
[lid] – Come non si può essere d’accordo con Pietro Calamandrei che definiva l’ordine giudiziario non un «ramo della burocrazia» ma un «ordine religioso», tanto da dedicargli il titolo di un capitolo XIII del libro Elogio dei giudici.
Oggi l’onda virulenta dei media si abbatte sui processi giudiziari e spesso ne deforma lo scenario facendo crescere le distorsioni della giustizia.
Ancora vige l’articolo 111 della Costituzione secondo il quale «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».
Eppure a quel che sembra il nostro paese sarebbe dunque sul piano mediatico l’isola dell’ingiusto processo, mentre per il resto dell’Unione europea valgono le regole messe a punto dalla Corte di Strasburgo secondo cui l’imparzialità dei tribunali garantita dall’art. 6 CEDU non consente ai giornalisti di formulare «dichiarazioni che risulterebbero idonee, intenzionalmente o no, a ridurre le chances per una persona di beneficiare di un processo equo» (sentenza Worm c. Austria, 29 agosto 1997) e tali da scalzare la fiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia.
A configurare la violazione del diritto al «giusto processo» basta il pericolo concreto di una lesione della imparzialità del giudice (Dupuis c. Francia, 7 giugno 2007, § 44).
Mondo a parte rimane l’Inghilterra, dove vige prevalente il modello della presunzione di offensività conseguente al solo fatto della pubblicazione di notizie rilevanti per il processo penale, in base alla disciplina del «contempt of court» (oltraggio alla Corte).
L’«oltraggio alla corte» si verifica quando qualcuno rischia di influenzare ingiustamente un procedimento giudiziario.
Cioè può impedire a qualcuno di ottenere un processo equo e può influire sull’esito di un processo.
L’oltraggio alla corte è un atto di mancanza di rispetto o disobbedienza nei confronti di un tribunale o un’interferenza con il suo regolare processo.
Secondo la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella guida della Convenzione europea dei diritti dell’uomo l’articolo 6 § 2 non costituisce soltanto una garanzia procedurale, ma è volto anche a impedire che il diritto a un processo penale equo sia violato per mezzo di dichiarazioni pregiudizievoli strettamente collegate a tale processo (si veda Kasatkin c. Russia (dec.).
Una campagna stampa virulenta può tuttavia nuocere all’equità di un processo influenzando l’opinione pubblica e ledendo la presunzione di innocenza del ricorrente.
A tale riguardo, la Corte ha affermato che la stampa non deve superare certi limiti, soprattutto per quanto riguarda la tutela del diritto alla vita privata dell’accusato durante il processo penale e la presunzione di innocenza (Bédat c. Svizzera [GC]).
La Corte ritiene che una campagna stampa virulenta possa minare l’equità del processo influenzando l’opinione pubblica e, di conseguenza, i giurati chiamati a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato (Akay c. Turchia (dec.); Craxi c. Italia (n. 1), § 98; Beggs c. Regno Unito (dec.), § 123). Quindi, una campagna stampa virulenta potrebbe avere un impatto sull’imparzialità del tribunale rispetto all’articolo 6 § 1, nonché sulla presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 (NinnHansen c. Danimarca (dec.) ; Anguelov c. Bulgaria (dec.)).
Tra gli elementi tenuti in considerazione nella giurisprudenza della Corte per quanto riguarda l’analisi dell’impatto di una campagna di questo tipo sull’equità del processo vi sono: il tempo trascorso tra la campagna stampa e l’apertura del processo, e in particolare la scelta della composizione del collegio giudicante; se le pubblicazioni in questione sono attribuibili alle autorità o se queste ultime ne sono state all’origine; se le pubblicazioni hanno influenzato i giudici o la giuria e hanno in tal modo pregiudicato l’esito del processo (Beggs c. Regno Unito (dec.), § 124; Abdulla Ali c. Regno Unito, §§ 87-91; Paulikas c. Lituania, § 59). 271. Inoltre, quando il processo si svolge davanti a una giuria, è rilevante anche il contenuto delle eventuali istruzioni impartite alla giuria (Beggs c. Regno Unito (dec.), § 124). Le autorità giudiziarie nazionali composte interamente da giudici professionisti, a differenza dei membri di una giuria, hanno in genere sufficiente esperienza e formazione per poter resistere a qualsiasi influenza esterna (Craxi c. Italia (n. 1),; Mircea c. Romania).
Oggi si può davvero pensare che solo in Italia, il giudice sia insensibili alla stampa ‘colpevolista’ e con un pubblico che legge i quotidiani o guarda la Tv in maniera distaccata la marcia vittoriosa dei pubblici ministeri verso la sconfitta del crimine prima ancora del rinvio a giudizio degli indagati?
Il ruolo «sacro» della magistratura è quello di indagare ed affrontare con paziente analisi come sono state svolte le indagini – ovviamente a tutto tondo – per poi poter procedere, mentre la stampa pubblica i titoloni in cui l’inquisito è «inchiodato» e quindi colpevole.
Come si può allora contrastare l’impatto del convincimento mediatico colpevolista su un processo?
Eppure la vicenda accaduta a Perugia dovrebbe far riflettere, invece sembra non essere stata recepita adeguatamente e non ha fatto scuola…
Persino la Cassazione ha riconosciuto la portata deviante nella sentenza sul processo di Perugia quando ha affermato, annullando la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che proprio la pressione mediatica aveva indotto gli inquirenti ad imboccare scorciatoie per consegnare al luccichio dello schermo televisivo l’immagine dei due ragazzi colpevoli.
E’ dunque ormai tempo di mettere mano ad una politica dei limiti e dei divieti nei confronti dei media, come ben ha fatto il Ministro Cartabia ad introdurre la direttiva UE 343 del 2016 nel Belpaese.
Ben venga a tal proposito il presidente della Corte costituzionale, Gianfranco Coraggio, che ha colto l’occasione della presentazione della Relazione annuale, in un’accesa conferenza stampa, dove si è espresso chiaramente, sollecitando Pm e giudici a fare “meno show”. I magistrati, inquirenti o giudici, continuano ad occupare la scena mediatica, e si inseriscono nell’attività degli altri due poteri dello Stato, Parlamento e Governo. Questa invasione di campo crea scompiglio e lede uno dei principi fondamentali della nostra costituzione che è la divisione dei poterei: esecutivo, legislativo, e giudiziario.
È chiaro che ai pubblici ministeri fa comodo giovarsi della cronaca colpevolista, ma i togati della giudicante non la pensano allo stesso modo e quindi non sono sulla stessa lunghezza d’onda.
E sono proprio i togati della giudicante che avvertono il fastidio e il disagio di veder offuscato il loro ruolo quando la stampa investe di funzioni oracolari il conduttore del talk show che pronuncia la sentenza di condanna in nome del popolo dei telespettatori. O peggio quando dei giornalisti presenti in aula scrivono articoli senza la dovuta autorizzazione da parte della Procura.
Serve equilibrio, ma servono soprattutto delle misure appropriate per ristabilire i giusti ruoli e ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere che è quello di esercitare l’attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza e del giusto processo.