e distorta, che non rispecchia la vera realtà oltre le sbarre. Il bambino ha il diritto di vivere la propria infanzia in un ambiente in cui riesca ad esprimere a pieno i suoi bisogni, desideri e comportamenti che gli sono peculiari. Una volta raggiuto il limite di età previsto dalla legge, il bambino viene catapultato in una quotidianità lontana da quella vissuta fino a quel momento insieme alla madre.
Gli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri) previsti dalla legge non sono la migliore soluzione al problema: la soluzione più adeguata al problema sembra essere la Casa Famiglia Protetta, una struttura destinata ad ospitare solo donne agli arresti domiciliari e i loro bambini: le misure restrittive e le regole della detenzione qui si applicano solo alle donne, non c’è personale di polizia, c’è solo il controllo esterno. Se un bambino vuole invitare un amico o fare una festa può farlo liberamente. La legge che le ha istituite recita testualmente “senza oneri finanziari per lo Stato”, a totale carico quindi degli Enti locali. In Italia ne esistono solo due: una a Roma e una a Milano.
Il 21 marzo 2014 è stata firmata, per la prima volta in Europa, la Carta dei figli dei genitori detenuti che «riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto del medesimo alla
genitorialità». La Carta è il risultato del protocollo d’intesa fra il Ministro della Giustizia, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dal Presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre, volto a promuovere i diritti dei minori, e istituisce un tavolo permanente composto dai rappresentanti dei tre soggetti firmatari, per monitorare periodicamente l’attuazione dei punti previsti dalla Carta (Art. 8).
L’11 dicembre 2019, a firma dall’onorevole Paolo Siani e altri, è stata presentata la proposta di legge 2298 – “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. La proposta di legge punta a promuovere il modello delle case famiglia e a escludere che le madri con figli conviventi di età inferiore ai 6 anni finiscano in carcere, prevedendo l’assoluto divieto di applicazione di custodia cautelare in carcere per la donna incinta. La legge, approvata dalla Camera dei deputati ma decaduta in seguito alla fine della legislatura, ha ripreso nel mese di febbraio 2023 il suo cammino che ci auguriamo sia completato in tempi brevi.
Il tema della genitorialità per le donne detenute rimane al centro dell’attenzione, sostenuto sia dai dati esperienziali di chi frequenta il carcere per lavoro o volontariato, sia dalle ricerche condotte nel contesto del penitenziario. È necessario perciò ripensare alle soluzioni riguardanti donne detenute con figli piccoli, visto che gli ICAM, (Istituto a Custodia Attenuata per donne Madri detenute) hanno mostrato la loro inadeguatezza come strutture adeguate alla tutela dei diritti dei minori e dei genitori. Occorre creare e implementare case-famiglia protette, strutture quindi comunitarie e non istituzioni totali.
Il panorama attuale presenta una cristallizzazione del modello degli ICAM come risposta unica alla questione dei figli piccoli delle persone detenute (solo madri), con l’aggravante della scelta politica e legislativa di aumentare la istituzionalizzazione dei minori incolpevoli reclusi, dai 3 anni della normativa pre-esistente ai 6 anni (in custodia cautelare) e ai 10 (in esecuzione pena). Al momento in Italia sono attivi 4 ICAM. Milano, Venezia, Torino, Avellino. L’ICAM di Sassari, inaugurato più di otto anni fa per un costo complessivo di circa 400 mila Euro, è situato ad una quarantina di chilometri da Cagliari, a circa 30 km dal più vicino ospedale, collegato da una strada impervia piene di curve e d’inverno spesso ghiacciata. Il continuo deteriorarsi per il mancato utilizzo dell’Istituto ne rende difficile anche la destinazione alla soluzione di altre necessità.
Le case-famiglia protette sono due, a Milano esiste una struttura, nata da un progetto dell’Associazione CIAO avviato nel 2010 su richiesta delle istituzioni penitenziarie che chiedevano disponibilità ad accogliere le madri detenute con i loro bambini, e riconosciuta, nel 2016, come casa famiglia protetta (cosi come previsto dalla legge 62/2011) grazie alla stipula di una Convenzione tra l’associazione CIAO, il Comune di Milano, il Provveditorato Regionale della Amministrazione Penitenziaria e l’adesione del Tribunale e del Tribunale di Sorveglianza. di Milano.
A partire da marzo 2017 è nato il servizio “Casa di Leda”, Casa protetta per donne detenute con figli minori, volto ad assicurare il benessere dei bambini e a sostenere le madri nelle loro funzioni genitoriali, gestito in ATI da Associazioni e Cooperative, che può ospitare sei donne con otto bambini fino ai dieci anni di età.
A questo si aggiungono i 13 Asili Nido all’interno dei reparti comuni femminili.
Tutto il sistema di accoglienza delle madri detenuti con i loro figli ICAM pone una questione di discriminazione dei padri detenuti e probabilmente un problema di incostituzionalità, visto che l’art. 3 sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza – tra le altre –
distinzioni di sesso La diversità di trattamento riservata ai padri detenuti ha, in realtà, radici in una visione stereotipata del femminile in carcere e non solo. Si parte dal presupposto che il desiderio di cura rimanga caratteristica specifica delle donne e non prende, pertanto, in considerazione le legittime esigenze della popolazione carceraria maschile, generando più di una discriminazione nei confronti della paternità ristretta. In realtà tutto l’ordinamento italiano sembra accogliere una visione normativa centrata sul diverso ruolo di cura e assistenza dei figli tra il padre e la madre: l’approccio sembra accogliere l’idea che la madre sia la depositaria, per così dire naturale, della responsabilità e del diritto alla cura e all’assistenza dei propri figli, lasciando al padre un ruolo residuale di supplenza, “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”.
Nonostante le premesse e i principi che hanno ispirato le leggi, la carcerazione non è stata eliminata: l’accesso alle case famiglia protette è molto limitato perché gli oneri di spesa finora non sono stati a carico dello Stato ma degli Enti locali. Tanti bambini continuano a vivere in carcere, a conoscere il mondo in situazioni del tutto inappropriate e vergognose. Eppure i numeri sono esigui e per risolvere il problema ci vorrebbe veramente poco.
Tab.n.1
31 dic Detenute
figli con Bambini
carcere in
31 gennaio Tab. n.2
31 Gennaio 2023 Minori in
carcere
ICAM Lauro (AV) 9
ICAM San Vittore 3
ICAM Venezia 2
ICAM Torino 1
Sez. nido Rebibbia Rma 1
C.C. Lecce 1
TOTALE 17
Nella sezione femminile della Casa Circondariale di Lecce è in questo momento presente una donna con una figlia di 2 anni e mezzo, ospitata in una zona del carcere separata dalle altre donne detenute: si tratta di uno spazio separato, non una sezione nido vera e propria, nel quale sono sistemati una culla, un fasciatoio e dei giochi per bambini. Da gennaio 2023 la piccola frequenta il nido, grazie ad una sinergia tra l’Associazione di volontariato Fermenti lattici, che provvede all’accompagnamento della bimba, e il Comune che l’ha accolta in un nido della città.
5. Le figure di garanzia
La magistratura di sorveglianza
La magistratura di sorveglianza è nata con la legge di riforma penitenziaria 26 luglio 1975 n. 354, attuativa dell’art. 27 Cost. e l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario che ha segnato il passaggio da un sistema sanzionatorio retributivo ad un modello di esecuzione penitenziaria che si fonda sul recupero sociale del condannato.
Nell ’ordinamento penitenziario la funzione di garanzia è attribuita ai giudici di sorveglianza, con riferimento a due organi distinti: il Magistrato di sorveglianza e il Tribunale di sorveglianza. Presso ogni distretto di corte d’Appello e per ogni circoscrizione territoriale di sezione distaccata di Corte d’Appello è costituito un Tribunale di sorveglianza, composto da un collegio di 4 membri, per due magistrati ordinari, uno dei due deve essere il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è posto il condannato per garantire una conoscenza diretta della situazione dell’interessato, e due giudici non togati, professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia nonché docenti esperti in scienze criminalistiche. Il tribunale è competente per la concessione e revoca delle misure alternative, quali affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare speciale, semilibertà, la liberazione condizionale, la revoca o cessazione dei suddetti benefici, nonché delle riduzioni di pena e del rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione delle pene detentive (artt. 146, 147 numeri 1 e 2 c.p). Le ordinanze del Tribunale sono soggette al ricorso per cassazione.
Diversamente dal tribunale, l’ufficio di sorveglianza è un organo monocratico costituito su base pluricircondariale e ha funzioni sono assai diverse da quelle del tribunale.
La figura del giudice di sorveglianza, organo giudiziario che si occupa della sorveglianza sull’esecuzione della pena con poteri giurisdizionali e amministrativi, è stata introdotta per la prima volta dal codice penale e di procedura penale del 1930, sotto la spinta di un movimento di pensiero che ha consentito di conferire al giudice il potere di controllare l’esecuzione in tutti i suoi aspetti, compresa l’attuazione delle pene detentive.
Nella riforma del 1975 la conferma del principio che l’esecuzione penale debba svolgersi con garanzie di carattere giudiziario al pari dell’amministrazione della giustizia ha riportato al centro dell’attenzione la presenza di un giudice che eserciti questa funzione in modo specifico. Questa disposizione segna le premesse per una nuova concezione della figura del giudice, chiamato ad assicurare il rispetto della legge anche nell’esecuzione delle sanzioni penali, attraverso il controllo non solo degli istituti di prevenzione e di pena ma anche della conformità alla legge e ai regolamenti di tutti gli aspetti dell’esecuzione penale. A tal fine, tutti i detenuti possono entrare direttamente in contatto con lui attraverso la presentazione di istanze o reclami anche orali.
Il magistrato di sorveglianza approva il programma di trattamento penitenziario che deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto; se nel programma ravvisa elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, lo restituisce, con osservazioni, al fine di una nuova formulazione; impartisce inoltre disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati.
Decide sui reclami dei detenuti concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione nonché sulle condizioni di esercizio
del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa; ha titolo a prendere decisioni sui permessi, sulle licenze ai detenuti semiliberi, sulle modifiche relative all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare, sulls riduzione di pena per la liberazione anticipata ed esprime motivato parere sulle proposte e le istanze di grazia concernenti i detenuti.
Il magistrato di sorveglianza svolge funzioni ispettive di vigilanza e controllo, è chiamato a conoscere i problemi degli istituti e deve stabilire con gli operatori penitenziari e detenuti un rapporto di leale collaborazione tale da consentire di assumere il ruolo di garante dei diritti dei ristretti.
I Reclami e le denunce
A differenza delle richieste dei detenuti relative agli aspetti quotidiani della vita detentiva (ad esempio, la richiesta di essere trasferiti in altro istituto, di essere coinvolti nell’istruzione o di essere assunti, la richiesta di utilizzare per un tempo prolungato la biblioteca, ecc.), nei penitenziari per reclami si intendono tutti gli esposti e le richieste presentate da, o per conto di, persone private della libertà personale contro decisioni, azioni o mancanza di azione ufficiali relative in particolare a: cattiva condotta del personale, protezione inadeguata da altre persone private della libertà che possono causare loro danni, cattive condizioni materiali, mancanza di attività o insufficiente fornitura di assistenza sanitaria … .Le denunce, invece, si qualificano come tali indipendentemente dalla gravità dei problemi denunciati e dal fatto che possano costituire o meno un maltrattamento.
Il reclamo generico è uno strumento di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti e degli internati avente come precisa finalità quella di portare a conoscenza i motivi di doglianza della vita carceraria, sollecitando così gli interventi necessari per la rimozione degli effetti lesivi derivanti da atti illegittimi o da fatti illeciti dell’amministrazione.
Il diritto al reclamo costituisce un sistema di garanzie dei detenuti e internati affinchè sia assicurato un pieno rispetto dei loro diritti e interessi. L’art. 35 ord. penit. prevede per questi soggetti una generica possibilità di rivolgere istanze o reclami da indirizzare non solo al magistrato di sorveglianza ma ad altri soggetti quali il direttore dell’istituto, nonché agli ispettori, alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto, al Presidente della giunta regionale, al Capo dello Stato attraverso la presentazione di istanze scritte od orali.
La norma accomuna in un’unica previsione due istituti diversi: il reclamo volto a lamentare la violazione di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e l’istanza finalizzata ad una particolare richiesta indipendentemente dalla lesione di un diritto o interesse. I reclami al pari delle istanze, possono essere predisposti in forma verbale o scritta, inoltrati anche in busta chiusa con la dicitura “riservata”.
Il magistrato di sorveglianza è l’organo per eccellenza di garanzia della tutela dei diritti dei ristretti, ma le modalità attraverso la quale esplica tale funzione porta a considerare la necessità di istituire una nuova figura all’interno dell’ordinamento atta a collaborare con il magistrato di sorveglianza per garantire l’effettiva tutela dei diritti.
I fattori che inducono a formulare tale conclusione sono molteplici; in primis tale concezione può imputarsi ad un ridotto organico della magistratura di sorveglianza tale per 76 cui, a fronte di un aumento del carico di lavoro, l’attività ispettiva è la prima ad essere sacrificata, rimanendo marginale. Inoltre è da considerare che questo carattere marginale, sia il risultato di una scelta consapevole da parte di numerosi magistrati di sorveglianza per salvaguardare al massimo il senso di appartenenza ad un apparato della magistratura che tende ad isolarsi con la
conseguenza che il loro ingresso negli istituti, al solo scopo ispettivo, si riduce e che i detenuti utilizzano la possibilità di incontrarlo solo per ricevere informazioni circa la concessione di permessi e misure alternative.
Ci sono settori sottratti anche parzialmente al controllo continuativo di un organo esterno all’amministrazione penitenziaria ed altri in cui tale controllo ha modo di effettuarsi e che l’istituzione di una figura esterna non giurisdizionale e complementare al giudice di sorveglianza sia un’opportunità per dar atto all’effettività della tutela. Ovvero il Garante dei diritti dei detenuti.
Dal Difensore civico al Garante dei detenuti
Norberto Bobbio, nel saggio del 1964 “Sul fondamento dei diritti dell’uomo”, afferma che «il problema principale dei diritti è quello non di giustificarli ma di proteggerli». Proprio per questo motivo è stata istituita una vera e propria figura, in Italia e in altri stati europei, in grado di tutelare a tutti gli effetti i diritti della persona privata della libertà personale. Tale figura è il garante dei diritti del detenuto. Prima di poter parlare di garante, soprattutto del garante italiano, ripercorriamo innanzitutto le sue origini.
All’epoca non si parlava ancora di garante ma dell’Ombudsman. L’Ombudsman nacque in Svezia, seppur le sue tracce sono rintracciabili già un secolo prima, quando il Re di Svezia, Carlo XII, fuggendo in Turchia, venne a conoscenza del “Qudi al Quadat”, il cui compito era quello di assicurare il rispetto del diritto Islamico da parte degli ufficiali.
Il compito principale dell’Ombudsman era quello di verificare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti dei giudici e degli ufficiali e solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento diventò un organo della Pubblica Amministrazione e difensore del cittadino contro ogni abuso. Poteva dunque accogliere reclami e richieste dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, svolgere indagini ed esprimere critiche.
Ben presto la figura dell’Ombudsman si diffuse in molti paesi europei come Finlandia, Danimarca, Gran Bretagna, Portogallo e Spagna, seppur con nomi e compiti differenti.
Vennero però rilevati dei punti in comune tra tutti questi paesi rispetto alla funzione dell’Ombudsman. Innanzitutto, aveva il compito di accogliere i reclami e le richieste dei cittadini, in caso di abusi da parte della Pubblica Amministrazione; poi aveva il compito di svolgere delle indagini; e infine la facoltà di esprimere delle critiche, fare raccomandazioni.
In alcuni stati però ci si rese conto che la figura dell’Ombudsman non bastava a garantire la tutela dei diritti di alcune categorie di cittadini, come i detenuti, i minori o anche i malati, e venne esplicato come si necessitasse di una figura atta a salvaguardare singolarmente i diritti di codeste categorie.
Soprattutto in riferimento alla detenzione, si credeva che la Pubblica amministrazione non potesse entrare in merito a situazioni penitenziarie e dunque si iniziò a parlare di Prison Ombudsman.
Il garante dei detenuti, che svolge una funzione specifica all’interno dell’istituzione penitenziaria esiste solo in Inghilterra e in Scozia. Esso è dotato di ampi poteri di ispezione e di tutela dagli abusi dell’amministrazione, ciò nonostante, la sua nomina è ministeriale e risente del clima governativo.
Nei paesi scandinavi, incaricato dal Parlamento e prevista all’interno delle carte costituzionali, vi è la figura del garante. Esso è collegiale in Finlandia e Svezia, e diviso in dipartimenti in
Danimarca, fattore che facilita la salvaguardia dei soggetti ristretti nella libertà, in quanto un intero dipartimento è dedicato proprio a loro.
In alcuni paesi continentali come Francia e Lussemburgo non esiste una figura specifica che si occupi di detenuti; in altri invece, come Germania e Olanda, esistono delle figure indipendenti atte a supervisionare i luoghi di detenzione. Nell’area Est, la figura dell’Ombudsman è istituita dalle carte costituzionali. È un organo collegiale che si occupa della tutela e della promozione dei diritti fondamentali; inoltre è previsto che un dipartimento o dei singoli funzionari abbiano le competenze necessarie di materie penitenziarie. Infine, nei paesi mediterranei come Grecia, Spagna e Italia, la figura dell’Ombudsman ha caratteristiche differenti ma comunque segue la linea di un modello che potrebbe essere «imperniato sulla dialettica tra figura generale e particolare, tra livello nazionale e locale.»
La nascita ed evoluzione della figura del Garante delle persone private delle libertà personali
L’istituzione della figura dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale a livello comunale, provinciale e regionale, rappresenta una delle novità degli ultimi anni in materia penitenziaria e in particolare nel campo del riconoscimento dei diritti dei detenuti; è il risultato di un lungo processo di emersione del carcere dall’invisibilità e dal silenzio che lo circondavano, iniziato solo negli ultimi decenni del secolo scorso e ancora in corso.
“Il Garante è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. Istituito per la prima volta in Svezia nel 1809 con il compito principale di sorvegliare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali, nella seconda metà dell’Ottocento si è trasformato in un organo di controllo della pubblica amministrazione e di difesa del cittadino contro ogni abuso. Questa figura, con diverse denominazioni, funzioni e procedure di nomina, è presente in 22 paesi dell’Unione europea e nella Confederazione Elvetica.” (www.giustizia.it)
In Italia, dopo una prima fase di istituzione della figura dei difensori civici in molte città negli anni ’70 e ’80, è solo nel 1998 che, in occasione del Cinquantesimo anniversario della “Dichiarazione universale dei diritti umani”, viene presentata ai due rami del Parlamento una proposta di legge per l’introduzione del difensore civico delle persone private della libertà personale viene presentata nei due rami del Parlamento, affossata dal parere negativo della Commissione Lavoro nel 2002.
Nel 2003, anche grazie al proficuo e incessante dibattito sul tema portato avanti dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e da Antigone che, in attesa di una normativa nazionale e quasi come anticipazione-sperimentazione di essa, il Comune di Roma, sindaco Veltroni, istituisce il primo Garante dei diritti dei detenuti.
Negli anni successivi, anche in seguito all’approvazione da parte del Consiglio d’Europa, nel 2006, delle “Nuove regole penitenzierie europee” che articolano ulteriormente la materia della salvaguardia dei diritti dei detenuti attraverso la prescrizione di un’autorità indipendente di controllo che abbia maggiori poteri, (poteri illimitati d’ispezione, possibilità di parlare in privato con i detenuti, ecc.) e che sia articolato a livello sia nazionale che locale (e con pari poteri entrambi), molte città sede di Istituti penitenziari, molte Regioni istituiscono e nominano un Garante per i diritti delle persone private della libertà personale.
Il 27 febbraio del 2009 con la legge n. 14 è riconosciuta ai Garanti “comunque denominati” la facoltà di visita degli istituti penitenziari senza autorizzazione, successivamente esteso alle
camere di sicurezza delle forze di polizia e ai Centri di permanenza per il rimpatrio degli stranieri privi di regolare titolo di soggiorno.
È un grande passo avanti che consentirà, anche grazie all’impegno della Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali, nata nel 2008, l’istituzione nel dicembre 2013 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’approvazione nel 2015 del Regolamento Struttura e composizione dell’Ufficio del Garante nazionale, la definizione dei Compiti e poteri del Garante nazionale e, infine, la nomina nel 2016 del Collegio e la costituzione dell’Ufficio che lo renderanno operativo.
Il Garante è un’istituzione pubblica non governativa e indipendente; non è un organismo giudiziario ma agisce in modo complementare rispetto alla Magistratura; è un meccanismo preventivo che interviene sulle situazioni al fine di contribuire a ridurne i profili di problematicità; agisce di propria iniziativa e autonomamente; opera un monitoraggio su tutti i luoghi di privazione della libertà tramite un sistema regolare di visite; ha libero e non annunciato accesso ai luoghi, autonomamente scelti, alle informazioni e alle persone con cui può svolgere colloqui riservati senza controllo visivo o auditivo.
Le tappe della breve storia del la Figura del Garante
Di seguito una breve storia della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, con riferimento alla situazione italiana ma con uno sguardo all’Europa.
1809 (6 giugno): SVEZIA Nasce la prima figura istituzionale al mondo di difensore civico:
l’Ombudsman Parlamentare Svedese (Parliamentary Commissioner);
1862: ITALIA Regio Decreto 413 recante il Regolamento generale per le Case di pena del Regno;
1919 (17 luglio): FINLANDIA Istituzione difensore civico della Finlandia (Parliamentary Ombudsman of Finland);
1948 (10 dicembre): ONU Approvazione della “Dichiarazione universale dei diritti umani” che tra l’altro fissa alcuni principi-base per la tutela delle persone sottoposte a misure privative della libertà;
1949: EUROPA Istituzione del Consiglio d’Europa come organizzazione sopra-nazionale di tutela dei diritti; (con il progressivo allargamento a est, il Consiglio d’Europa ridefinirà parzialmente il proprio mandato politico, ponendosi come “garante della sicurezza democratica basata sul rispetto dei diritti dell’uomo, della democrazia e dello Stato di diritto”);
1950 (4 novembre): EUROPA Siglata a Roma, da parte del Consiglio d’Europa, la “Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali” (in vigore dal 1953);
1953: DANIMARCA Istituzione del difensore civico della Danimarca (Control-lore dell’Amministrazione militare e civile);
1955 (30 agosto): ONU Risoluzione, “Regole minime per il trattamento dei detenuti” (Ginevra);
1956: GERMANIA Istituzione difensore civico della Repubblica Federale Tedesca (Commissione per le petizioni del Bundestag); (nel 1959 sarà istituito anche il Military Ombudsman);
1959: EUROPA Istituita a Strasburgo la “Corte europea dei Diritti dell’Uomo”;
1962: EUROPA Risoluzione del Consiglio d’Europa sui diritti elettorali, civili e sociali delle persone detenute;
1962 (22 giugno): NORVEGIA Istituzione del difensore civico della Norvegia (Parliamentary Commissioner);
1965: ONU Convenzione sull’eliminazione della discriminazione razziale;
1966: ONU “Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”;
1967: GRAN BRETAGNA Istituzione del difensore civico della Gran Bretagna (Parliamentary Commissioner);
1972 (14 marzo): GERMANIA Una sentenza del tribunale Costituzionale tedesco riconosce la vigenza del principio di legalità anche nelle fasi esecutive del processo penale e sottomette l’esecuzione della pena al controllo giudiziale. Da questo momento vengono introdotti nelle legislazioni nazionali di diversi paesi europei i giudici dell’esecuzione penale: prima in Italia con la figura del Magistrato di Sorveglianza e poi anche in Francia (1972), Germania (1976), Portogallo (1976), Spagna (1979). Purtroppo, negli anni seguenti si è visto come tali giudici finissero per svolgere funzioni meramente tecnico-giudiziarie senza essere garanti della legalità e quindi nasce l’esigenza di introdurre il “garante dei diritti dei detenuti”, una figura in grado di ridurre l’opacità del carcere a vantaggio di una sua maggiore trasparenza; 1
1973: FRANCIA Istituzione del difensore civico della Francia;
1973 (19 gennaio): emanazione delle “Regole minime standard per il trattamento dei detenuti”;
1975: EUROPA Raccomandazione del Consiglio d’Europa che invita gli Stati membri a istituire un Ombudsman;
1974-1976: ITALIA Fase costituente dei difensori civici regionali. La Regione Toscana istituisce il primo difensore civico d’Italia sia pur con poteri ancora molto limitati e poco incisivi: non è previsto l’intervento d’ufficio; molta parte dell’attività si svolge “fuori competenza” e si fonda sulla capacità di persuasione del difensore civico stesso;
1976: PORTOGALLO Istituzione difensore civico del Portogallo (Provedor de Justica);
1977: AUSTRIA Istituzione difensore civico dell’Austria (Ombudsman Board);
1977: EUROPA A Ginevra nasce l’Associazione per la Prevenzione della tortura (APT);
1978: SPAGNA Istituzione difensore civico della Spagna (Defensor del Pueblo);
1978-1980: ITALIA Implementazione dei difensori civici regionali anche in Campania (1978), Umbria (1979), Lombardia (1980), Lazio (1980): il difensore civico acquista maggiore incisività anche grazie ad una serie di modifiche “di fatto” dell’attività degli uffici;
1980-1985: ITALIA Nuove leggi regionali (Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Emilia Romagna) consentono di caratterizzare con maggior enfasi il difensore civico come organismo necessario per la tutela non giurisdizionale dei diritti; viene riconosciuta l’iniziativa d’ufficio e inizia a costituire responsabilità disciplinare la mancata collaborazione dei funzionari con il difensore civico;
1980: IRLANDA Istituzione del difensore civico dell’Irlanda (Ombudsman);
1981: OLANDA Istituzione del difensore civico dell’Olanda (Ombudsman);
1984: ONU Dichiarazione sulla lotta alla tortura e pene/trattamenti degradanti (che non si limita agli aspetti legati alla salvaguardia dell’integrità fisica);
1985: EUROPA Raccomandazione del Consiglio d’Europa che non solo riconosce l’importanza del ruolo svolto dalla figura dell’Ombudsman ma, soprattutto, ne sottolinea la
funzione di garante dei diritti dell’uomo (invocando, a questo proposito, un ampliamento e rafforzamento dei poteri reali di tale organo);
1987: POLONIA Istituzione del difensore civico della Polonia (Commissario per i diritti dei cittadini);
1987 (12 febbraio): EUROPA Emanazione delle “Regole penitenziarie europee” (Raccomandazione del Consiglio d’Europa);
1987 (26 novembre): EUROPA A integrazione della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e dopo 10 anni dalla nascita del Comitato svizzero contro la tortura (APT), il Consiglio d’Europa sigla anche la “Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”;
1988: ONU Corpus di principi per la protezione di ogni persona;
1988 (28 marzo): VENETO La Regione Veneto istituisce il difensore civico (che però diviene operativo solo nel 1997);
1989: EUROPA Costituito nel quadro del Consiglio d’Europa e sulla base della Convenzione del 1987, diviene operativo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPR); Kirker viene eletto primo rappresentante del CPT;
1990: ONU Risoluzione “Principi di base per il trattamento dei detenuti”; “Regole minime standard delle Nazioni Unite per le misure non custodiali” (o “Regole di Tokio”);
1990: ITALIA Legge 142/902 sulle autonomie locali che introduce la facoltatività di nomina del difensore civico da parte dei Comuni e delle Province; e Legge 241/90 sul procedimento amministrativo che, codificando regole vincolanti per la pubblica amministrazione, allarga i poteri di intervento del difensore civico;
1990-1991: EST Istituzione dei difensori civici della Croazia (Ombudsman), della Romania (Avvocato del Popolo) e della Slovenia (Ombudsman);
1992: EUROPA Risoluzione del Parlamento Europeo che all’art. 5 prevede la cooperazione con i Difensori Civici degli Stati membri;
1992: EUROPA Il Trattato di Maastricht prevede che le questioni relative al settore di recente creazione della Giustizia e degli Affari Interni vengano trattate nel rispetto della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”;
1992 (28 giugno): ESTONIA Istituzione del difensore civico della Estonia (Chancellor of Justice);
1993: UNGHERIA Istituzione del difensore civico dell’Ungheria (Parliamentary Commissioner Office);
1994: LITUANIA Istituzione del difensore civico della Lituania (Seimas Ombudsman);
1994 (marzo): EUROPA Il Parlamento Europeo istituisce l’”European Ombudsman Institute” (E.O.I);
1995: EUROPA Jacob Soderman eletto primo Mediatore europeo;
1995: MALTA Istituzione del difensore civico di Malta (Ombudsman);
1995 (22 marzo): BELGIO Istituzione del difensore civico del Belgio (Collegio federale di mediatori francofoni e fiamminghi);
1996: LETTONIA Istituzione del difensore civico della Lettonia (Latvian National Human Rights Office);
1996: EUROPA Il Mediatore europeo istituisce una rete di collegamento tra i difensori civici nazionali e gli organi corrispondenti negli Stati membri;
1997: GRECIA Istituzione del difensore civico della Grecia (Greek Ombudsman);
1997: EUROPA il Trattato di Amsterdam stabilisce che uno dei principi fondamentali dell’Ue è il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
1997 (ottobre): EUROPA Istituzione del “Commissario per i Diritti dell’Uomo” (che, a differenza della Corte Europea, non ha poteri giurisdizionali né facoltà di accogliere ricorsi individuali ma ogni anno propone un rapporto sullo stato della tutela dei diritti umani negli Stati aderenti al Consiglio d’Europa);
1998: ITALIA Presentata la proposta di legge di Antigone per l’introduzione del difensore civico delle persone private della libertà personale in occasione del Cinquantesimo anniversario della “Dichiarazione universale dei diritti umani”; depositata in entrambi i rami del parlamento dai Senatori Salvato, Manconi, Russo Spena, Follieri, Fassone, Scopelliti, Fumagalli Carulli, Milio, Meloni, Perruzzotti, Nieddu (Atto Senato n. 3744) e dall’onorevole Pisapia (Atto Camera n. 5509);
1998: ONU Statuto di Roma istitutivo della “Corte penale internazionale” che definisce tutta una serie di garanzie a favore di indagati e imputati;
1998 (30 ottobre): PADOVA Convegno (Università di Padova): “Il difensore civico nella tutela dei detenuti”
1998 (14 dicembre): ITALIA Progetto di legge su istituzione del Garante nazionale (n. 5509; Pisapia);
2000 (dicembre): EUROPA la Commissione europea, il Consiglio ed il Parlamento firmano la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” ;
2001 (1 giugno): ITALIA Proposta di legge su istituzione difensore civico penitenziario (XIV Legislatura, Camera dei Deputati, n. 411; Pisapia, Bertinotti, De Simone, Deiana, Gianni, Giordano, Mantovani, Mascia, Russo Spena, Valpiana, Vendola);
2001 (4 dicembre): REPUBBLICA SLOVACCA Istituzione del difensore civico della Repubblica Slovacca (Public Defender of Rights);
2002 (20 aprile): ITALIA La Commissione lavoro dà parere negativo sulla proposta di istituire il difensore civico delle persone private della libertà personale;
2002 (22 aprile): ITALIA Approvato a Montecitorio un emendamento della Lega che stravolge il testo sul reato di tortura;
2002 (22 luglio): EUROPA Decisione del Consiglio dell’Unione Europea che istituisce un programma quadro sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (AGIS);
2002 (4 ottobre): ITALIA Proposta di legge su difensore civico penitenziario (XIV Legislatura, Camera dei deputati, n. 3229; Mazzoni);
2002 (29 ottobre): ROMA Convegno (Roma): “Tra custodi e custoditi. Il difensore civico nelle carceri”; in particolare intervento del prof. Franco Della Casa (“Il Difensore Civico delle persone private della libertà personale”);
2002 (4 novembre): ITALIA Proposta di legge su difensore civico penitenziario (XIV Legislatura, Camera dei Deputati, n. 3344; Finocchiaro, Bonito, Carboni, Grillini, Leoni, Lucidi, Mancini, Siniscalchi);
2002 (12 novembre): ROMA Seduta straordinaria del Consiglio comunale a Rebibbia ove il sindaco Veltroni annuncia l’intenzione di istituire entro un anno la figura del Garante;
2003 (febbraio): EUROPA Entra in vigore il Trattato sull’Unione Europea (modificato dal trattato di Nizza);
2003 (19 febbraio): EUROPA Libro Verde della Commissione Europea “Garanzie procedurali a favore di indagati e imputati in procedimenti penali nel territorio dell’Unione Europea”;
2003 (10 marzo): EUROPA Parere di Mauro Palma (componente italiano del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, CPT) “Un difensore civico per chi è dietro le sbarre” in occasione della pubblicazione del rapporto del comitato (CPT) sulla visita effettuata in Italia tre anni prima;
2003 (aprile): ROMA Due detenuti (un marocchino di vent’anni e un disagiato psichico di quarant’anni), nel carcere romano di Rebibbia, si tolgono la vita nell’arco di 24 ore di distanza l’uno dall’altro; nel corso del 2002, secondo la stima più prudente (quella dell’amministrazione penitenziaria) i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 52 e 108 sono stati i morti per cause naturali (al punto che i suicidi in carcere sono 15-20 volte più frequenti di quelli fuori dal carcere);
2003 (14 maggio): ROMA In attesa di una normativa nazionale e come anticipazione- sperimentazione di essa, il Comune di Roma istituisce il primo Garante dei diritti dei detenuti;
2003 (22 maggio): ROMA Articolo di Luigi Manconi su Repubblica dal titolo “Un Garante a tutela dei detenuti” ove si commenta l’approvazione del Garante a Roma e si sottolinea come “il Garante delle persone private della libertà personale, appena istituito dal consiglio comunale di Roma, può svolgere un ruolo di vigilanza e di verifica delle condizioni di detenzione: e in particolare – se pensiamo alle morti da cui siamo partiti – delle condizioni di salute dei reclusi. Ruolo che – qualora venisse approvata una normativa nazionale in materia – assumerebbe connotati assai incisivi e potrebbe avere effetti davvero importanti. Quella figura, infatti, può assicurare una effettiva terzietà e indipendenza rispetto all’amministrazione penitenziaria: e può risultare utile proprio in ragione della peculiare delicatezza del sistema di rapporti interni al carcere. […] Ne consegue che il Garante ha quale compito primario, in piena coerenza con la tradizione della difesa civica, l’attività di mediazione. Ovvero, l’allentamento delle tensioni, la creazione di uno spazio comune di incontro e di relazione […] A questi poteri va affiancato un meccanismo sanzionatorio non tradizionale. Per capirci: in primo luogo, una strategia di persuasione e, in secondo luogo, […] una dichiarazione di biasimo, che non escluda – nei casi più gravi – l’attivazione di un procedimento disciplinare. E’ evidente, anche dai particolari connotati dei meccanismi di sanzione, la finalità innanzitutto preventiva e propositiva del Garante”;
2003 (9 ottobre): FIRENZE Istituzione del Garante dei detenuti del Comune di Firenze;
2003 (6 ottobre): LAZIO Istituzione del Garante dei detenuti della Regione Lazio;
2003 (19 ottobre): ROMA Nomina di Manconi come Garante del Comune di Roma;
2004 (26 gennaio): BOLOGNA Istituzione Garante del Comune di Bologna;
2004 (7 giugno): TORINO Istituzione Garante del Comune di Torino;
2004 (27 novembre): BOLOGNA Convegno (Bologna) “Di là dal muro. Donna in carcere: dal desiderio alla pratica”;
2004 (16 dicembre): MILANO Istituzione Garante della Provincia di Milano;
2005 (7 febbraio): PIEMONTE Proposta di legge regionale (Piemonte) su istituzione dell’Ufficio del Garante Regionale;
2005 (14 febbraio): LOMBARDIA Istituzione Garante della Regione Lombardia;
2005 (28 febbraio): NUORO Istituzione Garante del Comune di Nuoro;
2005: SICILIA Istituzione Garante della Regione Sicilia;
2005 (14-15 ottobre): MILANO Convegno europeo su “Il Garante e la tutela dei diritti delle persone limitate nella libertà” (organizzato dalla Provincia di Milano in collaborazione con l’Associazione Antigone);
2006: EUROPA Approvazione da parte del Consiglio d’Europa delle “Nuove regole penitenzierie europee” che articolano ulteriormente la materia della salvaguardia dei diritti dei detenuti attraverso la prescrizione di un’autorità indipendente di controllo che abbia maggiori poteri (p. es.: poteri illimitati d’ispezione, possibilità di parlare in privato con i detenuti, ecc.) e che sia articolato a livello sia nazionale che locale (e con pari poteri entrambi);
2006 (6 giugno): BRESCIA Istituzione Garante del Comune di Brescia (10 gennaio 2006 nomina di Mario Fanfani);
2006 (18 luglio): PUGLIA Istituzione Garante della Regione Puglia;
2006 (24 luglio): CAMPANIA istituzione Garante della Regione Campania;
2006 (1 agosto): REGGIO CALABRIA Istituzione Garante del Comune di Reggio Calabria;
2006 (21 settembre): PISA Istituzione Garante del Comune di Pisa;
2006 (10 ottobre): UMBRIA Istituzione Garante della Regione Umbria;
2007 (13 Marzo): SASSARI Istituzione Garante del Comune di Sassari;
2007 (4 giugno): FERRARA Istituzione Garante del Comune di Ferrara;
2008: istituita la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali;
2009 (27 febbraio): la legge n. 14 riconosce ai Garanti “comunque denominati” la facoltà di visita degli istituti penitenziari senza autorizzazione, successivamente esteso alle camere di sicurezza delle forze di polizia (art. 2bis, comma 1, lett. b, d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9) e ai Centri di permanenza per il rimpatrio degli stranieri privi di regolare titolo di soggiorno (art. 19, comma 3, decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, come modificato dalla legge di conversione 13 aprile 2017, n. 46);nel 2008
2013 (23 dicembre), DL n. 146 istituisce il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale;
2015 (11 marzo) Decreto n. 36 Regolamento Struttura e composizione ufficio del Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale;
2016 (18 maggio) Circolare – Compiti e poteri I del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale;
2018 (27 luglio) Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, approvato nuovo Regolamento;
2018 (Giugno) Nomina Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Lecce.
A oggi, marzo 2023, i Garanti territoriali sono 61 a fronte di 382 Istituti Penitenziari, la Basilicata è al momento l’unica Regione che non ha ancora nominato il Garante regionale dei diritti della persona. Nel Gennaio del 2021 è stato istituito il Garante unico che sostituisce, accorpandole, altre figure di tutela nei settori della disabilità, dell’immigrazione, dell’amministrazione, cancellando di fatto le due figure statutarie del Garante dell’infanzia e del Difensore civico. La carica è al momento priva di nomina.
Garanti locali regione Puglia
Nominativo: Piero Rossi
Indirizzo: Via Gentile n.52, Japigia Bari
Pagina web
Garante provinciale Brindisi
Nominativo: Valentina Farina
E-mail:
Garante comunale Lecce
Nominativo: Maria Mancarella
Indirizzo: Comune di Lecce Palazzo caraffa, via Rubichi n.16 – lecce
Pagina web
Garante comunale San Severo
Nominativo: Maria Rosa Lacerenza
Indirizzo: Piazza Municipio, 1 – 71016 San Severo?
Garante comunale Trani
Nominativo: Elisabetta de Robertis
Indirizzo: Via Tenente Luigi Morrico, 2 – 76125 – Trani (BT)
00Garante regionale Puglia
Nominativo: Piero Rossi
Indirizzo: Via Gentile n.52, Japigia Bari
Pagina web
Garante provinciale Brindisi
Nominativo: Valentina Farina
E-mail:
Garante comunale Lecce
Nominativo: Maria Mancarella
Indirizzo: Comune di Lecce Palazzo caraffa, via Rubichi n.16 – lecce
Pagina web
Garante comunale San Severo
Nominativo: Maria Rosa Lacerenza
Indirizzo: Piazza Municipio, 1 – 71016 San Severo?
Garante comunale Trani
Nominativo: Elisabetta de Robertis
Indirizzo: Via Tenente Luigi Morrico, 2 – 76125 – Trani (BT)
5.4 Funzione e compiti del garante territoriale
Il Garante territoriale per le persone private della libertà personale è una autorità di controllo della legalità nei luoghi di detenzione, dotata di autonomia ed indipendenza, cui il singolo detenuto può rivolgersi per ottenere l’effettiva tutela dei propri diritti.
È una figura di promozione dei diritti che si muove nel contesto locale al fine di realizzare i diritti delle persone private della libertà personale. Si tratta dunque di una specie di collante tra il “dentro” e il “fuori”, in cui grande rilievo assumono i suoi rapporti con gli enti locali, con l’amministrazione penitenziaria, la magistratura, le forze di polizia, le forze politiche nazionali e locali, i sindacati, le associazioni di categoria, le Ong.
Il Garante territoriale per le persone private della libertà personale ha funzioni di osservazione e di vigilanza, promuove iniziative e iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva anche in collaborazione con altri soggetti pubblici competenti in questo settore.
Il Garante comunale è l’anello di congiunzione tra le realtà di privazione della libertà, in particolare il carcere, e la città. Il suo ruolo è di garanzia, osservazione e dialogo rispetto alla salvaguardia di diritti e comportamenti conformi alla legge. Particolare attenzione viene rivolta ai diritti fondamentali, in particolare al diritto alla salute, al senso di umanità che deve caratterizzare tutte le pene e alla finalità rieducativa dei trattamenti imposti al condannato.
I suoi ambiti di intervento specifici si possono individuare in: visite periodiche di controllo sui luoghi di detenzione; individuazione ed ascolto dei problemi di un detenuto; pressione sull’amministrazione; collaborazione con l’amministrazione; dichiarazione pubblica di denuncia delle violazioni. Il ruolo di garanzia funge da ponte di dialogo e collaborazione anche con l’amministrazione penitenziaria, il Tribunale di Sorveglianza, le autorità regionali della salute e altre autorità territoriali.
Il Garante delle persone private della libertà personale opera in tutti i luoghi di detenzione o privazione della libertà personale quali il carcere, gli istituti penali per i minori, le comunità terapeutiche, le case di cura, i centri di accoglienza dei migranti, le strutture sanitarie dove vengono compiuti trattamenti sanitari obbligatori, le camere di sicurezza della Questura.
Ha compiti di osservazione e monitoraggio delle condizioni di vita in questi luoghi e sollecita, se necessario, un intervento da parte delle istituzioni competenti; promuove iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva
Le persone detenute o internate hanno diritto di chiedere un colloquio con i garanti per esporre questioni e situazioni di difficoltà personale o legata all’ambiente di detenzione.
Nelle città dove non sia presente la figura del Garante Comunale, a livello territoriale è possibile rivolgersi solo al Garante regionale con la conseguente difficolta, da parte di quest’ultimo di far fronte, in tempi brevi, alle richieste ricevute.
La presenza di una figura più vicina territorialmente e con competenze territoriali rende concretamente possibile la finalità comune di ascolto dei problemi della popolazione detenuta e consente una efficace e tempestiva risposta.
Il suo ruolo non si differenzia da quello del garante nazionale, in effetti svolge prettamente funzioni di vigilanza, tramite delle visite periodiche all’interno degli istituti, grazie alle quali può: ascoltare i detenuti e rilevare eventuali violazioni o problemi; sensibilizzare l’opione pubblica sui diritti umani e umanizzazione della pena. Inoltre, si occupa della tutela dei diritti fondamentali come, ad esempio, il diritto alla salute, e di tutti gli altri diritti che dovrebbero essere garantiti ai detenuti ai fini riabilitativi.
Ovviamente il ruolo del garante è un ruolo assai complesso. Non è sicuramente facile confrontarsi con l’opinione pubblica e battersi costantemente per i diritti di coloro che trasgrediscono dal normale funzionamento della società. È un mestiere quindi che implica una grande maturità professionale, che non tutti riescono a possedere. Ecco spiegato perché non tutti possono personificare la figura del garante e anche perché la maggior parte dei garanti hanno alle spalle una professione come quella dell’avvocato, dell’insegnante, dell’ex magistrato di sorveglianza.
Nel grafico vengono indicati i requisiti necessari affinché un individuo possa rappresentare la figura del garante: quindi la residenza nel comune e in Italia, la competenza in ambito giuridico, nei diritti umani e nelle attività sociali e soprattutto la garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare le proprie funzioni. C’è anche da dire che talvolta sono presenti dei casi in cui seppur il cittadino possegga tutti i requisiti per poter
diventare garante, non può per delle incompatibilità che riguardano l’esercizio di funzioni pubbliche nei settori di giustizia e di sicurezza pubblica, condanne definitive o provvedimenti restrittivi della libertà, incarichi amministrativi-politici elettivi…
In merito alla sua nomina, il garante può essere nominato tramite l’elezione del consiglio comunale o per nomina sindacale. Il suo mandato dura dai 3 ai 5 anni a seconda della discrezione dell’organo politico che conferisce la nomina. «Il mandato quinquennale è la modalità selezionata nella maggior parte dei comuni.» In Italia l’unica eccezione fatta è quella rispetto alla provincia di Bolzano, in quanto la carica segue quella da Consigliere comunale.
Seppur tutti i dibattiti che si sono avuti sul tema del garante, ad oggi tale figura non è ancora presente in molti dei paesi italiani.
Le figure presenti sul territorio che rivestono il ruolo del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà sono, ad un primo sguardo, oggettivamente eterogenee per diversi motivi.
In primo luogo, si può notare un’eterogeneità di background professionali: tra questi vi sono infatti avvocati, accademici, ex magistrati di sorveglianza e operatori collegati a diverso titolo al mondo penitenziario (volontari, ex insegnanti, religiosi, ex detenuti, ecc.).
Ulteriori differenze sono poi rilevabili nelle modalità di esercizio del ruolo. Tali modalità possono essere influenzate, da una parte, dalle diverse funzioni che gli atti istitutivi assegnano ai Garanti e, dall’altra parte, dalle risorse – economiche e di personale – attribuite a ciascun Garante. Quest’ultimo dato non va sottovalutato: alcuni Garanti hanno a disposizione maggiori mezzi in quanto sono soggetti a retribuzione o a rimborso spese e sono coadiuvati da collaboratori, mentre altri svolgono il ruolo in autonomia e a titolo volontario, senza alcun tipo di retribuzione e sostegno.
Marzo 2023
REGIONE N. Comuni con Istituti penitenziari per adulti Presenza Garante Regionale N. Garanti territoriali N. Garanti territoriali al 2021
Lombardia 15 X 7 6
Piemonte 12 X 12 12
Veneto 7 X 6 6
Campania 14 X 2 1
Calabria 11 X 3 2
Sicilia 21 X 1 1
Lazio 9 X 1 1
Sardegna 9 X 5 4
Emilia-Romagna 10 X 6 6
Abruzzo 8 X — —
Trentino Alto Adige 2 X 1 1
Toscana 14 X 10 8
Puglia 10 X 3 3
Liguria 5 X 1 —
Marche 5 X — —
Friuli Venezia Giulia 5 X 3 2
Molise 3 X — —
Basilicata 3 — — —
Umbria 4 X — —
Valle d’Aosta 1 X – —
Come possiamo notare, il numero dei garanti per regione e gli istituti penitenziari non combaciano.
I Garanti, inoltre, non hanno la stessa fisionomia istitutiva, hanno mandati differenziati sia a livello di estensione che di durata, derivano da nomine di organismi diversi, quando dispongono di personale non sempre è selezionato personalmente dalla figura di garanzia, hanno a diposizione risorse e possibilità operative molto diverse tra loro.
La carica di Garante per la maggior parte dei casi è svolta a titolo gratuito, e quindi non prevede una retribuzione, salvo alcuni casi in cui è concesso un rimborso spese o un’indennità. In questo modo si minimizza seppur formalmente la figura del garante e il suo lavoro non viene considerato degno di questo nome. Ovviamente non si pretende una retribuzione, in quanto molte delle persone che ricoprono la figura di garante hanno alle loro spalle una professione già avviata, ma ciò non toglie una qualche forma di ricompensa per il difficile lavoro a cui sono esposti sarebbe corretta.
Nonostante i numerosi fattori di positività che hanno caratterizzato la loro attività, quella dei Garanti territoriali non possiede ancora le caratteristiche di un sistema anche a causa dell’assenza di una normativa nazionale che individui le caratteristiche e i principi fondamentali in ordine alla loro nomina dei Garanti territoriali e ne disegni, sia pure in termini essenziali, lo status.
La loro forza è rappresentata dal fatto che essi hanno adottato un approccio reticolare, agiscono con mentalità cooperativa e spirito di condivisione contribuendo in questo modo a ricomporre il variegato quadro della loro costituzione e della loro azione in modo meno variabile e frammentato.
Seconda Parte
Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Lecce
Incipit
Nell’aprile del 2018 ho iniziato il mio lavoro come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Lecce. Non era semplice cominciare. Negli anni del mio lavoro di docente universitaria ero entrata in carcere numerose volte: avevo conosciuto parecchi giovani detenuti iscritti all’Università di Lecce, che incontravo in carcere per consentire loro di sostenere gli esami di Sociologia; avevo partecipato come responsabile dell’équipe che aveva il compito di formare il primo nucleo di detenute che avrebbero dato vita ad una delle esperienze più interessanti di reinserimento lavorativo delle detenute, Made in carcere; avevo più di una volta incontrato gruppi di detenuti per parlare con loro di temi a loro molto cari, come i rapporti familiari, le relazioni con i figli, l’amore recluso.
Ero stata in carcere, ma non lo conoscevo realmente: i luoghi attraversati, le persone incontrate appartenevano ad uno spazio di mezzo nel quale l’istituzione si presenta al cuore e alla mente di chi la incontra con l’abito della festa, dando di sé un’immagine che, l’avrei scoperto molto presto, non la rappresenta realmente.
Nei primi mesi ho imparato ad orientarmi non solo nell’istituzione con le sue regole, i suoi ruoli, funzioni, il suo organigramma, ma anche nel senso più letterale del termine. Il carcere di Lecce è una cittadella, fatta di strade, di edifici, di corridoi lunghi, molto lunghi, nei quali non è facile orientarsi. Ho imparato ad orientarmi anche nel complicato mondo delle leggi e degli ordinamenti, che scandiscono la vita di un gran numero di persone che vivono e ruotano intorno al mondo della detenzione. Ho studiato, ho incontrato tante persone, dentro e fuori dal carcere, in un percorso di incontri conoscitivi con le Autorità istituzionali, finalizzati alla costruzione di una rete di relazioni sinergiche con il territorio. Durante gli incontri, avvenuti in clima di grande cordialità, sui temi della tutela del detenuto e dei suoi diritti fondamentali, sono emersi importanti spunti per la costruzione di un sistema ottimale di sinergie istituzionali. In tutte le persone che ho incontrato ho trovato grande sensibilità e una disponibilità operativa finalizzata alla attuazione della piena funzione rieducativa della pena, anche attraverso la realizzazione di iniziative rivolte al reinserimento sociale dei soggetti interessati. Ho incontrato il Prefetto, il Vescovo, la Responsabile del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, la Direttrice della Casa Circondariale Borgo San Nicola, i due vice Direttori, il Capo Area trattamentale, il Comandante della Polizia Penitenziaria, la Responsabile dell’Area sanitaria.
Il 23 maggio 2018 ho incontrato i primi detenuti durate l’incontro organizzato dall’ITES Olivetti, che nel carcere ha attivato un corso nel settore Tecnico Economico con indirizzo “Amministrazione, finanza e Marketing” (AFM): un Open Day per presentare ai detenuti la scuola, i suoi percorsi, le sue finalità. È stata un’occasione importante per presentarmi e per ascoltare. Un episodio in quella circostanza mi ha particolarmente colpito: un’insegnante con una lunga esperienza di insegnamento in carcere andava in pensione e approfittava di quella occasione per salutare i suoi allievi, che le hanno consegnato una lettera di ringraziamento semplice, sincera e profondamente emozionante.
In quella circostanza ho sentito, toccato con mano quanto sia importante in quel contesto la capacità di entrare in comunicazione diretta non solo con la mente dei propri allievi ma soprattutto con la loro anima, con i loro sentimenti, con la loro esperienza di vita reclusa. Quell’insegnante era stata in quegli anni il loro punto di riferimento, la loro finestra sul mondo e quei detenuti, tutti uomini fatti, grandi e grossi, erano stati i suoi “ragazzi”, perché chiunque studia è un “ragazzo”, perché è per loro e con loro che lei ha provato a superare le tante difficoltà incontrate. Ha sempre pensato “andiamo avanti”, anche quando la paura (che) di generare un’aspettativa, un desiderio, sapendo che sarebbe andato frustrato, le suggeriva di fermarsi, di limitarsi a svolgere il programma, a fare il suo dovere di “brava insegnante”.
Pochi giorni dopo sono entrata nel carcere, quello vero, quello delle sezioni dove i detenuti trascorrono la gran parte del tempo. Da quel momento è iniziato un percorso che non si è mai interrotto, nonostante i primi anni del mio mandato siano stati attraversati da eventi personali (da luglio ad ottobre del 2019 un evento traumatico ha impedito gravemente i miei spostamenti costringendomi ad una sospensione della presenza in carcere) e collettivi che hanno reso complessa e difficile il mio lavoro di Garante e in particolare la mia attività di sostegno ai detenuti.
Svolgo il mio lavoro di Garante da 5 anni, alla fine di questo percorso importante, difficile ma ricchissimo di esperienza di riflessioni, di conoscenza e di sentimenti, è inevitabile farsi domande e cercare delle risposte.
In questa parte della relazione vorrei provare ad analizzare la vita del carcere per come l’ho conosciuta e riflettere sulle cose che ho visto e che ho imparato, e quindi raccontare la mia esperienza.
La comunicazione
Parto dalla prime cose che ho imparato sin dai primi giorni della mia presenza in carcere: ho imparato, anzi ho toccato con mano, quanto sia importante il sistema di comunicazione che i componenti di una organizzazione utilizzano per interagire tra loro. È da lì che bisogna partire, perché è in quel sistema che si costruiscono e si stereotipizzano i ruoli, si definiscono i rapporti, si strutturano e si cristallizzano le relazioni.
La lingua del carcere
Una delle cose che ho scoperto e che ho dovuto imparare, se pur a volte con meraviglia e fatica, è che esiste una lingua del carcere, fatta di parole che ascoltiamo comunemente quando sentiamo parlare di carcere, che ascoltiamo, che leggiamo: le parole dette in carcere, quelle scritte sui documenti, parole di uso comune, parole che nessuno pronuncia più, parole sconosciute, i cui significati non sono sempre chiari e univoci.
Una lingua fatta di parole infantili, anzi infantilizzanti, “perché in prigione si è costretti a tornare bambini, subordinati al permesso degli adulti per poter fare qualunque cosa, dalla doccia alla spesa, in un cammino di deresponsabilizzazione che confligge in modo macroscopico con le supposte finalità “rieducative” della pena.”(Capriccioli, Alessandro. Tre metri quadri (Storie) (Italian Edition) (p.75). People. Edizione del Kindle), frutto di un’idea di carcere che concepisce e persegue recupero e rieducazione attraverso l’obbedienza e la sottomissione ai regolamenti e all’istituzione. L’esatto contrario dell’esercizio della
responsabilità, che dovrebbe essere invece il presupposto della reintegrazione dei detenuti nella collettività.
Le parole di uso comune
Partiamo dal linguaggio comunemente utilizzato, che apparentemente non fa distinzione tra due coppie di parole: carcere e detenuto da una parte; prigione e prigioniero dall’altra.
Nella terminologia tecnico-giuridica spesso si utilizzano esclusivamente il termine carcere mentre per definire la condizione di un condannato o di una persona trattenuta si utilizza il termine “detenuto”.
La parola “carcere” deriverebbe dal latino carcer, che ha radice dal verbo coercio (che letteralmente significa costringere) dal quale deriva il significato di luogo dove si restringe, si rinchiude, si punisce. Il suo primo significato fu quello di “recinto”. In un secondo tempo assunse quello di “prigione”, intesa come costrizione o luogo nel quale rinchiudere soggetti privati della libertà personale. Il termine “prigione” deriva dal latino prehensio, l’azione di prendere nel senso di catturare; la parola prigioniero si usa prevalentemente per indicare la condizione di chi è fatto prigioniero dai nemici o di chi subisce una carcerazione per motivi politici.
Quando invece vogliamo sottolineare l’alto potenziale delinquenziale di una persona ed enfatizzare la sua pericolosità usiamo la parola galera e i suoi derivati: ti sbatto in galera, faccia da galeotto.
Chiudere in cella chi ha commesso reati e buttare la chiave non è solo uno slogan, ma è tutto un modo rassicurante e liberatorio di concepire l’esecuzione della pena.
Le parole di chi vive dentro, le parole di chi vive fuori.
Le parole su cui cominciamo a ragionare hanno a che vedere con lo SPAZIO e con la principale distinzione, la primaria separazione generata dall’esistenza stessa del carcere: il dentro e il fuori. Le prime parole da cui partire sono allora: CELLA vs CAMERA
Cella – Nei conventi o nelle carceri, stanza piccola e nuda Camera – Stanza di un edificio per abitazione
Da quando il carcere non è più il luogo di occultamento delle azioni di pena inflitte ai condannati ma è diventato luogo della riabilitazione, il tema dello spazio, della sua destinazione e del suo utilizzo è diventato di primaria importanza, generando, quasi come contraddizione intrinseca, la necessità di spazi sempre più ampi per garantire nello stesso tempo contenimento e riabilitazione.
Una contraddizione che ci obbliga a ridiscutere l’idea del carcere come unica risposta a tutte le forme di trasgressione. Il tema, come già notava il garante nazionale, non è quello di depenalizzare o addirittura legalizzare condotte e comportamenti irregolari, ma quello di situare all’interno di spazi diversi le sanzioni comminate per ciascun comportamento trasgressivo.
In realtà ogni riferimento a forme di privazione della libertà genera sempre, e correttamente, domande e riflessioni sul perché ciò avvenga, sui fondamenti che legittimano l’esercizio del potere di disporre della vita e della libertà delle persone; ci si interroga sul come avvenga, definendo e verificando le situazioni materiali nelle quali si realizza tale privazione; ci si interroga poco sul dove tutto questo di fatto accade o debba accadere.
“Lo spazio dell’attuazione della privazione della libertà non sembra essere oggetto di attenzione” sia esso quello di un carcere, di una caserma, di un aereo, di una nave, di un luogo
altro prestato all’uso, in cui accogliere persone condannate in via definitiva, in attesa di essere giudicate o trasferite in altro luogo, anche madri con figli di età inferiore ai tre anni.
Nell’immaginario di molti il primo sinonimo di carcere è cella: più un concetto, più un simbolo che un luogo fisico, di cui si conosce in genere molto poco e si immagina in modi e con caratteristiche spesso molto lontane dalla realtà.
Occorre subito fare una distinzione: l’ordinamento Penitenziario non parla di celle. La legge italiana parla di locali di pernottamento e di soggiorno.
La parola cella è usata invece nel Regio Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931 fino al 1975, anno della riforma dell’Ordinamento Penitenziario che lo sostituisce definitivamente, introduce la definizione di camera di pernottamento, dando indicazioni precise sulle sue caratteristiche e dotazioni (camere singole, camere multiple).
La recente riforma (decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 124) – su tale punto applicabile dal 31 dicembre 2021 – ha lodevolmente esplicitato con norma che il Regolamento di esecuzione prevedeva già e cioè che nelle camere di pernottamento «i servizi igienici, adeguatamente aerati, sono collocati in uno spazio separato, per garantire la riservatezza».
SALETTA
Saletta – Diminutivo di sala, locale spazioso destinato a usi di riunione, rappresentanza.
Nel carcere è un luogo, un po’ più ampio di una cella, nel quale, a ore prestabilite del giorno, è possibile ritrovarsi in gruppo per fare giochi, soprattutto quello delle carte, e altro. Spesso spoglio non incoraggia l’esercizio della socialità.
SOCIALITA’
Socialità – l’insieme dei rapporti tra gli individui che fanno parte di una società o di un ambiente determinato
In carcere indica il tempo da trascorrere in compagnia all’infuori delle attività di lavoro o di studio, per esempio nel momento della cena. Ai detenuti è concesso di fare socialità nelle celle, riunendosi in piccoli gruppi. Si consuma il pasto insieme, si offre qualcosa del cibo portato dai familiari, si chiacchiera. Si può fare socialità anche nella saletta, se non è stata adibita a cella a causa del sovraffollamento.
I luoghi fuori dello spazio dentro
Il PASSEGGIO
Passeggio – Movimento di persone che camminano per svago
Il cortile per il passeggio è un luogo importante nella vita delle persone detenute soprattutto nella prospettiva del percorso di osservazione e reinserimento sociale e pone in evidenza l’importanza del cortile come luogo dove le persone detenute possano recuperare il rapporto con il proprio corpo, possano fare effettivo esercizio fisico all’aperto, incontrarsi, comunicare e avere una positiva evoluzione nell’aggregazione sociale con le altre persone detenute e con gli operatori del settore.
L’articolo 10 dell’Ordinamento Penitenziario, così come modificato dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 123, aumenta le ore d’aria a quattro al giorno e dispone che “la permanenza all’aperto avvenga in modo organizzato in spazi attrezzati per lo svolgimento di attività ludico- sportive e alla presenza di operatori penitenziari e di volontari».
I cortili dovrebbero essere spaziosi e fruibili in tutte le stagioni. Le persone detenute dovrebbero poter allungare lo sguardo su aree verdi, alberi e vegetazione: la stimolazione visiva – non
bisogna dimenticare – è parte integrante del mantenimento delle capacità psico-fisiche della persona.
L’ARIA
Ha molteplici significati, indica l’orario o il luogo ma anche l’azione del “socializzare” fuori dalla “sezione”; in realtà sono spesso luoghi spogli, privi di protezione dalle intemperie e di verde, con muri molto alti: dei quadrati o dei rettangoli lungo i quali i detenuti vanno avanti e indietro, impegnati in un via vai, graziosamente chiamato “passeggio”. La mattina c’è più spazio, perché alcuni detenuti sono impegnati in altre attività, qualcuno fa footing, correndo sempre attorno al perimetro del campetto.
L’aria aperta, che in carcere si chiama semplicemente aria, ha un tempo fisso: l’espressione frequente è, infatti, l’ora d’aria, anche quando le ore sono molte di più (attualmente sono 4). L’aria aperta in carcere è in realtà un’aria chiusa in una scatola con cinque lati di cemento e uno aperto dal quale si può vedere il cielo come dentro la cornice di un quadro.
L’INTERCINTA
È una parola pressoché inesistente nella lingua italiana.
In carcere l’intercinta è quello spazio che separa le aree detentive dal muro di cinta. È la zona cuscinetto, un confine tra il dentro e il fuori. È situata all’interno del carcere, ma, non essendo accessibile ai detenuti, è in realtà da loro considerata un fuori, anche se chi entra in un Istituto solo per visitarlo già si sente dentro varcato il muro.
Proprio per questa suo essere un luogo esterno ma nello stesso tempo interno al carcere, è uno spazio sempre più frequentemente utilizzato per dare un’impropria attuazione al lavoro esterno, previsto dall’ articolo 21 o.p.: l’ossimoro del lavoro esterno/interno. Si tratta di un paradosso che, se da una parte consente di favorire l’uscita delle persone detenute dalla sezione, dall’altra utilizza e favorisce l’idea di un falso fuori, uno spazio di interazione tra il mondo chiuso e separato del carcere e quello della vita sociale libera; dà l’illusione di una apertura al mondo reale che tuttavia non è in grado di favorire una riconnessione con la realtà sociale nella sua complessità.
Chi lavora viene chiamato lavorante, la ricompensa mercede, parole desuete che ha un senso solo nel carcere. I soldi non possono circolare, neanche 1 euro, sarebbe motivo di rapporto, vengono sempre depositati sul libretto personale.
Talvolta l’intercinta diventa un reale luogo di comunicazione con il fuori, quello vero, mettendo a contatto i due mondi, quando attiva esperienze produttive di imprese esterne che si aprono alla città.
In Italia vi sono numerose esperienze di questo tipo: cito per tutte:
Il ristorante “InGalera” della Casa di reclusione di Bollate è ben noto alla cittadinanza e occorre una prenotazione con grande anticipo per trovarvi posto; il “Teatro dell’Arca”, raggiungibile sia dalle persone detenute che dal pubblico esterno, è situato nell’intercinta della Casa circondariale “Marassi” di Genova.
A Roma, nel complesso penitenziario di Rebibbia, il muro di cinta del carcere è stato aperto per realizzare una panetteria dove lavorano le persone detenute e un negozio dove sono in vendita i prodotti dell’azienda agricola e del caseificio.
I GIARDINETTI
Una soluzione frequentemente utilizzata per favorire il lavoro esterno dei detenuti è rappresentata dalle attività di pubblica utilità (attività appunto e non lavoro), che alcuni detenuti
svolgono sulla base di Protocolli siglati con le Amministrazioni Comunali, per la cura e la pulizia dei giardini, appunto il lavoro nei giardinetti.
Per ovviare la mancanza di una retribuzione, la Cassa ammende ha stanziato circa tre milioni di euro per la copertura nel 2019 di circa 2500-3000 sussidi. Ancora una volta, le parole sono importanti: si tratta infatti di un sussidio e non di una retribuzione, che non prevede quindi né contributi previdenziali, né gli altri istituti propri di un salario.
Per le Municipalità si tratta di un lavoro ottenuto gratuitamente, per i detenuti di un lavoro sottopagato, per la Cassa ammende di erogazione di sussidi.
LA FINESTRA
La ‘finestra’ non è un luogo, è solo un’apertura verso l’esterno, è l’assenza di una barriera che rende il mondo esterno accessibile alla vista esclusivamente nei suoi aspetti naturali. Una finestra ‘a scacchi’, concepita per non consentire ad occhi esterni di volgere lo sguardo all’interno a tutela della riservatezza di chi vi è ospitato e impedendo la vista di ciò che è fuori. A questo proposito, nella sua relazione il Garante Nazionale ha ripetuto la raccomandazione di non utilizzare come camere di pernottamento ambienti con finestre completamente schermate. “Per tutte le persone detenute e ancor più per coloro che trascorrono molta parte del tempo – in alcuni casi la quasi-totalità – all’interno della propria stanza, la finestra costituisce l’unico luogo ‘autorizzato’ da cui è possibile configurarsi il mondo esterno, da cui si può guardare il cielo, forse la cima di qualche albero, sprazzi di quella realtà da cui si è doverosamente separati, a seguito delle accuse o delle condanne che gravano su di loro. È solo dalla finestra della loro stanza di pernottamento che per la gran parte della giornata l’aria può entrare o uscire dalla camera, insieme alla luce naturale. I multi-strati riducono tutto ciò; se il numero di strati aumenta, l’aria e la luce si allontanano e si rischia di diminuire molte capacità fisiche, visive in particolare, di chi è ristretto. Soprattutto sparisce quel senso di ‘fuori’ e di ‘dopo”.”
Le parole magiche
TRATTAMENTO
Trattamento – Applicazione di determinati metodi e processi a cui si sottopone un materiale o un prodotto per conseguire determinati effetti.
Nell’ordinamento penitenziario questa parola ha tutt’altro significato: significa che nei confronti del condannato è in atto un trattamento rieducativo, anche se la scelta stessa di questa parola ha con sé un che di taumaturgico e rimanda a una visione del detenuto come di persona da, che deve essere monitorata attraverso l’osservazione scientifica e “trattata” con particolari interventi di riabilitazione (istruzione, lavoro, religione, attività culturali, ricreative e sportive). A causa del sovraffollamento il “trattamento” riguarda purtroppo un numero ridotto di detenuti. SINTESI
Sintesi – Procedimento o atto conoscitivo, che, partendo da elementi semplici e parziali, giunge a una conoscenza complessa e unitaria.
Si tratta di una relazione che sintetizza l’osservazione scientifica della personalità e del comportamento del detenuto durante il trattamento. Viene fatta da un’apposita équipe (educatore, assistente sociale, ispettore comandante ed eventuali altre figure) ed è necessaria al Magistrato di Sorveglianza per valutare se concedere dei benefici (permessi premio e misure alternative: semilibertà, affidamento ai servizi sociali o lavorativi…). Si tratta un evento atteso, temuto ma misterioso nella sua composizione,
COLLOQUIO
Colloquio – conversazione tra due persone o più (ma sempre poche), di solito su argomenti di qualche importanza]
Per i detenuti questa parola non ha nulla della spontaneità, del senso di libertà che accompagna le conversazioni tra persone che sono fuori, al contrario è un evento programmato, rigidamente contingentato ma particolarmente atteso. I detenuti hanno diritto a 6 ore mensili di colloquio con familiari o congiunti, di regola della durata di 1 ora. Il tempo di un sorriso, di un abbraccio, di un bacio e il colloquio è già finito e comincia l’attesa del prossimo.
Le parole che nessuno sa
PORTAVITTO
È una parola che non esiste nel vocabolario: troviamo solo “portavivande” – cesta, carrello atto a trasportare, conservandoli caldi, cibi già pronti
Il portavitto distribuisce colazione, pranzo e cena. Non è un lavoro faticoso, ma è impegnativo perché bisogna riuscire a distribuire porzioni di vitto uguali per tutti.
C’è qualche detenuto che non prende il pasto “al carrello” perché preferisce cucinarselo in cella col fornelletto da campeggio, allora qualche volta capita che chieda al portavitto di passare un piatto a un amico di un’altra cella, ma senza farsene accorgere perché è vietato.
NUOVO GIUNTO
Espressione utilizzata esclusivamente nel carcere e riferita alla persona appena arrestata, che deve essere immatricolata e poi portata in sezione e in cella. Esiste un Servizio Nuovi Giunti, un’attività di accoglienza che prevede visita medica, colloquio e presidio psicologico. Già la definizione mette in evidenza che si è entrati in un mondo diverso, in cui ha inizio l’adattamento a una nuova vita e anche il lessico usuale dovrà essere abbandonato.
Il primo giorno (Da Sillabari dal carcere, a cura del laboratorio di scrittura di Rebibbia, in “A buon diritto”, rivista telematica dell’Associazione per le libertà) :
“Cammino per un lungo corridoio con un grande sacco nero in spalla e uno più piccolo in mano; dentro, la roba che la guardia giù in matricola mi ha permesso di tenere e portare nel reparto. Scortato dall’agente che con passo svelto mi fa strada, mi sento confuso, ripenso alle formalità sbrigate in matricola, all’indifferente efficienza con cui mi hanno fatto spogliare e rivestire, mi hanno assegnato al reparto e dato la fornitura (lenzuola, coperte, ecc.) con l’ammonimento: “Non te le perdere e non le rovinare, se no ti verranno addebitate”.
I sacchi pesano, mi viene un po’ di fiatone mentre seguo l’agente, ma non è solo per la fatica. È la prima volta che entro in un luogo come questo. Chissà dove mi mettono? Chi troverò in cella?
“Sbrigati!” mi dice l’agente. E io allungo il passo: corridoio ampio, cancello, corridoio più stretto, altro cancello e ancora corridoio. Di fronte all’ultimo cancello con sopra la scritta G 9 ci fermiamo. Sono quasi contento di essere finalmente arrivato. Dall’altra parte del cancello vedo avvicinarsi un altro agente (di turno all’atrio) con una grande chiave d’ottone, con cui apre il cancello. Entro nell’atrio e saluto educatamente, lui mi dà un’occhiata fugace e mi risponde a mezza bocca. Sarà stufo di aprire e chiudere ‘sto cancello. Mi dicono di posare i sacchi e di aspettare in un angolo. Li sento parlare: “questa è piena… questa è da 6… primo piano no, ecco, qua… cartellino… scrivano…”. Guardo il soffitto, le ragnatele ondeggiano vicino a una finestra aperta; su delle mensole, dei trofei di tornei di calcio. Sento chiamare il mio nome: “Devi andare alla sezione A, cella 7. Prendi questo cartellino e dallo al collega alla rotonda”.
Arrivo al n. 7 e aspetto che l’assistente venga ad aprire la cella. Intanto un ragazzo si avvicina alle sbarre: “Vieni dalla libertà?”. Gli faccio cenno di sì.”
Le parole che nessuno dice
SPESINO
Colui che raccoglie gli ordinativi di spesa effettuati dai vari detenuti (ovviamente chi se lo può permettere) e distribuisce poi le cose acquistate suddivise in giornate a seconda del genere.
SCOPINO
Scopino – sinonimo regionale di spazzino: l’addetto alla spazzatura delle strade.
È l’addetto alla pulizia degli spazi comuni: docce, corridoi, salette… Il lavoro è svolto a turno dai detenuti, per dare a tutti la possibilità di lavorare, e prevede l’utilizzo di manodopera detenuta in art. 21 per i lavori di manutenzione ordinaria dei fabbricati, chiamati con il relativo acronimo MOF.
Ho lasciato volutamente per ultima la parola che più mi ha colpito che più di ogni altra testimonia come il linguaggio mostri, in modo inequivocabile, come la società concepisce la pena detentiva.
DOMANDINA
Domandina – diminutivo di ” domanda”, quesito /richiesta scritta
La domandina è il modulo 393 dell’Amministrazione Penitenziaria, col quale i detenuti devono comunicare le loro esigenze all’Amministrazione. Si imbuca in un apposito contenitore dal quale lo scrivano del reparto la preleva e la consegna al capoposto di giornata, che, dopo averla visionata, la timbra controfirmandola e la porta di persona alla Direzione, che, a sua volta, decide di autorizzare o no la richiesta. In altre carceri è l’agente di sezione che, durante la conta serale, ritira dalle celle domandine e posta.
Si fa la domandina per ogni cosa, a cominciare dall’acquisto di prodotti nella lista del sopravvitto, per telefonare ai parenti a casa, parlare con l’avvocato, chiedere un colloquio con l’educatore, l’assistente sociale, il cappellano; oppure per ordinare libri in biblioteca, recuperare un oggetto al casellario, avere il modulo del telegramma da spedire, ecc… Insomma, senza domandina non si può avere nulla, perché il detenuto può solo chiedere e aspettare di ottenere e non c’è nulla che possa essere dato per acquisito: ogni volta, anche più volte, si deve ripetere la richiesta, che può essere accettata o respinta, ignorata o persa.
È una parola “graziosa”, da asilo infantile, ma rappresenta l’emblema di un sistema che nega l’assunzione di responsabilità e rende dipendenti dall’autorità.
In realtà molte delle parole su cui abbiamo ragionato sono dei diminutivi dal suono grazioso (saletta, scopino, spesino…) Parole che richiamano in modo contraddittorio da una parte l’infanzia e la sua giocosità e dall’altra la tristezza di un luogo di cura per malati. In tutti e due i casi esse rimandano ad un mondo il cui linguaggio esprime non solo sottomissione, mancanza di autonomia e dipendenza dall’autorità, ma anche spersonalizzazione e perdita di dignità.
Scriveva Tortora alla compagna durante la sua detenzione: “Sapessi cos’è l’umiliazione di dover scrivere ogni cosa, una lametta da barba, una lozione, un telegramma che verrà letto prima, in fondo a una domandina”. Si dice proprio così, come all’asilo.”
Il lavoro dei detenuti nel carcere di Lecce
Lavorare nel carcere e per il carcere
In carcere, l’unica alternativa rispetto a una vita spesso vuota, snervante, priva di senso è il lavoro. Quello più facilmente raggiungibile è quello interno, nelle tante attività che sono necessarie per il funzionamento dell’istituto, che diventa vitale per far passare la giornata e per guadagnare qualche soldo. Senonché, anche il lavoro in carcere è un lusso: nel senso che, banalmente, i soldi per far lavorare tutti non ci sono e dunque le persone sono costrette a lavorare a rotazione.
La richiesta più frequente che in questi anni ho ricevuto, per uno strano paradosso, veniva spesso da persone che nella loro vita fuori dal carcere avevano lavorato poco e male.
In carcere sono possibili tre tipologie di lavoro: il lavoro intra-murario alle dipendenze dell’amministrazione penitenziario; il lavoro intra-murario alle dipendenze di terzi (le c.d. lavorazioni) ed il lavoro extra-murario, che è garantito dagli istituti del lavoro all’esterno, e dalla semi-libertà.
Di fatto è la prima tipologia di lavoro a farla da padrona, non solo nel carcere di Lecce, ma in tutto il complesso degli istituti penitenziari italiani.
Il lavoro intra-murario si configura come una tipologia di occupazione di tipo domestico nel senso che i servizi e i prodotti risultanti sono da considerarsi tutti come funzionali allo svolgimento e all’organizzazione della vita carceraria stessa. In Italia questa tipologia è quella che conta la maggiore quota percentuale sul totale dei lavoratori detenuti.
Al 31 dicembre 2022 i detenuti nelle carceri italiane che lavorano erano 19.907, il 38.8% dei 51mila reclusi: ben 17.209 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, 86,4%, 2.608 alle dipendenze di cooperative esterne, 945 lavorano all’esterno del carcere.
All’interno di questa categoria di lavoro rientrano attività come la pulizia delle sezioni, la distribuzione del vitto, addetti alle cucine, lavandai, mansioni di segreteria e scrittura di documenti e reclami per altri detenuti, quasi tutte attività di scarsa qualificazione, che non offrono quindi alcuna occasione di apprendimento e formazione spendibili nel mercato del lavoro libero, ma hanno un unico pregio quello di poter essere potenzialmente aperti a tutti i detenuti. Le Amministrazioni penitenziarie, tuttavia, non avendo fondi sufficienti a far lavorare tutti, sono solite creare una turnazione tra i reclusi in modo da coinvolgere quanta più popolazione possibile, anche al costo di ridurre il lavoro individuale a brevi periodi o poche ore. Vi è poi un’altra tipologia di lavoro interno, alle dirette dipendenze dell’AP., che ha invece caratteristiche di maggiore continuità e professionalità, ed è quello che si svolge all’interno del sistema MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati) cioè tutti quei servizi di piccola manutenzione di idraulica, carpenteria, elettricità ed altro, che consentono ai detenuti di guadagnare per un lungo periodo una cifra più adeguata e permettono di coltivare o imparare qualcosa che potrebbe diventare il mestiere da utilizzare nella futura libertà.
Complessivamente il numero di detenuti che riesce ad usufruire di questa preziosa possibilità è veramente poco: solo 333 detenuti, quasi tutti uomini (310), che rappresentano ben l’84,5% di tutti i detenuti che lavorano a qualunque titolo.
Per il lavoro penitenziario intramurario alle dirette dipendenze dell’A.P., un aspetto importante ma molto controverso è quello relativo alla scelta e alle modalità di assegnazione che ne rappresentano il punto cruciale. La normativa dice che, qualora non siano richieste particolari capacità e competenze per svolgere una determinata attività, i criteri per l’assegnazione siano
stabiliti utilizzando alcuni criteri: il grado di anzianità di disoccupazione, i carichi familiari, le esperienze pregresse nel settore e le possibilità del soggetto di utilizzare l’esperienza dopo la liberazione. Si creano quindi delle liste di collocamento, generali e per qualifica o mestiere. La legge 296 del 1993 ha eliminato la discrezionalità lasciata all’A.P. nell’assegnare il lavoro ad un determinato detenuto, eliminando anche la logica premiale che non si conforma alla concezione del lavoro come diritto. Per questo motivo la cessazione del rapporto di lavoro, tranne per i lavori turnanti, può avvenire unicamente per inadempienze o irregolarità comprovate commesse durante lo svolgimento del lavoro, non come sanzione disciplinare per atti compiuti fuori del momento lavorativo.
Paradossalmente questa tipologia di lavori finisce per risultare quella meno utile allo scopo ultimo del lavoro penitenziario e cioè la rieducazione e la risocializzazione; a causa dei suoi contenuti ordinari e quotidiani, questi lavori difficilmente sono in grado di fornire competenze e pratiche spendibili sul mercato del lavoro libero. Inoltre il rapporto particolare e specifico che si configura tra amministrazione penitenziaria e detenuto complica ulteriormente le cose e rende ancor più complicato per il detenuto lavoratore rivendicare e vedere riconosciuti i propri diritti. Ne è un esempio lampante la storia del diritto alla NASpI da parte dei detenuti involontariamente disoccupati per effetto della turnazione. Il diritto alla NASpI, riconosciuto in caso di cessazione dell’attività di lavoro svolta dai detenuti all’esterno del carcere, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria, non lo è attualmente nel caso di lavoro all’interno delle strutture penitenziarie.
La storia origina dal messaggio dell’Inps n. 909 del 5 marzo 2019 che sospende l’erogazione del trattamento indennitario recuperando una sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Pen. I,
n. 18505 del maggio 2006, secondo la quale «l’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’Istituto penitenziario ed al medesimo assegnata dalla Direzione del carcere non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria. Detta attività, infatti, ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione».
Da qui la decisione dell’Istituto previdenziale che avvisa che «ai soggetti detenuti in Istituti penitenziari, che svolgano attività lavorativa retribuita all’interno della struttura ed alle dipendenze della stessa, non può essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività in cui essi vengano a trovarsi. È fatto salvo, invece, il diritto dei medesimi soggetti detenuti presso Istituti penitenziari alla indennità di disoccupazione da licenziamento nel caso in cui il rapporto di lavoro si sia svolto con datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria”
In questi anni molti tribunali del lavoro si sono espressi contro tale decisione, condannando l’INPS al pagamento dell’indennità, ma ciò non ha prodotto alcuna modifica nella decisione presa.
Un comportamento discriminatorio è assolutamente contrario a quanto ha affermato la Corte Costituzionale nella sentenza n. 158 del 22 maggio 2001 (in continuità con le pronunce del 1984, del 1988 e del 1999). A proposito del diritto del detenuto che lavora alle dipendenze dell’A.P. di godere delle ferie, la Corte, pur riconoscendo «le peculiarità derivanti dalla
inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario», ha affermato che «né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato (…) La Costituzione sancisce chiaramente (art. 35) che la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», e (all’art. 36, terzo comma) che qualunque lavoratore ha diritto anche alle «ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi», garanzia che vale ad assicurare il soddisfacimento di primarie esigenze del lavoratore, fra le quali in primo luogo la reintegrazione delle energie psicofisiche».
Nel carcere di Lecce nessun detenuto che lavora alle dipendenze dell’A.P. da tempo percepisce l’indennità di disoccupazione.
Arredare il carcere: la falegnameria
Il carcere di Lecce, infine, dispone di un laboratorio di falegnameria molto attrezzato, in funzione da tempo: strano ma frequente paradosso questo, visto che gli arredi del carcere, quelli che utilizzano i detenuti nelle loro celle ma anche quelli che utilizzano gli operatori nelle piccole stanze dove avvengono i colloqui, sono vecchi, malandati e insufficienti.
Le attività si erano fermate per le modifiche necessarie per ammodernare e rendere adeguato il laboratorio a produrre armadi, tavoli, sedie e sgabelli in legno per i 190 istituti presenti sul territorio nazionale. Il progetto, reso possibile dal progetto ‘Milia’, finanziato tramite il Pon Inclusione 2014-2020 e finalizzato al recupero e al rafforzamento delle competenze delle persone recluse e all’acquisizione di professionalità richieste dal mercato del lavoro, ha proprio l’obiettivo di creare opportunità di inclusione attiva delle persone in ‘esecuzione penale’. Sono stati selezionati e sono nella fase finale dell’addestramento 110 detenuti della casa circondariale di Lecce insieme ai 75 della casa di reclusione di Sulmona.
I cinque corsi formativi sono alle battute finali: dopo gli esami per il conseguimento degli attestati di qualifica seguiranno le attività di tirocinio.
In attesa del completamento delle attività di formazione dei nuovi falegnami, il laboratorio ha ripreso la sua attività e in essa sono impegnati 7 detenuti, uomini e italiani.
Lavorare nel carcere ma non per il carcere
Lavorare in carcere fa sicuramente bene: i detenuti che lavorano, principalmente quelli alle dipendenze di attività lavorative gestite in carcere da Cooperative esterne, che è la forma di lavoro che più si avvicina a quello svolto all’esterno del carcere, vivono meglio la loro condizione. Lavorando, i detenuti possono sostenere la famiglia e i figli economicamente, riducendo il rischio di povertà e aumentando le possibilità di istruzione dei figli minori; sentono di valere per loro, di avere ancora un ruolo nel contesto familiare e sviluppano un atteggiamento più positivo verso se stessi e il contesto in cui sono costretti a vivere.
Secondo il recente studio “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere” promosso da Fondazione E. Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud con il patrocinio del ministero della Giustizia, i benefici del “lavoro autentico e abilitante” sono tanti: significativa diminuzione della depressione, minore incidenza dell’obesità, riduzione dei farmaci consumati e delle visite mediche, diverso atteggiamento nei confronti della pena e minori rischi di violenza. Con un doppio vantaggio: il tasso di recidiva scende e la produttività sale.
Molti studi ormai hanno dimostrato come lavorare durante il periodo della detenzione, in modo stabile in attività professionalizzanti, abbia effetti molto positivi da più punti di vista: migliora la qualità della vita delle persone recluse, aumenta l’occupabilità dei detenuti al momento del rientro nella società, diminuisce sensibilmente la recidiva.
È quello che abbiamo potuto verificare visitando e parlando con i detenuti e le detenute impegnate in un lavoro con queste caratteristiche.
Nella C.C. Borgo San Nicola, ormai da tempo, sono presenti alcune realtà lavorative che rappresentano un’esperienza importante in grado di offrire ad alcuni detenuti e detenute (ahimè troppo poche) la possibilità di imparare un mestiere, guadagnare per potersi mantenere e aiutare, se necessario, la famiglia, ma anche di vivere una vita quanto più possibile vicina a quella fuori dal carcere: alzarsi al mattino, far colazione, mettersi in ordine, uscire per andare a lavorare in un contesto di socialità, tornare in sezione e completare lì la giornata.
Per chi non ha provato la privazione della libertà tutto questo è a volte fonte di noia, stress, irritazione; per i detenuti e le detenute è invece fonte di tranquillità, soddisfazione, occasione di socialità, strumento di autonomia e autorealizzazione.
Il lavoro come rigenerazione: Made in carcere
Il carcere di Lecce è la sede del marchio Made in Carcere nato nel 2007, grazie a Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, una cooperativa sociale non a scopo di lucro, che produce manufatti confezionati da donne ai margini della società, alle quali viene offerto un percorso formativo con lo scopo del loro reinserimento nella società lavorativa e civile. Le detenute coinvolte hanno la possibilità di imparare un lavoro e mantenersi o mandare i soldi a casa.
Il brand si presenta da subito come un’esperienza capace di dare un “seconda opportunità” alle donne che vi lavorano e ai tessuti utilizzati, tutti esclusivamente di scarto, sottratti al loro destino di andare al macero.
In questo modo “MADE IN CARCERE prova ogni giorno a contaminare la società economica e civile, attraverso la promozione e la diffusione del nostro modello di “economia rigenerativa”. Un modello di impresa etica, basato su principi di rigenerazione e consapevolezza delle persone emarginate, a tutela dell’impatto ambientale e dell’inclusione sociale, determinando così nel tempo un cambiamento sistemico su tutto il territorio.
Protagonisti del nostro sogno sono Donne, Uomini e Minori in stato di detenzione, o sottoposti a limitazioni della libertà personale, che quindi vivono in una condizione di disagio e marginalità. Viene offerta loro l’opportunità di acquisire delle competenze tecniche e professionali, per poi lavorare e percepire un regolare stipendio ma, soprattutto, costruire consapevolezza e dignità.” (dal sito di Made in carcere)
Made in carcere occupa 9 detenute, due sono straniere, assunte con regolare contratto dopo un breve periodo di formazione. L’Atelier, come lo chiamano, è una piccola oasi situata in un’ala dell’edificio in cui sono allocate le due sezioni femminili, luminosa e confortevole, per quanto possa esserlo un carcere, dotata di una cucina, nella quale le detenute posso preparare o comunque scaldare il cibo, una zona pranzo, dove consumare il pasto in gruppo, una piccola stanza adibita a palestra, una zona relax e un bagno.
L’impresa ha una sede fuori dal carcere, a Lequile, dove sono occupati 5 detenuti uomini, e altre esperienze nelle carceri di Trani e di Matera e tra un po’ anche a Taranto.
Con Fondazione per il Sud, Officina creativa sta portando avanti il Progetto BIL – Benessere Interno Lordo, che coinvolge 65 soggetti in stato di detenzione e 8 partner di progetto, dislocati in 3 Regioni del Sud Italia – Puglia, Campania e Basilicata.
Le attività lavorative hanno coinvolto negli anni 250 persone in stato di detenzione, con una recidiva quasi pari a zero.
Il Progetto replica il modello di “economia rigenerativa” sviluppato attraverso il brand sociale Made in Carcere, con il risultato di creare nuovi posti di lavoro, “trasferire le proprie competenze e la propria esperienza ad altre cooperative ed associazioni, e valutare l’impatto sociale che queste attività generano su più livelli – individuale, comunitario ed ambientale”.
Il lavoro come rigenerazione: il Laboratorio Linkem/Tiscali
L’esperienza del laboratorio di rigenerazione dei router danneggiati o restituiti dai clienti che hanno cessato il contratto con Linkem nasce nel carcere “Borgo San Nicola” durante il periodo della pandemia. Con grande disponibilità ed efficienza, nei primissimi momenti di chiusura totale del carcere, Linkem venne incontro alle difficoltà dell’istituto, non preparato ad affrontare l’aumento delle telefonate e l’introduzione delle videochiamate, autorizzate durante il lockdown per sopperire al blocco dei colloqui in presenza, installando gratuitamente e in tempi rapidissimi le postazioni necessarie. È stato in quel periodo che nacque l’idea di attrezzare un laboratorio per far tornare a nuova vita, reimmettendoli sul mercato, i router vecchi e danneggiati, che non avevano altra destinazione che il macero, grazie alle competenze meccaniche e informatiche acquisite dagli ospiti della casa circondariale.
Al momento lavorano all’interno degli spazi allestiti nel carcere 10 detenuti, tutti uomini e italiani, mentre altri 2 sono stati impiegati all’esterno, nei centri Linkem di Lecce e Taranto.
Il lavoro come nutrimento generativo: Social Food Corporation
Il laboratorio gastronomico è stato ideato e lanciato nel 2019 dall’imprenditore Davide De Matteis nell’ex carcere minorile di Lecce, dove lavorano detenuti a fine pena, in accordo con il Ministero della Giustizia che ha messo a disposizione l’ex carcere minorile di Lecce. Il Laboratorio ha diverse linee produttive e apparecchiature di ultima generazione, punta su filiera corta, rispetto del territorio, tutela dell’ambiente e della salute, ingredienti per lo più di origine biologica e del territorio pugliese, ricette tradizionali ed elaborate ad hoc. Si producono confetture, conserve, sughi, pane, frollini, pasticciotti, cioccolato, latte di mandorla e tanti altri prodotti salati e dolci, come anche la “Colomba 300mila per l’Ucraina” in limited edition (solo 100 pezzi), confezionata con i colori dell’Ucraina, la cui vendita contribuirà alla raccolta di fondi da destinare all’Unicef per l’Ucraina.
Attualmente i detenuti coinvolti sono quattro, tutti uomini e italiani.
Il lavoro come nutrimento generativo: il Forno della ditta Quattro Settembre
È un’attività molto avviata, produce pane di tutti i tipi e altri prodotti da forno, vi lavorano 7 uomini italiani. Il pane appena sfornato è acquistato e distribuito a tutti i detenuti ma soprattutto venduto in molti supermercati e negozi della zona. Nei locali grandi e ben attrezzati c’è un profumo di pane fresco che si spande per tutto il corridoio.
Riporto il commento meravigliato e divertito di un acquirente che scopre che il pane che mangia regolarmente è prodotto nella Casa Circondariale di Lecce “Mangio questo ottimo pane tipo
Matera. Guardo l’etichetta e leggo Casa Circondariale Lecce. Ecco, questo è il compito educativo che dovrebbe avere il carcere. Dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato.
Cosa c’è meglio di una professione manuale per trovare una seconda via, nuova, alla prossima vita fuori dalle sbarre? Imparate questa splendida arte (lo è stata per i miei avi) e mettetela da parte per quando sarete nuovamente liberi. Liberi come il pane, il cibo di tutti, da sempre sulle tavole di tutti senza distinzione di ceto. Buona nuova vita, con le mani sporche solo di farina.”
Il lavoro come nutrimento generativo: L’orto e le coltivazioni della Cooperativa Semi-liberi Nello spazio tra il carcere vero e proprio e le mura di cinta, nella zona che chiamano appunto inter-cinta, vi sono ampie distese di terreno che da una parte offrono allo sguardo una prospettiva profonda e, almeno in alcuni mesi dell’anno, colorata di verde, dall’altra si prestano ad essere utilizzate per attività agricole. È quello che già dal 2016 la Cooperativa Semi-liberi ha fatto con il Progetto per la coltivazione e trasformazione di ortaggi in carcere, finanziato da Cassa per le ammende, producendo pomodori e ortaggi da vendere all’esterno e consumare all’interno. Dopo un lungo periodo di interruzione, l’orto comincia a riprendere vita: 2 detenuti della Cooperativa hanno ripreso le coltivazioni in attesa del finanziamento, anche questa volta di Cassa per le Ammende, con il quale il numero dei detenuti lavoratori aumenterà notevolmente.
Lavorare fuori dal carcere
Questa tipologia di lavoro carcerario è quella su cui il legislatore italiano ha maggiormente puntato, sin dalla grande riforma del ’75, nella certezza che il lavoro sia la strada maestra per combattere e sconfiggere la segregazione dell’istituzione carceraria. Si tratta dell’unico lavoro che, almeno nella maggior parte dei casi, ha un’organizzazione, dei tempi di lavoro, una legislazione e un guadagno del tutto simile a quello svolto dalle persone libere: lo scarto è minimo.
Il lavoro extra-murario può essere concesso in virtù di due normative: quella del lavoro all’esterno e quello della semi-libertà. Dal punto di vista formale il primo istituto rientrerebbe nel novero delle modalità trattamentali, mentre il secondo si configura, come già esposto sopra, come una modalità alternativa di detenzione. Dal punto di vista applicativo e sostanziale, però, finiscono per coincidere quasi interamente. Entrambi danno il via ad un rapporto di lavoro di natura privatistica, che soggiace alla stessa legislazione giuslavorista di tutti gli altri lavori liberi in termini di retribuzione, ferie, diritti sindacali e orari di lavoro, dove ovviamente la fruizione di alcuni di questi diritti deve essere adeguata alla condizione carceraria.
Il lavoro extra-murario può essere concesso in virtù di due normative: quella del lavoro all’esterno e quello della semi-libertà. Dal punto di vista formale il primo istituto rientra nel novero delle modalità trattamentali, il secondo si configura come una modalità alternativa di detenzione
I due istituti si distinguono, invece, per quanto riguarda la concessione e la cessazione del rapporto di lavoro.
Il lavoro all’esterno viene concesso dalla direzione dell’Istituto penitenziario e successivamente confermato dal Magistrato di Sorveglianza a tutti i detenuti condannati con i limiti stabiliti dal I comma dell’art 21 della 203/1991. “I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all’esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi previsti dall’articolo 15. Tuttavia, se si tratta di persona condannata alla pena della reclusione
per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’articolo 4bis, l’assegnazione al lavoro all’esterno può essere disposta dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni.”
Per quanto riguarda la semilibertà il lavoro è previsto come condizione necessaria per potervi accedere. La semilibertà viene concessa, dopo una valutazione del percorso rieducativo seguito dal condannato, da parte del Tribunale di Sorveglianza, sulla base delle potenzialità di rieducazione che il lavoro individuato offre.
Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato, di durata non inferiore ai dieci giorni o non superiore a sei mesi, per un massimo di 6/8 ore settimanali. Se sganciato completamente dalla pena e utilizzato come elemento del trattamento, si differenzia dal lavoro esterno e perde molta della sua forza emancipatrice.
Nel carcere di Lecce lavorano in semilibertà 17 detenuti uomini, 1 con un lavoro indipendente, gli altri 16 con un rapporto di lavoro dipendente; di questi uno solo è straniero. 6 detenuti, 5 uomini e 1 donna lavorano sulla base all’art. 21 e 1 uno solo è impegnato in un lavoro di pubblica utilità.
Studiare nel carcere di Lecce
L’importanza della scuola in carcere è un elemento presente da tempo: già nel 1891 il “Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi” affidava all’istruzione il compito di correggere il detenuto, colmando i vuoti causati dall’ignoranza e dalla mancanza di educazione.
Nella C.C: di Lecce è presente l’ITES Olivetti, con alcune classi inquadrate nell’ordinamento della formazione degli adulti. Il corso si sviluppa nel settore Tecnico Economico con indirizzo “Amministrazione, finanza e Marketing” (AFM) ed è inserito nella rete del Centro Provinciale Istruzione Adulti (CPIA) di Lecce.
L’offerta formativa consente di garantire il diritto all’istruzione anche alle persone adulte e permette il recupero delle carenze nella formazione di base con un’offerta formativa completa; la crescita socio – culturale; approfondimenti e anche eventualmente una riconversione professionale per chi ha già un diploma; la ripresa degli studi per coloro che hanno interrotto il proprio percorso formativo giovanile; un auspicabile reinserimento nel mondo del lavoro. (dal sito dell’ITIS Olivetti)
Il contesto giuridico di riferimento per questo ordinamento è rappresentato dal DPR 263/12 e successive Linee guida attuative (2015).
Il percorso dell’Indirizzo tecnico economico dell’istruzione degli adulti è un percorso denominato di II° Livello, che si articola in tre periodi:
il 1° Periodo didattico (primo biennio) finalizzato all’acquisizione delle competenze e della certificazione necessaria per l’ammissione al secondo periodo (secondo biennio)
il 2° Periodo didattico (secondo biennio) finalizzato all’acquisizione della certificazione necessaria per l’ammissione al quinto anno.
il 3° Periodo didattico (quinto anno) finalizzato all’acquisizione del diploma d’istruzione tecnica.
I percorsi di istruzione di secondo livello sono progettati per Unità di Apprendimento (UDA) intese come “un insieme autonomamente significativo di conoscenze, abilità e competenze” correlate ai livelli e ai periodi didattici. Tali Unità di Apprendimento rappresentano il necessario riferimento per il riconoscimento dei crediti che possono essere fruiti per ciascun livello anche in due anni scolastici e sono organizzati in modo da consentire la personalizzazione del percorso, in conformità al Patto Formativo Individuale che viene stilato per ogni anno di corso. I percorsi di secondo livello hanno un orario complessivo pari al 70% di quello previsto dal corrispondente ordinamento degli Istituti Tecnici con riferimento all’area di istruzione generale e alle singole aree dell’indirizzo, nel nostro caso AFM.
I detenuti che nell’a.s. 2020/21 hanno frequentato la scuola in carcere sono presentati nella tabella che segue
Detenuti (M)
iscritti
Detenute (F)
iscritte
Detenuti (M)che hanno superato il livello
Detenute (F) che hanno superato il livello
% successo% successo
1° livel1lo 1° periodo 46 – 16 – 1° livello 2° periodo 10 – – – – –
2° livello 1°periodo 72 6 12 – 16,7 –
Come si può chiaramente vedere il fenomeno dell’abbandono è grave e coinvolge prevalentemente i detenuti italiani che rappresentano la quasi totalità degli studenti del 1 e 2 livello. I pochissimi che arrivano in fondo, frequentando l’ultimo anno che porta poi all’acquisizione del titolo, non abbondano. I motivi sono tanti: primo fra tutti l’incompatibilità degli orari scolastici con l’attività lavorativa, sicuramente più appetibile per i tanti motivi che abbiamo già detto; la discontinuità delle attività didattiche causata dalla soppressione di giornate di scuola per l’impossibilità ad assicurare il servizio di vigilanza da parte della Polizia Penitenziaria; una diffusa sensazione dell’inutilità della scuola, soprattutto per quella parte della popolazione carceraria in posizione giuridica ancora non definitiva, che sente pertanto la sua presenza nel carcere di Lecce provvisoria e spesso ingiusta.
Anche a sostegno dei detenuti studenti, nel carcere di Lecce sono presenti 4 biblioteche, una per ogni reparto, nelle quali vi è un numero non precisato di libri, non pochissimi, molto vari: non tutte le biblioteche hanno un responsabile, in genere un detenuto che svolge quel lavoro gratuitamente, per cui il prestito è molto difficile.
I libri su cui studiare sono forniti dalla scuola e/o dagli insegnanti in copia. Non ci sono o non vengono utilizzati fondi regionali, provinciali o comunali per il loro acquisto. Studiare è poi quasi impossibile: le sezioni sono luoghi del tutto inadatti allo studio, chiassosi, movimentati, senza spazi in cui isolarsi, concentrarsi e studiare.
Durante la pandemia, ha funzionato un sistema di didattica a distanza rivolto solo ai detenuti maturandi. Se pur con mille difficoltà, dovute a problemi di collegamento e alla cronica carenza di personale della polizia penitenziaria, l’esperienza è stata utile ed ha consentito ai detenuti di mantenere un contatto con i docenti e di completare il percorso di studio.
Le difficoltà che studenti e docenti devono affrontare in carcere sono tante e non sempre di facile e immediata soluzione. Le possiamo così riassumere:
Il primo nodo da affrontare è quello dei finanziamenti indispensabili per rendere attuativo il protocollo d’intesa, con cui il MIUR e il Ministero di Giustizia da tempo si sono impegnati a collaborare, per perseguire il diritto costituzionale all’istruzione come leva di pieno reinserimento sociale dei detenuti. Per fare un esempio le risorse per garantire il contributo da erogare ai detenuti che frequentano la scuola in carcere sono ferme al 1989
È necessario migliorare e ampliare l’offerta formativa scolastica per garantire anche ai detenuti la libera scelta dell’istituto scolastico da frequentare (I Percorsi di istruzione di secondo livello sono finalizzati al conseguimento del diploma di istruzione tecnica, professionale e/o artistica)
Il tema del diritto alla connettività in carcere non può più essere rinviato; è necessario proseguire sulla strada intrapresa durante la pandemia, evitare che il suo superamento provochi un ritorno indietro, come di fatto sta succedendo. L’obiettivo è quello di garantire ai detenuti, in particolare ai detenuti studenti, la possibilità di accedere alla rete come fonte di informazione
È necessario garantire la conciliabilità tra lavoro e studio anche con la previsione di corsi pomeridiani per gli studenti lavoratori. L’alternativa scuola-lavoro favorisce la rinuncia allo studio
Libri di testo: è necessario sollecitare le Regioni per ottenere fondi per il loro acquisto, stabilire contatti con i comuni per l’utilizzo dei bonus libri
Creare luoghi idonei allo studio, migliorare quelli esistenti e renderli più fruibili per tutti i detenuti. Prevedere sale studio in ogni sezione.
Occorre rendere le biblioteche più attrezzate e accessibili: le biblioteche devono essere uno spazio di informazione, formazione, svago, facilmente fruibili da parte dei detenuti (studenti e non) e di coloro che lavorano in carcere. Occorre formare detenuti in grado di svolgere il ruolo di bibliotecari in carcere
È necessario trovare soluzioni praticabili per superare le difficoltà legate al tema della separatezza tra detenuti di circuiti diversi e nei fatti incompatibili, che rende più complessa e difficile l’organizzazione didattica.
Tra le tante problematicità e criticità con cui la scuola in carcere si scontra ogni giorno, grazie all’impegno di tanti docenti che svolgono il loro lavoro con serietà, determinazione, impegno e, perché no, anche con amore verso la professione, vi sono anche alcune esperienze di eccellenza, che, nel mare magnum delle difficoltà, ci fanno ben sperare o quanto meno non ci fanno scoraggiare nel perseguire i nostri obiettivi.
Una di queste è stata realizzata nel periodo giugno-luglio 2020, durante il primo periodo della pandemia. Già la scelta del periodo estivo è di particolare rilevanza: da giugno, ma ancor più dal mese di luglio, il carcere si svuota delle presenze esterne: insegnanti, volontari, laboratori di vario tipo concludono le loro attività e scompaiono. Il carcere torna ad essere popolato solo da coloro che ne fanno parte, a vario titolo.
Il corso di formazione estivo, denominato “Creatività e Inclusione in carcere” modulo “Creare con la stampante 3D, è stato realizzato dal prof. Antonio Dell’Anna (Esperto), dalla prof.ssa Maria Chiara Marzo (Tutor) e dalla prof.ssa Orietta Epifani (valutatrice) ed ha coinvolto 13 detenute frequentanti l’ITES Olivetti sezione femminile. Il gruppo ha avuto a disposizione 5 stampanti 3D e ha lavorato con interesse e impegno straordinari. Sono stati 10 giorni di lezione per un totale di 30 ore.
Gli obiettivi del corso erano:
conoscere la Manifattura Additiva e la Fabbricazione Digitale;
sviluppare abilità sociali e competenze digitali volte a migliorare l’impiegabilità e a facilitare la reintegrazione sociale;
acquisire conoscenze che favoriscano l’emancipazione.
Le detenute coinvolte erano molto diverse tra loro per età, formazione di base, esperienze di vita. Il lavoro pertanto è stato organizzato in modo da consentire la partecipazione di tutte le partecipanti, in relazione alle proprie possibilità e competenze.
Durante il corso sono state realizzati due tipi di oggetti di materiale idrosolubile PLA: Visiere Anti Covid e semplici oggetti composti da solidi regolari: parallelepipedi, sfere, cilindri, ecc. intersecati tra loro per creare oggetti tipo: lampade, timbri, imbuti, scritte di varie dimensioni, tazze, ecc. Il successo è stato notevole, il progetto ha avuto una grande visibilità e ha portato la scuola alla vittoria del Primo “Premio Nazionale Scuola Digitale” per scuole per adulti. La premiazione è avvenuta alla presenza del Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, il 14 dicembre 2021, a DUBAI nell’ambito dell’EXPO 2020.
All’evento erano presenti da remoto la direttrice della Casa Penale, dott.ssa Valentina Meo Evoli, la Dirigente dell’ITES Olivetti presso la casa Penale, prof.ssa Patrizia Colella, altri docenti, il personale amministrativo e alcuni rappresentanti della Polizia penitenziaria. Con gioia e soddisfazione ho partecipato anch’io.
Nonostante la gioia e la soddisfazione per il riconoscimento ricevuto, insegnanti e allieve non nascondono la presenza di numerose difficoltà: le procedure del Ministero della Giustizia che riguardano la sicurezza dei detenuti rendono complessa e farraginosa ogni tappa; la difficoltà dei collegamenti in internet, considerati sempre una eccezione e mai un normale strumento per lavorare meglio e di più; le complesse e lunghe pratiche per avere le autorizzazioni a far partecipare in diretta una delle detenute all’evento, se pur in collegamento online e senza mostrare il viso. Tutte difficoltà, tuttavia, superate con pazienza, buona volontà e un pizzico di testardaggine, che non guasta mai.
Gli studenti universitari detenuti a Lecce
Al momento nel Carcere di Lecce sono iscritti all’Università 13 studenti, 9 appartenenti al circuito della media sicurezza e 4 a quello dell’alta sicurezza, ci sono poi 3 studenti che continuano a studiare, ma attualmente non sono in carcere perché liberati o perché sono in misura alternativa. I Dipartimenti coinvolti sono ben 7 su 8, i Corsi di Studio sono 8 nello specifico
Iscritti
Dams 1
Beni culturali 1
Scienze motorie 1
Ingegneria industriale 1
Scienze della comunicazione 1
Lingue 1
Scienzedell’educazioneedella
formazione 1
Economia 2
Sociologia 4
Totale 13
Fonte: Monitoraggio CNUPP
Gli iscritti all’Università del Salento presenti attualmente nella C.C. sono 9. Gli altri 4 sono attualmente collocati in altri istituti: 1 a Melfi, Rossano Calabro, Biella e Taranto. (Per questi studenti) l’Università fa uno sforzo notevole per consentire agli studenti di effettuare incontri online con i loro docenti e
I detenuti, al momento tutti uomini, appartengono ad una fascia d’età per così dire matura, dai 41 ai 55 anni (9); tre detenuti hanno dai 30/35 anni, uno solo 36/37 anni.
Dall’A.A. in corso tutti gli studenti universitari detenuti sono esonerati dal pagamento di tutta la quota delle tasse universitarie che va all’Ateneo di iscrizione. La cifra rimante comunque da pagare è irrisoria.
Studiare in carcere
Dopo la nascita del Polo Penitenziario e come sua prima rilevante conseguenza, nella C.C., a spese dell’Università del Salento, è stata allestita una sala studio situata al piano terra dell’edificio chiamato C3, un edificio attivato durante il periodo della pandemia. Una sala luminosa, ben attrezzata con un certo numero di computer, tavoli da studio, librerie per collocare libri, di fatto mai utilizzata, se non per un breve periodo da un detenuto trasferito nel C3 in quanto studente universitario.
Come possiamo facilmente comprendere studiare nelle sezioni è pressoché impossibile. Le celle sono quasi tutte occupate da due detenuti, a volte anche da tre. Poiché le sezioni, vecchie e strutturalmente malandate, hanno bisogno di periodica manutenzione ordinaria, in grado di tamponare e non di risolvere il problema, è necessario svuotarne a turno una, spostando i detenuti nelle altre sezioni, con la conseguenza di un aggravarsi del problema del sovraffollamento fisico, acustico e psicologico.
Come possibile soluzione al problema ho chiesto alla Direzione di spostare i detenuti studenti nel reparto C3, dove ha sede l’aula universitaria e le celle sono comunque più confortevoli e tranquille. Non è stato facile rivedere la distribuzione dei detenuti, vista anche la loro appartenenza a circuiti diversi, (alta e media sicurezza) tra loro incompatibili, e trovare le soluzioni ai tanti problemi esistenti, tuttavia la direzione è riuscita a proporre a 4 detenuti studenti il trasferimento; ad accettarlo, però, è stato solo un detenuto. Gli altri nel frattempo
erano stati chiamati a lavorare e, ancora una volta, tra lo studio e il lavoro inevitabilmente i detenuti scelgono il lavoro.
Anche studiare in biblioteca non è semplice: anche se, come già detto, tutte le sezioni sono provviste di biblioteca è difficile poterle utilizzare per consentire ad almeno 2 detenuti studenti di studiare in tranquillità, perché molto spesso, per mancanza di spazi adeguati, la biblioteca è utilizzata per lo svolgimento di attività extra-scolastiche (corsi di formazioni) e incontri di varia natura.
Il sostegno dei tutor
Uno studente universitario qualsiasi ha tanti modi per informarsi, fare le sue scelte, confrontarsi con i docenti, gli amministrativi, i colleghi per affrontare e risolvere tutte le difficoltà. Quelli che non risiedono a Lecce, non frequentano le aule e gli studi dei docenti hanno un telefonino sempre con sé, che consente loro di assumere tutte le informazioni necessarie.
Un detenuto studente non ha nulla di tutto ciò: nessuno strumento, occasione, possibilità per assumere informazioni. Senza un ponte tra il carcere e il mondo dell’Università, per uno studente detenuto è assolutamente impossibile fare qualunque cosa: avere cognizione del piano di studi per poter scegliere le discipline da sostenere, conoscere i programmi, le date degli appelli. Non può avere informazioni sui testi, attingere notizie e contenuti aggiuntivi ogni volta che affronta un tema, un argomento nuovo, ogni volta che incontra una parola di cui non conosce bene il significato.
Questo significa che senza la presenza assolutamente indispensabile di un tutor che svolga questo compito, che faccia da sponda, da tramite tra i due mondi, un detenuto fa molta fatica a studiare e ad andare avanti nel percorso.
L’università ha conferito un solo incarico ufficiale, identificando la figura del Referente Amministrativo d’Ateneo che lavora a stretto contatto con la delegata del Rettore, componente della CRUPP (Conferenza Rettori Università Polo Penitenziario). Se pur con una certa discontinuità è presente in carcere una volontaria individuata dal gruppo di lavoro tra gli studenti che hanno svolto il tirocinio con la Garante.
A sostegno degli studenti universitari detenuti sono presenti, anche prima della costituzione del Polo Penitenziario, due volontarie che da tempo si occupano dei detenuti studenti, fino a poco tempo fa di quelli che frequentano la scuola, ora anche di quelli che frequentano l’Università. Un altro problema che crea una difficoltà aggiuntiva è quello della grande diffidenza, non solo e non tanto delle autorità penitenziaria, quanto della Polizia penitenziaria e della Magistratura di sorveglianza nei confronti dell’uso di tutti quegli strumenti telematici, che, invece, potrebbero agevolare e rendere più proficuo il rapporto tra studenti e docenti e farli studiare meglio e di più. Un esempio per tutti: le chiavette USB con dentro riassunti di testi, video registrati da docenti, schemi di lezione possono essere visionate dopo lunghe procedure di autorizzazione, a volte tanto lunghe da non consentire al detenuto di poter sostenere l’esame nella data concordata.
Si comprende facilmente, dunque, come tutti questi problemi rendano lo studio molto disagevole e abbiano generato nell’ultimo anno un certo malumore tra i detenuti, dovuto alla delusione per il mancato raggiungimento di quegli obiettivi che sembravano a portata di mano, almeno così erano presentati, ma che nel tempo non hanno trovato la strada giusta per essere raggiunti. In questo ultimo anno ho ricevuto numerose lamentele in tal senso, che ho
sistematicamente riportato alla Referente, ma che, nonostante il grande grandissimo impegno profuso, non hanno sortito gli effetti voluti.
Per l’A.A. 2022/23 c’erano state ben 20 preiscrizioni, nessuna delle quali si è al momento concretizzata. I motivi sono vari: 10 detenuti sono stati nel frattempo trasferiti (quello dei trasferimenti che non tengono conto in alcun modo delle necessità del detenuto studente è un problema molto grave); alcuni di loro risultano ancora iscritti presso altri Atenei, per cui è necessario attivare e portare a compimento la pratica di rinuncia gli studi, prima di effettuare l’iscrizione; altri non hanno maturato la loro scelta; altri ancora sono stati scoraggiati dal sentire comune degli altri studenti, che, a causa di tutto quello che abbiamo detto, si sentono delusi e in alcuni casi hanno abbandonato l’idea.
Tra le soluzioni possibili per rendere agevole e concretamente realizzabile il desiderio di molti detenuti di studiare, per costruirsi un futuro professionale per il dopo detenzione, per migliorare le proprie conoscenze, per rendere più sostenibile la vita in carcere vi è certamente la necessità di:
rendere possibile i collegamenti internet per la frequenza a distanza dei corsi universitari, o la visione di lezioni registrate.
prevedere spazi idonei dedicati esclusivamente allo studio ma anche alla frequenza di lezioni e seminari
sostenere con fondi specifici i Poli Universitari per consentire la copertura di borse di studio da destinare a giovani laureati nelle funzioni di tutor
rendere meno rigide, là dove possibile, le separazioni tra detenuti di circuiti diversi
organizzare attività di orientamento all’offerta formative
completare la copertura nazionale dei Poli universitari penitenziari
ipotizzare la presenza in ogni regione di un istituto penitenziario dedicato che raccolga i detenuti studenti universitari offrendo spazi, strumenti
Il grande fardello della salute: il carcere genera malattia
Le infermerie presenti nei reparti di detenzione sono sempre affollate: le richieste di parlare con un medico, di fare esami o indagini sono numerose. La preoccupazione per la propria salute è uno dei temi che più frequentemente affrontiamo nei colloqui. Non sapere cosa succede, non poter intervenire immediatamente e con le modalità che si ritengono più efficaci, dover sempre far riferimento e sottostare, per qualunque problema, ai tempi dell’organizzazione: dover aspettare che il medico ti visiti, che la medicina arrivi, che ci siano le condizioni per il trasferimento in ospedale per effettuare un’indagine o per un intervento, senza sapere quando avverrà e se avverrà, rende il detenuto particolarmente ansioso.
La volontà di curare la propria malattia, per i detenuti stranieri, comporta poi la fatica di farsi riconoscere nei propri bisogni anche a causa della difficoltà nell’esprimersi o nel farsi comprendere, alcune volte di trovare concretamente i farmaci disponibili o la possibilità di una diagnosi più approfondita della propria malattia.
Le parole dei tanti detenuti con cui in questi anni ho parlato, confermano quello che numerose ricerche sugli effetti che la reclusione produce sul corpo incarcerato hanno riscontrato e rafforzano l’idea che la detenzione generi l’insorgenza di patologie riconducibili a processi di
somatizzazione da stress, problemi del sonno (i ritmi del sonno-veglia sono spesso alterati, durante la notte i controlli, che necessariamente la polizia penitenziaria deve effettuare, sono fonte di grave disturbo anche per le modalità con cui, a volte, sono effettuati); a questi vanno aggiunti i disturbi mentali e dell’umore, i disturbi e le alterazioni della sessualità indotti dal regime di privazione.
Nel 2021 il Report dell’Associazione Antigone riportava dati allarmanti: in Italia il 70% dei detenuti fuma, quasi il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da una patologia psichica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio. Dati che portano Antigone ad affermare che “il carcere è un luogo malsano”, abitato da persone che hanno spesso bisogno, anche a causa dei contesti di provenienza, di interventi di cura rilevanti e urgenti, che non trovano risposta adeguata al loro diritto alla cura, per i troppi ostacoli presenti e per la scarsa attenzione e gli scarsi investimenti che la politica dedica al loro superamento.
Non ho dati precisi sulla situazione nel carcere di Lecce ma quello che ho visto, ascoltato, verificato in questi anni conferma quello che scrive Antigone. Ho visto detenuti ingrassare notevolmente fino a diventare obesi, perdere i denti e non poterli sostituire perché questo non è previsto (il dentista presente in carcere può solo curarli e al massimo estrarli, non sostituirli), non riuscire più a dormire, aspettare tempi lunghissimi per visite specialistiche non effettuabili in struttura, attendere un mese per avere un medicinale acquistato personalmente (l’acquisto dei medicinali viene fatto mensilmente per problemi legati all’organizzazione e alla carenza di personale e spesso la farmacia centrale ASL è sprovvista del farmaco richiesto), attendere…, attendere…, attendere, senza una prospettiva certa dei tempi dell’attesa.
La privazione della libertà condiziona la salute del detenuto costretto a vivere in ambienti insalubri e ad accettare le scelte effettuate dall’amministrazione penitenziaria sia in merito alle strutture che ai professionisti da cui dipendono le cure, senza sapere se la soluzione ci sarà e quando arriverà.
Per questo, non solo ma anche a Lecce, si riscontrano situazioni per le quali, paradossalmente, l’entrata in carcere porta le persone ad occuparsi di più, o di nuovo, della propria salute e per questo porre domande di assistenza e di cura.
Da qui le domande di visite mediche, di farmaci e di cure, diventano moltissime e sono anche la spia di un disagio psicologico, caratterizzato da una sorta di sindrome persecutoria, caratterizzata da sospettosità e tendenza a sentirsi svalorizzato, insultato e minacciato, generato dalla permanenza in carcere e indotto dal:
grave senso di insicurezza per sé e per i propri familiari, frutto dell’isolamento prodotto dalla carcerazione;
la passività dovuta all’inattività, all’assenza di stimoli, alla solitudine e al perenne stato di attesa;
dall’essere tormentati dal pensiero dominante dall’incertezza e della paura per l’esito dei propri processi (molti detenuti privi di mezzi economici fanno fatica a trovare un legale);
la convivenza forzata e dalla promiscuità;
la precarietà delle condizioni igieniche;
la sostituzione delle sostanze stupefacenti con farmaci che accompagnano e sostengano, almeno in parte, gli effetti sia fisici e sia psicologici connessi con l’astinenza.
Per questi motivi, il carcere stesso si presenta come il grande malato che genera e produce malattie. I casi di suicidio o di tentato suicidio sono solo il più eclatante segnale dello star male, sia fisico che psicologico.
Anche la vista e l’udito subiscono gravi variazioni. A causa della cattiva illuminazione e della limitazione dello sguardo dovuta alla presenza di griglie alle finestre, spesso il detenuto è condannato ad avere la vista corta; in prigione lo sguardo perde la funzione di sostegno della parola, l’occhio non è più al servizio dell’espressività del discorso e diviene, così, una finestra sulla sua intimità. Anche l’udito, insieme all’interpretazione del mondo mediante i suoni, subisce notevoli modificazioni. L’udito, al contrario, si acuisce e diventa esasperato, fino a mantenere il detenuto sempre in una difficile e problematica condizione di allarme. (Daniel Gonin, Il corpo incarcerato)
Per chiudere questa parte vorrei riportare un brano del diario di Edoardo Albinati, Maggio selvaggio. Un anno di scuola in galera, nel quale l’autore racconta la sua esperienza di insegnante nel carcere di Rebibbia. Dopo averlo letto, ho pensato che non avrei saputo e forse potuto dirlo meglio, ho rivisto, risentito i tanti detenuti che, in questi anni, hanno aperto il loro cuore, raccontato la loro sofferenza, descritto la mortificazione, il senso di degrado fisico e morale in cui sentono di essere sprofondati e da cui non riescono a pensarsi fuori.
Qualche giorno fa in una locanda di Sarajevo bevendo Stock ho spiegato cosa succede al fisico degli uomini che vivono in galera. Per prima cosa gli si abbassa la vista, e questo accade per vari motivi: principalmente perché non c’è più niente da vedere, nulla che meriti di essere guardato, interpretato, ammirato. L’organo si indebolisce anche per la povertà e lo squallore degli oggetti che gli tocca percepire: muri di cemento, corridoi bui o a tratti alternati accecanti, forme che non sono forme ma ostacoli, sbarramenti, zone di cecità programmata. Mancanza totale di novitas et conspicuitas et varietas: a che servono pupille acute se non c’è mai nulla di interessante da vedere? Gli uomini potrebbero camminare anche bendati lungo gli eterni corridoi e nella loro cella, rinchiusi, muoversi usando solo le mani. Lo sguardo perde subito la profondità, dato che il panorama più lontano e aperto si trova al massimo a trenta, cinquanta metri di distanza, e normalmente è un muraglione, oltre il quale non si percepisce altro che l’infinita concavità del cielo, dove l’occhio sprofonda e langue la sua penosa sete di forma. Questo antimondo non ha bisogno a lungo del senso corporale più mondano e comincia gradualmente a eliminarlo. Cunicolo di talpe, il Quinto angolo. Diventa inutile persino farsi gli occhiali e se qualcuno ce li ha è per guardare guardare la televisione, che, a questo punto, rimane l’unico buco da cui sprizzano cose mutevoli, una fontanella di colori e immagini, anche se piatte, meglio di niente o forse peggio, perché confonde maledettamente i piani della realtà e li lascia scivolare (millimetri e chilometri, formiche e dinosauri) su due spanne di vetro. L’attenzione si trasforma in fissazione. Al posto della vista innocente subentra un pensiero sinistro, maniaco, l’occhio si fa ruvido e debole, smorto, oppure schizza da tutte le parti alla ricerca di pericoli e scappatoie che non ci sono. I detenuti hanno spesso gli occhi più umidi del normale, più affondati del normale, due volte più spalancati degli altri uomini. Vogliono sempre tenere la luce accesa, anche in una giornata piena di sole. Tracciando lettere su un foglio o sulle lavagne bianche si mettono a una distanza innaturale dalla superficie. Raramente colgono un insieme. Non si aspettano niente. Si abituano a pensare le cose invece che a vederle e dopo un po’ non le pensano più come realmente sono o non le pensano affatto.
Poi ci sono i guai ai denti, anch’essi al limite incerto tra soma e psiche, come una sottile frontiera simbolica, un delicato filare di avorio che i guai del carcere scompigliano e
decimano. I denti si ammalano, si scalzano, dondolano negli alveoli, cadono, i detenuti implorano il dentista di levarglieli, sia quelli malati sia quelli che potrebbero restare in bocca qualche anno ancora: come si rasano a zero il cranio, così vogliono radersi al suolo la bocca. E non pensarci più. Dente che manca non duole. Un uomo con i suoi denti in bocca è ancora un uomo a tutti gli effetti, valido, giovane, resta attaccato alla vita come quei trapezisti che si reggono nel vuoto mordendo la fune, ma nello spirito autopunitivo che affligge alcuni prigionieri, i quali sembra vogliano cooperare fatalmente alla propria demolizione, è celato il desiderio irresistibile di non essere più uomini. Di non essere salvati comunque. Si comincia da lì, dalle mascelle. A quarant’anni un uomo sdentato somiglia a un vecchio, anzi, è vecchio, la sua bocca sguarnita biascica le consonanti, succhia a fatica la coscia di pollo dopo averla sfilacciata. Le labbra s’introflettono, il mento si appuntisce come nelle caricature di Bosch e Leonardo. Le droghe assunte per decenni hanno la loro parte nello smantellamento di questo tratto del volto. L’alimentazione fa il resto.
Lo sdentato è un intoccabile, praticamente uno spettro, dato che la sua vita se n’è andata coi molari e i canini, i crimini, gli anni scontati, i ricordi, gli incisivi messi in fila indiana. Poi ci sono le malattie della pelle. (Albinati, Edoardo. Maggio selvaggio. Un anno di scuola in galera (Italian Edition) . Rizzoli libri. Edizione del Kindle)
La salute mentale
Un discorso a parte va fatto per i problemi relativi alla salute mentale dei detenuti. La situazione a Lecce è particolarmente complessa, me ne sono reso conto subito.
Il giorno 5 luglio 2019, presso la casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce, ho partecipato alla prima riunione del Tavolo paritetico permanente per la prevenzione del rischio suicidario, istituito presso il carcere sulla base della Circolare DAP del 2 Maggio 2019 su “Interventi urgenti in ordine all’acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico”
Il tavolo era chiamato a riflettere sul tema della salute mentale in carcere in un momento particolarmente difficile per la vita carceraria, per i tassi di sovraffollamento in ascesa, per la presenza di suicidi di detenuti e di atti di aggressività e violenza sia nei confronti di altri detenuti che degli operatori di polizia penitenziaria.
Accanto alla Direttrice del carcere, dott.ssa Rita Russo, e al Capo Area trattamentale, dott. Fabio Zacheo, hanno partecipato all’incontro la Presidente del Tribunale di Sorveglianza, dott.ssa Silvia Dominioni; la Magistrata di sorveglianza, dott.ssa Ines Casciaro; la dott. Cinzia Vergine, Coordinatrice Ufficio Gip; il Dirigente del DSM, dott. Serafino De Giorgi; il dott. Giuseppe Gennaro e la dott.ssa Cristina Mendrano, responsabili dell’ambulatorio psichiatrico dell’Area Sanitaria Penitenziaria; i dott. Antonio Santoro e Giampaolo Mastropasqua, medici della ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale); la dott.ssa Paola Ruggeri, Direttrice dell’UDEPE di Lecce; la dott.ssa Cinzia Conte, referente per l’area educativa.
L’attenzione si è concentrata sulle condizioni generali di vita delle persone in detenzione, in particolare sul fatto che la carcerazione per sua natura, comprimendo profondamente i diritti individuali fondamentali e in particolare il diritto alla salute, compromette fortemente la salute mentale dei detenuti, fino a divenire essa stessa generatrice di forme più o meno gravi di disagio psichico. Tra le criticità è emerso come la chiusura degli OPG sia avvenuta in assenza di un progetto globale di trattamento dei pazienti autori di reato, senza essere stata accompagnata da
un’adeguata revisione delle normative, e come tutto ciò finisca per condizionare la possibilità di realizzare adeguati percorsi di cura.
Dal tavolo sono emerse le molteplici problematiche che riguardano la salute mentale dei detenuti, fortemente compromessa dalle condizioni di vita detentiva, e le grandi difficoltà che il sistema carcerario e sanitario incontrano nell’affrontarle. Se pur da posizioni differenti, tutti i partecipanti al tavolo hanno espresso il grande disagio e le notevoli difficoltà per i tanti ostacoli che ne impediscono il corretto funzionamento.
Nella Casa Circondariale erano presenti in quel momento una Sezione intramuraria psichiatrica, unica in Puglia, nata dall’accordo tra il DSM dell’Asl di Lecce e l’Amministrazione penitenziaria, dotata di 20 posti letto destinati a coloro che prima della riforma erano destinati agli OPG, e di un Servizio di psichiatria penitenziaria che svolge la sua attività all’interno delle sezioni detentive.
Paradossalmente il Carcere di Lecce, proprio per il suo essere un carcere da tempo attrezzato e attento ai problemi della psichiatria penitenziaria, ha finito per scontare le carenze di un sistema più ampio che finisce per scaricare le sue inadempienze su chi è già impegnato nell’affrontare i tanti problemi legati alla salute mentale in carcere.
Sin da allora è emerso come la presenza di una sezione psichiatrica intramuraria ha prodotto un aumento dei detenuti con gravi patologie, che continuano ad essere inviati a Lecce e che, non potendo essere accolti nell’ATSM spesso al completo, devono essere tenuti nelle sezioni ordinarie con tutti i problemi, a volte gravissimi, che ne derivano.
Tutto questo a fronte di una carenza di risorse, in particolare di tipo medico psichiatrico (i bandi pubblici per la selezione di psichiatri vanno spesso deserti), che non consente di gestire la complessità della situazione e i tanti eventi critici continuamente presenti. Da tempo, ha affermato il dott. De Giorgi, si chiede alla sanità pubblica, in particolare all’area di psichiatria penitenziaria, di garantire di più pur con sempre meno risorse, facendo ricadere sul sistema psichiatrico penitenziario problemi e difficoltà di altra natura.
In realtà, come ha affermato il Comitato nazionale per la bioetica della presidenza del Consiglio nella sua relazione su Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere (Marzo 2019), il carcere e la salute mentale sono incompatibili e la presa in carico delle persone ristrette con disturbo psichiatrico dovrebbe avvenire al di fuori del carcere, nel territorio, limitando la cura psichiatrica in carcere alle persone con disturbi minori o al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico. Si veda a questo proposto la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter.” (Sentenza n. 99, 19/4/2019) Nel tempo la situazione è andata peggiorando fino a deteriorarsi. Al momento a causa di una drastica riduzione del numero di medici psichiatri, la capienza è stata ridotta a 5- 7 persone massimo: di fatto la struttura ne può accogliere solo due.
Diventa perciò particolarmente rilevante continuare ad evidenziare da una parte la necessità di migliorare la qualità di vita delle persone detenute anche attraverso una più efficace assistenza psichiatrica, trattando la malattia mentale alla stessa stregua di quella fisica, e dall’altra lavorare nella direzione di un potenziamento di progetti e percorsi terapeutici alternativi al carcer, che
garantiscono in modo più efficace il diritto fondamentale alla salute, anche mentale, dei detenuti e contribuiscono in modo determinante alla prevenzione del rischio di recidiva.
Esperienze di lavoro con i detenuti condannati per condotte violente verso la famiglia o per violenza di genere.
Nell’ambito delle attività messe in campo dall’art. 13 bis dell’Ordinamento Penitenziario che prevede il trattamento dei detenuti condannati per condotte violente verso la famiglia o violenza di genere, nel carcere di Lecce è stato avviato un percorso rivolto a questo tipo di detenuti, inizialmente nei confronti di un unico gruppo, come progetto pilota, poi successivamente rivolto a due gruppi.
I partecipanti sono detenuti che, all’interno di un elenco di persone sulla base delle caratteristiche previste dalla legge, tipo di reato commesso e fine pena residuo, hanno deciso di partecipare all’esperienza.
Le attività previste, realizzate a cadenza di due in settimana, sono articolate in fasi: una fase di valutazione della situazione di partenza attraverso la misurazione di alcune variabili, per poter fare una verifica al termine del lavoro; una fase di lavoro di gruppo, preceduta da colloqui individuali con gli esperti di riferimento.
I gruppi, guidati da esperti hanno accompagnato i detenuti nel percorso di consapevolezza, facendo attenzione a far sentire i partecipanti accolti e liberi di parlare, tenendo conto che in molti casi si tratta della prima volta in cui si trovano a parlare del reato e degli eventi che li hanno portati in carcere. Il percorso di riflessione è stato preparato da un lavoro sulla comunicazione e sulle capacità di gestirla senza essere aggressivi. Si è poi lavorato sulle storie di vita, con l’ausilio di altri esperti che si occupavano di identificare quelli che erano gli eventi significativi nel percorso di vita di ciascuno dei partecipanti, a prescindere dal reato.
Un gruppo ha lavorato sull’empatia, che la letteratura scientifica dice essere tipicamente un costrutto molto carente in questi soggetti. Chi mette in atto comportamenti particolarmente violenti all’interno di una relazione affettiva è in genere particolarmente concentrato su sé stesso, su quei pensieri e sulle sue reazioni piuttosto che su quelle degli altri, risultando carente nella capacità di entrare nei panni dell’altro.
A volte la partecipazione nasce con l’obiettivo strumentale di poter chiedere al Magistrato di sorveglianza di valutare l’esperienza ai fine della concessione di un qualche beneficio in questi casi il primo risultato che ci aspetta è proprio quello di farla diventare un’occasione per cominciare a mettere un piccolo seme di riflessione e di consapevolezza.
La psicologa che coordina la realizzazione di queste attività ci dice che alla fine del percorso tutti sanno qualcosa in più, in termini di ascolto sia di sé stessi e degli altri: aumenta la loro la capacità di ascolto e di autoriflessività, ma anche la capacità di comprendere come l’altro possa sentirsi, quale possa essere il peso dei nostri gesti e delle nostre parole, ma anche una forma di consapevolezza rispetto ai propri limiti, agli aspetti della propria personalità, delle esperienze di vita che hanno influito negativamente nella vita.
I soggetti maltrattanti mostrano con più facilità di riuscire a mettersi in discussione. Per gli autori di reati, quali l’abuso soprattutto intra familiare, la situazione è un po’ più complessa, richiede più tempo. Non è facile perché la negazione è parte importante e va rispettata. Si tratta spesso di persone che hanno raggiunto un equilibrio interno proprio attraverso la negazione e la difficoltà sta proprio nel rompere il muro.
Le attività culturali e la presenza del volontariato
Quando il mondo “fuori” incontra il mondo “dentro”
Non è facile definire cosa e quali siano le attività che possiamo definire culturali. Certamente in carcere lo sono tutte quelle che provano ad aprire un varco nel muro di solitudine umana, di silenzio interiore, di chiasso insensato e superficiale che riempie inutilmente le giornate, di rabbia violenta e autodistruttiva, di povertà, per fare entrare la bellezza. La bellezza dell’arte, della poesia, della scrittura, del teatro, della vita che scorre fuori dal carcere e che molti detenuti non conoscono da lungo tempo.
In questi anni ho potuto toccare con mano come tutto questo sia di vitale importanza per le persone detenute e come, ogniqualvolta noi liberi realizziamo in carcere un’esperienza di incontro, di conoscenza, di riflessione su temi che ci coinvolgono reciprocamente, ogni volta siamo noi ad ampliare le nostre conoscenze, a migliorare la nostra capacità di riflettere, ad allargare il nostro sguardo sul mondo, più di quanto non lo facciano i detenuti cui noi rivolgiamo i nostri sforzi.
Questo tipo di attività si realizza in tutti gli istituti penitenziari quasi esclusivamente grazie alla disponibilità delle direzioni e della polizia penitenziaria, che logisticamente le rende possibili, e grazie al lavoro di tante persone, associazioni, istituzioni che organizzano e realizzano esperienze in modo quasi sempre gratuito e volontario.
In questi cinque anni ho visto, ascoltato, parlato con tante persone che hanno realizzato esperienze culturali nel carcere di Lecce: alcune brevi, alcune di più lungo e ampio respiro; alcune hanno incontrato l’interesse dei detenuti, altre meno. Tutte comunque accolte con interesse, come un’occasione, purtroppo ancora per un numero limitato di detenuti, di confrontarsi con il mondo fuori dalle mura, un momento di scambio, di conoscenza reciproca. Mi sarebbe difficile fare un vero e proprio censimento. Vorrei però citare alcune persone: l’avv. Lorenzo Ria, responsabile della distribuzione dei beni di prima necessità ai detenuti in difficoltà economiche; Padre Angelo il Cappellano che cura lo spirito e sostiene il corpo di tanti detenuti che accompagna anche fuori dal carcere; le volontarie che si occupano con dedizione a amore filiale dei detenuti studenti, le prof. Melina Errichi e Marisa Del Giudice, le giovani volontarie Giulia Valente e Raffaella Papa, il cui lavoro silenzioso e discreto ma efficace e proficuo, ha consentito e continua a consentire a tanti detenuti e detenute di vivere in carcere sentendosi meno soli, accompagnati da affetto, sostegno e aiuto. A volte sembrano piccole cose, gesti semplici che generano azioni e interazioni forti e potenti.
Insieme a loro vorrei ringraziare tutte le persone e le tante associazioni che in questi anni hanno speso parte del loro tempo per organizzare attività di solidarietà e sostegno attraverso raccolta fondi per l’acquisto di beni di prima necessità, di strumenti e attrezzi per il tempo libero, libri e giornali, da donare ai detenuti: non riuscirei mai a ricordarli tutti e tutte in questi pochi righi. Vorrei però fermare la mia attenzione su alcune esperienze di più lungo e ampio respiro che ho potuto seguire e conoscere meglio. Mi scuso con tutte le altre.
Laboratorio Stabile Mondo Scritto del Collettivo Rosa dei Venti ideato e condotto da Luisa Ruggio
Dal 2017 la piccola biblioteca della sezione R del carcere è diventata uno spazio libero di lettura, scrittura, allegria, per un gruppo di detenuti che hanno iniziato insieme a Luisa Ruggio un percorso di riflessione, di conoscenza sé, di scambio di esperienze e di ricordi, che, attraverso un processo di scrittura teatralizzata, hanno prodotto la realizzazione di quattro Studi, portati all’attenzione di un pubblico sempre molto interessato nel teatro della casa circondariale.
In questa biblioteca è nato il Laboratorio Stabile Mondo Scritto del Collettivo Rosa dei Venti, fondato nel 2017 da 16 lettori detenuti insieme alla scrittrice e giornalista pugliese Luisa Ruggio, che lo ha guidato fino al 2020, anno in cui l’esperienza si è chiusa.
In questo spazio, presidio di bellezza, vissuto e nutrito da attività laboratoriali (sino all’emergenza pandemica) quattro giorni a settimana, il Collettivo ha dato vita al Laboratorio Stabile di Lettura e Scrittura Creativa Mondo Scritto. In collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale e con la ricerca fotografica di Veronica Garra, il laboratorio si è svolto nella biblioteca, nella sala cinema della sezione maschile e nel teatro dell’Istituto ed è stato inteso come un’Accademia fatta di libri viventi e storie da salvare e raccontare.
Lettura, Scrittura, Cineforum, Training del narratore sono stati alcuni dei viaggi intrapresi dal Collettivo la Rosa dei Venti, che ha esordito nel teatro del carcere presentando agli studenti di alcuni istituti scolastici del Salento gli Studi “Corpo Scritto – reading teatralizzato sul tema del ritratto dell’Altro”; “Mittente/Destinatario”, una riflessione sulla lettera d’amore e sulla parola scritta, in seguito alla quale è stata avviata la convenzione tra il carcere di Lecce e il Polo Biblio- museale del Salento per il reinserimento lavorativo dei detenuti nel ruolo di bibliotecari della nuova sezione della storica Biblioteca Bernardini; “Vide Cor Meum”, “123: La Bella e la Bestia” e la Processione teatralizzata “Madonne e Maddalene” dedicata alle madri delle persone private della libertà.
Nel 2018 RaiTre ha dedicato al progetto un docufilm, trasmesso nell’ambito del programma “Prima dell’alba” a cura di Salvo Sottile.
Il libro dedicato all’esperienza, conclusasi con la sospensione delle attività per l’emergenza covid, è in stesura e sarà pubblicato nel 2024 con le sceneggiature degli Studi, i diari di bordo e gli interventi degli artisti ospiti del Festival Invisibile, prodotto in forma di campus intramurario durante le estati del progetto.
Poche parole in più per l’esperienza di Madonne e Maddalene, di cui porto ancora con me l’emozione straziante. Un corridoio di fiori freschi da attraversare a piedi nudi muovendo i passi della Passione e dei Perdoni, cuori sacri, simboli densi di poesia e spiritualità, che in carcere diventano evidenza, silenzi monastici e gesti lenti: i detenuti-autori del Collettivo Rosa dei Venti tornano scalzi per raccontare la Passione dei poveri cristi, quelli che storicamente hanno offerto i propri passi nelle processioni della Settimana Santa. Un evento unico, senza repliche, che scandisce il tempo della rinascita attraverso le parole che riscattano ogni invisibile cuore umano.
Laboratorio di teatro attivato dalla Accademia Mediterranea dell’Attore (AMA)
Papillon teatro è il progetto di formazione e promozione teatrale che AMA realizza da quattro anni nella Casa Circondariale di Lecce.
Obiettivi del progetto sono:
l’arricchimento dei percorsi educativi dei detenuti attraverso processi di apprendimento orientati soprattutto allo sviluppo di nuove competenze comunicative e creative, individuali e di gruppo;
il miglioramento della sala teatro, attrezzandola con servizi tecnici di base (palco, fondale quinte, videoproiettore, ring, tappeto di danza e connessione wifi) per rispondere ai bisogni di tipo artistico ed educativo dei detenuti e per effettuare una programmazione di eventi. Questo per rafforzare le connessioni tra detenuti e pubblico esterno attraverso la creazione di un luogo identitario e culturale, nel quale poter programmare attività di laboratorio, spettacolo e ricerca. Le attività sono il corso biennale di formazione per allievi attori con due incontri settimanali e la rassegna di spettacoli DENTRO IL TEATRO aperta anche al pubblico esterno (dal sito di AMA).
Quest’anno il laboratorio ha preso due strade: la prima ha coinvolto il gruppo di attori giunto al suo secondo anno di pratiche teatrali; la seconda è riservata agli allievi-esordienti alla loro prima esperienza.
A giugno, gli attori-detenuti del secondo anno andranno in scena con lo spettacolo scritto da loro, “Madre, ammirami”, risultato di un percorso di riflessione sul tema dell’essere genitore. Anche quest’anno il laboratorio ha aperto le porte alla cittadinanza, con la formula delle lezioni aperte, che hanno offerto al pubblico il senso del lavoro che si andava facendo, promuovendo momenti di interazione e di conoscenza.
Il lavoro dei partecipanti al primo anno del progetto parte dalla lettura di Novecento di Baricco. Come lo scorso anno, alla lezione aperta ha partecipato un piccolo gruppo di studenti tirocinanti. Riporto alcuni brani delle riflessioni che sono nate dalla partecipazione a queste esperienze.
“21 Marzo 2023, primo giorno di primavera, la giornata è piovosa, grigia, non proprio caratteristica della stagione che sta iniziando ma sicuramente adatta al luogo in cui io e la mia collega ci stiamo dirigendo: la Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce.
Ancora nessuna delle due sa quanto ricca di gioia, proprio come la primavera, sarà l’esperienza che stiamo per vivere … ci siamo accomodate in una saletta attrezzata con banchi e sedie, ordinatamente posti un registro scolastico e una cassa. Veniamo accolte da grandi sorrisi e occhi incuriositi… c’è tanta gente, siamo venuti tutti per assistere ad una lezione aperta del Laboratorio di Attività Teatrale, I ragazzi che si esibiranno sono una dozzina, c’è un po’ di emozione nell’aria da parte loro ma anche da parte nostra. “
“Durante il laboratorio di teatro il pubblico è salpato verso un viaggio complesso, ha avuto la possibilità di conoscere chi su quella nave ci era ormai salito da tempo. Il pubblico ha sbirciato il contenuto delle loro valigie, ma solo perché avevano deciso di lasciarle aperte.
“La loro interpretazione è toccante, divertente, ricca di passione. Si balla si ride si suona e si piange. Sì, perché alla fine della loro lezione decidono di aprirsi a noi e di farci leggere i loro pensieri, teoricamente indirizzati al mare, quello che, per adesso, non potranno vedere, dandoci anche la possibilità di rispondere, leggendo e ascoltando avidamente ogni nostro pensiero a riguardo. Ed è in quel momento di intimità che ho vissuto un’esperienza unica e formativa che mi ha aiutato a sentirmi più vicina ad una realtà molto distante. Un momento difficile da descrivere soprattutto per me, nuova a queste emozioni.”
“Guardando ognuno di loro mettere in scena il proprio “Novecento”, emerge l’importanza di svolgere laboratori culturali di questa dimensione, che, attraverso un percorso ben strutturato e un’organizzazione solida, promuovono lo sviluppo personale e umano di uomini che trovano nel teatro un faro che punta verso una direzione più consapevole e luminosa.”