
(AGENPARL) – mar 28 febbraio 2023 Gentili colleghe e colleghi,
questa mattina si è svolta la Cerimonia di inaugurazione del 54° Anno Accademico dell’Università IULM. Nell’occasione è stata conferita la Laurea Magistrale Honoris Causa in Traduzione e interpretariato di conferenza al professor Claudio Magris.
Qui di seguito il comunicato stampa. In allegato la Lectio, Scappatelle in latino,del professor Magris, neo laureato eccellente della IULM.
Cordiali saluti,
Elisa Pasino
Conferita la Laurea Magistrale honoris causa in Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza al professor Claudio Magris
APERTO IL 54° ANNO ACCADEMICO DELL’UNIVERSITÀ IULM
Il Rettore Canova: “Dobbiamo dire con forza che l’Università non è la malattia, ma la terapia per tante forme di disagio giovanile. Per essere credibile, l’Università deve problematizzare se stessa ed essere consapevole che essa inocula nella società una cultura che non è fatta per le forme provvisorie o effimere dell’hic et nunc”
Milano, 28 febbraio 2023 – È stato inaugurato ufficialmente oggi il 54° Anno Accademico dell’Università IULM. La cerimonia è stata aperta con il saluto del Sindaco di Milano Beppe Sala – che ha ricordato che la IULM è l’Ateneo a Milano e in Lombardia con la maggior presenza di donne nel personale docente e non docente, a cominciare dal Direttore Generale – cui sono seguiti l’intervento del Presidente del Consiglio di Amministrazione, professor Giovanni Puglisi, e la relazione del Rettore, professor Gianni Canova.
La cerimonia è stata l’occasione per conferire la Laurea Magistrale honoris causa in Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza al professor Claudio Magris, critico e storico della letteratura e della cultura, germanista, romanziere, autore di teatro, editorialista, traduttore, educatore, promotore culturale, un vero intellettuale “umanista” che sconfina con originalità e maestria in molteplici generi di scrittura.
Nel bilancio che a ogni inaugurazione dell’anno accademico viene tracciato dal Rettore di ciascun Ateneo, il professor Canova ha scelto di non citare i “soliti” numeri che si elencano alla platea, bensì ha costruito un discorso su come l’Università IULM si interroga riguardo gli effetti prodotti dall’ecosistema comunicativo generato dalla rivoluzione digitale. “Un ecosistema che – ha spiegato il Rettore – assieme a tanti vantaggi indiscutibili, ha prodotto anche altrettanti svantaggi. Con la differenza che i vantaggi sono immediatamente visibili a chiunque, mentre gli svantaggi o i disagi sono più difficili da individuare, sono sfuggenti, a volte indecifrabili e si manifestano solo sul lungo periodo”.
“Si è parlato molto, in queste ultime settimane – ha proseguito il professor Canova – del malessere che serpeggia tra le giovani generazioni. Lo si è attribuito alle Università troppo competitive, alle famiglie poco attente o distratte, a una società generatrice di ansie prestazionali o performative”.
“Io credo – ha continuato il Rettore della IULM – che in questo scenario epocale l’Università abbia una missione in più, oltre a quelle storicamente consolidate della didattica e della ricerca. È la missione che consiste nel fare di se stessa il dispositivo capace di aiutare le ragazze e i ragazzi che la frequentano, ma anche i docenti che vi insegnano, e le persone che ci lavorano, a compiere quello scatto di fantasia che è necessario per uscire dalla logica binaria, dall’aut aut del bianco e del nero, per rompere l’atrofia dell’immaginazione e ricominciare a pensare plurale, a scoprire nuove lettere, nuovi alfabeti, e ripopolare il mondo della cultura con la fascinazione dei colori. Dobbiamo avere la forza di liberare l’Università dalla dittatura della quantità per ritrovare la logica della qualità, dell’innovazione, dell’esplorazione”.
Il Rettore Canova ha concluso: “Il sistema universitario deve ripristinare la fiducia che si è incrinata; riparare le crepe che si sono aperte. Dobbiamo dire con forza che l’Università non è la malattia, ma la terapia per tante forme di disagio giovanile. Ma per farlo, per essere credibile, l’Università deve problematizzare se stessa. Come ha scritto uno dei più illustri tra i nostri laureati honoris causa, Edgar Morin, l’Università deve essere consapevole che essa inocula nella società una cultura che non è fatta per le forme provvisorie o effimere dell’hic et nunc e che tuttavia è fatta per aiutare i cittadini a vivere il loro destino hic et nunc. Pur mantenendo fede alla sua missione trans-secolare, deve saper elaborare una cultura per la modernità e la contemporaneità. Sono queste che chiedono all’Università di problematizzare se stessa e di problematizzare il pensiero e i saperi che si formano negli Atenei”.
Nel suo saluto, anche il Presidente del CdA, il professor Puglisi, ha affrontato le complessità del mondo universitario e di chi lo vive: “[][La battaglia della vita la vinceremo solo se resteremo tutti insieme, giovani e meno giovani, allievi e Maestri, ciascuno con il proprio ruolo. Sarebbe illusorio e forse anche arrogante pensare di vincerla da soli o peggio gli uni contro gli altri. La tradizione non è l’urna cineraria del passato, ma il fuoco che alimenta il presente, per costruire il futuro”.]
Ha poi preso la parola il Rappresentante delle studentesse e degli studenti in Senato Accademico, Federico Fanales, che non ha celato la sua emozione nel parlare per la prima volta di fronte a una platea così vasta e variegata e ha esortato i compagni: “quando il peso della vita diventa insostenibile, cercate il conforto di un amico, la carezza di un genitore e non tenete questo malessere dentro di voi. Parlatene, sfogatevi, le persone che vi vogliono bene saranno sempre pronte a sopportare con voi il peso dei problemi”.
L’Università IULM negli ultimi cinque anni ha segnato un +34,5% nei corsi di laurea triennali dall’anno accademico 2017/18 a quello in corso e un +57,5% in quelli magistrali. Si è passati dai 4.387 iscritti alle triennali nel 2017/18 (4.734 nel 2018/19, 5.111 nel 2019/20, 5.835 nel 2020/21, 5.644 nel 2021/22) ai 5.902 dell’anno accademico 2022/23 e dagli 833 iscritte e iscritti alle magistrali nel 2017/18 (974, 1.143, 1.230, 1.313) ai 1.312 di quest’anno. Per un totale di iscritti che oggi è di 7.214 studentesse e studenti (da 5.220 nel 2017/18).
A recitare la Laudatio per il professor Magris è stato il Prorettore alla Transdisciplinarità, professor Mauro Ceruti, che ha ricordato ciò che “ha sempre preoccupato Claudio Magris: non tanto il riuscire a mettere a punto un capolavoro, e tanti ne ha messi a punto, quanto l’essere abbandonato, nel maneggiare il potere delle parole, dal soffio dello spirito, da una ragione sobria e umanistica, intransigente e vigile, di fronte alle irruzioni o alle manifestazioni latenti del male nella vita e nella storia. Da qui, la sua riflessione costante su ciò che più minaccia la vita e la storia – la guerra – e su ciò che può proteggere le generazioni di oggi e a venire da quella catastrofe: la letteratura e l’Europa”.
Nella sua Lectio, dal titolo Scappatelle in latino, un viaggio nella memoria in cui ha rievocato persone, atmosfere ed eventi da cui ha tratto ispirazione, Claudio Magris ha dichiarato di essere “particolarmente onorato di ricevere questa laurea dalla IULM: università viva e vera nel senso più autentico e immediato del termine” e ha ricordato Giovanni Vittorio Amoretti (1/5/1892 – 15/11/1988) uno dei primi e dei più importanti germanisti del nostro Paese che ha insegnato Lingua e Letteratura Tedesca all’Università IULM.
Testo Allegato:
Scappatelle in latinoProfessor Claudio MagrisUniversità IULM, 28 febbraio 2023A Trieste l’interrelazione tra scienza e letteratura quali concrete passioni dell’umanità è stata una realtà ricca e feconda, in cui si incontravano vocazione umanistica, filosofico-letteraria, artistica. Ad esempio Paolo Budinich, matematico e fisico di prim’ordine, si è occupato con passione delle cosiddette “due culture” e si è dedicato non solo alla ricerca scientifica personale, ma pure alla creazione di originali istituzioni, gruppi di ricerca e di studio sui rapporti tra la conoscenza scientifica e quella umanistica, creando, insieme ad altri fisici quali Amati e Fantoni, l’Immaginario Scientifico e il Laboratorio Interdisciplinare, sacrificando a questo lavoro inventivo ma anche pesantemente burocratico pure tempo che avrebbe potuto dedicare alla propria ricerca personale, così ricca di risultati. Grande marinaio, con il quale più volte, nella sua barca guidata dalla sua esperienza del mare ho navigato, da goffo mozzo, con lui e altri familiari, amiche e amici lungo l’Adriatico e le sue isole, da Cherso e Lussino a Ragusa. Paolo era una delle poche persone, specie fra gli studiosi, che amasse chiamare vicino a sé, in un comune lavoro, scienziati che sapeva più grandi di lui ad esempio premi Nobel come Salam ma non per questo temeva, come spesso accade, che potessero fargli ombra. Il suo rigore scientifico gli aveva insegnato ad aprirsi alle irregolarità della vita, senza subirla e senza esorcizzarla o imbrigliarla. Nel Laboratorio, la cui sezione umanistica ho diretto per alcuni anni, c’erano, in un lavoro comune, matematici, fisici e filosofi, scrittori quali Daniele Del Giudice o Giuseppe O. Longo. Un’altra dimensione in cui scienza e letteratura si incontravano, distinguendosi e arricchendosi a vicenda, era la psicologia, in particolare la psicologia della percezione, alla grande scuola di Kanizsa continuata con particolare creatività e originalità da Paolo Bozzi e dalla sua Margherita Breitenberg, altra creativa scienziata. Paolo Bozzi, che era pure un eccellente scrittore, mi ha insegnato a vedere le cose; mi ha insegnato la Fisica ingenua come dice il titolo di un suo mirabile libro. Un anno accademico, a Trieste, nelle sue lezioni ha ripetuto gli esperimenti di Goethe con i colori, nella sua polemica con Newton che lo ha portato a scrivere la Teoria dei colori, Zur Farbenlehre, geniale libro sbagliato nelle tesi esplicite ma grandissimo nel cogliere il senso della percezione di un colore e di ciò che significa per noi in quel momento. Newton certo ha ragione: i colori sono lunghezze e frequenze d’onda che arrivano alla nostra corteccia cerebrale, che le traduce nei colori che vediamo. Ma, come obietta Goethe, noi non vediamo numeri che indicano frequenze d’onda; vediamo rossi papaveri, tramonti viola, e questa è un’esperienza reale. Una volta, nell’aula della Facoltà di Lettere dell’Università di Trieste, Bozzi ha ripetuto con i miei studenti di letteratura tedesca gli esperimenti goethiani, anche dando fuoco, come Goethe, ad alcune stoffe, tinte che alla luce o nell’ombra diventano altre, stoffe incendiate che mutano colore, come in una poesia la stessa parola, in un metro o in un ritmo musicale diverso, diventa altra. Il libro di Bozzi che racconta questa “altra” esperienza letteraria si intitola significativamente Fisica ingenua, una lettura scientifica, oggettiva e insieme fantastica. Anche queste discussioni le vivevamo spesso insieme, in un’esperienza di vita; viaggi tra i boschi del Monte Nevoso, nei Balcani o nella Valle dei Sette Laghi, in un intreccio di ricerca precisa, buffi incidenti e risate, soste a bere vini slovacchi, perdersi e tornare indietro. Ma da questo zigzagare sono nati ricerche e libri di imprevedibile scienza. Senza questi amici non avrei forse scritto Danubio e non soltanto perché una buona parte del viaggio l’abbiamo fatta insieme, in una serie di programmi rigorosi e magiche casualità che diventano coincidenze fatali e uniscono per sempre. Eravamo ad esempio alle porte della Cecoslovacchia allora quel Paese oltre la Cortina di ferro si chiamava così il fiume scorreva riverberando la luce dell’acqua e dei prati. “E se andassimo avanti, bighellonando, sino alle foci del Danubio nel Mar Nero?” chiese Marisa. Così cominciarono quegli anni di partenze, ritorni, in momenti storicamente epocali in un Paese o nell’altro. Ma il mistero è forse più nell’origine che nella sua fine. Dove nasce il Danubio? Intorno a Donaueschingen nella Foresta Nera si incontrano due fiumiciattoli, la Breg e la Brigach, da cui, secondo gli uffici pubblici, le guide turistiche e i detti popolari, nasce il Danubio. Ma come nascono i due piccoli corsi d’acqua che si uniscono? Paolo Bozzi ha scoperto che nascono da una grondaia che pende e versa un’acquerugiola nei due fiumiciattoli, i quali confluiscono in uno solo, che continua il suo corso sempre più grande il Danubio. La grondaia riceve l’acqua da un rubinetto che perde; dunque se si chiudesse quel rubinetto Vienna, Bratislava e Budapest resterebbero in secca, senza il Danubio. Anche i cibi e i vini, molto diversi, incontrati nel lungo viaggio davano sapore alla vita. Avevamo qualche difficoltà quando cercavamo, in qualche casa o fattoria isolata nella puszta, della carne di maiale e, non parlando l’ungherese, non sapevamo come chiederla e cercavamo, senza successo, di imitare il suo grugnito, per far capire ciò che volevamo, finché Margherita von Breitenberg, figlia del grande scienziato Valentino studioso dei veicoli pensanti, disse a Marisa, che indubbiamente era molto dotata per le lingue, “dillo tu, lo fai meglio”. Credo che, senza proporselo, Mauro Ceruti e Francesco Bellusci, in generale nella loro ricerca ma soprattutto in quel libro globale che è Abitare la complessità, siano animati da uno spirito non dissimile da quello che coglievo nei frequenti racconti di Sergio Nordio sulle sue passeggiate, chiacchiere e ricerche, soprattutto con Mauro Ceruti. La complessità, sottolineano i due autori, incute timore, perché fa apparire e sentire la vita come inafferrabile, caotica, mutevole e dunque pericolosa. Una serie di cose, eventi, problemi; contraddizioni confuse, un terreno complicato e scivoloso, in cui si fa presto a cadere, a essere sopraffatti dall’incertezza e facili prede di pericoli, anche di quelli inventati dai nostri timori. È indubbio che il mondo, in forme diverse a seconda delle condizioni sociali, economiche e culturali dei vari Paesi, appaia sempre più complicato e dunque angoscioso, a tutti i livelli; già dover cambiare il proprio telefonino quando il modello cui eravamo abituati non viene più fabbricato mette in difficoltà e in ansia persone arretrate come me. Si ha sempre più la sensazione che, quasi per smentire ogni idea unitaria del Progresso, di un sapere in progresso, l’angoscia di vivere cresca come certi giganti o mostri del mito antico. Che questo senso di vertigine possa produrre, come scriveva Hannah Arendt, un rifiuto della casualità e dell’incertezza da parte delle masse, spinte così verso ideologie totalitarie, è innegabile. Costruire un ordine impeccabile, scrive Edgar Morin, porta verso un ordine implacabile, verso “umane sorti e progressive” assai poco progressive. Una complessità vertiginosa conduce alle stesse conseguenze di un totalitarismo perfettamente organizzato, porta a una fine dell’individuale. Il nazismo non è nato dall’ordine e da una società stabilmente organizzata come quella descritta e narrata negli stupendi romanzi ottocenteschi di Fontane, ma dal caos, dalla svalutazione, dal “tutto è possibile” nella Repubblica di Weimar, da milioni di marchi che diventano centesimi. Non si può contrapporre, né in bene né in male, ciò che è complesso a ciò che non lo è, perché non c’è nulla che non lo sia, in varie gradazioni e modalità. In Svegliamoci Edgar Morin rivendica la necessità e anche la possibilità di creare, in un continuo crescendo pur contrastato da regressioni barbariche e da forme sempre nuove di disumanizzazione, una civiltà che si vorrebbe “più umana”. Anche il nostro Io tradizionale appare inadeguato, c’è forse troppa fretta di trasformarlo sino ad eliminarlo. Ogni realtà è complessità. Si abita sempre, sia che ce se ne renda conto o meno, in una complessità, ma perché non v’è realtà anche quella più semplice che non lo sia. Pure chi, per ragioni anagrafiche o culturali, si sente estraneo e talora minacciato dall’attuale configurazione del mondo in tutti i settori e lo combatte abita la complessità, quella generale e quella più immediata che lo avvolge da vicino. Tutti abitano la complessità; la differenza radicale è fra chi se ne rende conto e chi lo ignora, chi lo esalta e chi lo rifiuta, talora irrazionalmente in entrambi i casi. Sono particolarmente onorato di ricevere questa laurea dalla IULM, università viva e vera nel senso più autentico e immediato del termine. Mi sento legato ad alcuni dei suoi docenti e studenti, ma soprattutto al suo ruolo negli studi di Lingua e Letteratura Tedesca, a quell’originale germanista che era e rimane Giovanni Vittorio Amoretti, uno dei fondatori della disciplina. Un uomo e uno studioso di inesauribile energia, sempre a suo agio nella vita. Era piemontese; per lungo tempo ha abitato a Cavoretto, all’inizio della Collina torinese, come un altro Maestro di germanistica di rara grandezza, Leonello Vincenti, con il quale mi sono laureato. Tra le tante cose, Amoretti ha tradotto il Faust e scritto una Storia della letteratura tedesca e una Storia della cultura tedesca, che s’intrecciano ma non si confondono. Era un temperamento di eccezionale vitalità, viveva a fondo con inattaccabile buon umore. Durante il terremoto del Friuli, molti anni fa, mi telefonò una mattina presto per dirmi, con tono allegro, che aveva passato la notte in una semi distrutta stazione di autobus dove funzionava ancora una macchina per il caffè; tutto questo, diceva, gli ricordava non so più quale quota alpina nella Prima guerra mondiale, dove aveva combattuto senza timore. Di famiglia modesta, aveva studiato da giovane dai Padri Scolopi e abitato nel loro piccolo collegio, da dove la sera gli studenti non potevano uscire. Fedele alle regole della grammatica e alla Patria, Amoretti, su altre cose, era pure un po’ scavezzacollo, ma sempre con stile. Una sera, evidentemente tornando furtivo da un’illecita uscita, fu sentito dal Padre Guardiano mentre cercava di arrampicarsi, grazie a un lenzuolo usato come lazo, sino al balcone che dava anche sulla sua camera. Accoccolato per non essere visto, sentì il Padre Guardiano che gli intimava, in latino nel collegio gli allievi dovevano parlare in latino di uscire allo scoperto. Amorette ubi es? Alla fine, scopertolo, il Padre Guardiano gli chiese, sempre in latino, come avesse fatto a rientrare. Lui naturalmente raccontò tutto, ma si impappinò perché non sapeva come si dicesse “lenzuolo” in latino. Il Padre gli disse allora che lo perdonava per quella sua uscita vietata, ma che non lo perdonava per non sapere dire in latino “lenzuolo”; oltretutto era un ingrato, perché aveva potuto scendere dal balcone e risalire proprio grazie a quel lenzuolo. Si ricordi, Amoretti, la preghiera è anzitutto anche attenzione. È un peccato che Amoretti, in quanto professore alla IULM, non possa ricevere da questo ateneo una laurea ad honorem. La meriterebbe ben di più. Vi ringrazio e, se permettete, vi abbraccio.