
(AGENPARL) – Tue 30 September 2025 https://www.aduc.it/articolo/2011+eurogeddon_39897.php
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2011: Eurogeddon
Quando l’Europa scoprì lo spread
La chiamarono “crisi del debito sovrano dell’eurozona”. Nome elegante, quasi accademico. In realtà, per milioni di investitori e risparmiatori fu semplicemente il periodo in cui ogni mattina lo spread dettava l’umore della giornata, più ancora del meteo.
Tra il 2009 e il 2012 i Paesi con la simpatica etichetta di PIIGS (grazie, Financial Times) (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) si trovarono davanti alla domanda più scomoda della finanza: “riusciranno a ripagare i loro debiti o stiamo facendo beneficenza?”. Spoiler: non tutti riuscivano a convincere i mercati.
Il rischio era enorme: non solo fallimenti sovrani, ma il collasso della stessa moneta unica, quell’euro che doveva renderci tutti più forti e che invece sembrava fragile come un bicchiere di cristallo in mano a un cameriere distratto.
Le cause? Un mix di vecchie abitudini viziose (spese pubbliche più generose delle entrate) e scintille improvvise (come i bilanci “creativi” della Grecia). Nei prossimi paragrafi vedremo chi ha fatto cosa, come si è sviluppato il caos, quali conseguenze ha lasciato in eredità e – soprattutto – quali rimedi sono stati inventati all’ultimo minuto, tra acronimi misteriosi (EFSF, ESM…) e cure d’urto firmate BCE e FMI (austerity).
I protagonisti (non troppo volontari) della crisi
La crisi del debito sovrano non fu un affare di pochi: colpì tutta l’Eurozona, ma con intensità diverse. Al centro della scena i famigerati PIIGS – acronimo poco elegante ma molto efficace, che i mercati finanziari usavano senza pietà.
Grecia: epicentro del terremoto. Bilanci truccati, debito pubblico fuori controllo e la sensazione che Atene avesse scambiato l’Eurostat per un laboratorio di creatività letteraria.
– Irlanda e Spagna: vittime delle bolle immobiliari. Quando le case persero valore, i salvataggi bancari trasformarono il debito privato in debito pubblico. Morale: le famiglie smettevano di pagare i mutui, e lo Stato iniziava a pagare per tutti.
– Portogallo: niente scandali clamorosi, ma un mix letale di crescita asfittica e dipendenza dai capitali esteri. Vulnerabile come una casetta di legno in un uragano.
– Italia: non crollò mai davvero, ma restò sotto pressione continua. Con un debito enorme già da decenni e governi ballerini, i mercati non le fecero sconti: i tassi schizzarono e lo spread divenne l’incubo quotidiano.
– Cipro: piccolo, ma sfortunato. Le sue banche erano talmente esposte alla Grecia da finire in ginocchio. Nel 2013 anche Nicosia dovette bussare alla porta degli aiuti internazionali.
E poi c’erano i creditori – Germania e Francia in primis – che non erano certo spettatori neutrali: le loro banche erano cariche di titoli dei paesi sopra citati, quindi ogni scossone a Sud si traduceva in mal di pancia a Nord.
Il risultato fu un effetto domino che non risparmiò nemmeno alcuni Paesi dell’Est Europa, come Ungheria, Lettonia e Romania, costretti a chiedere aiuti al Fondo Monetario Internazionale.
In sintesi? La crisi non fu il problema di cinque pecore nere, ma un fenomeno sistemico che mise a nudo gli squilibri nascosti nell’architettura dell’euro: una moneta unica con tante economie diverse, unite sì… ma solo sulla carta.
Le cause: l’euro con i difetti di fabbrica
Per capire la crisi bisogna tornare all’inizio della storia: l’euro nasce come un’auto sportiva bellissima… ma senza airbag. Una moneta unica, sì, ma senza unione fiscale, senza un bilancio comune degno di questo nome e – dettaglio non trascurabile – senza un vero “prestatore di ultima istanza” per i titoli di Stato. In pratica: se qualcosa andava storto, ogni Paese doveva cavarsela da solo.
Così, quando arrivò la tempesta, gli Stati si accorsero che non potevano svalutare la propria moneta (non avevano più una moneta nazionale), né aspettarsi soccorsi rapidi da Bruxelles o Francoforte.
Nel frattempo, negli anni precedenti al 2009, si erano accumulati squilibri pesanti. Alcuni Paesi – Grecia e Portogallo in testa, ma anche Spagna e Irlanda – avevano perso competitività, con costi del lavoro in crescita e bilance dei pagamenti in rosso fisso. Al contrario, la Germania accumulava surplus e guardava tutti dall’alto.
Il paradosso era questo: grazie all’euro, i capitali del Nord fluivano a basso costo verso il Sud, alimentando boom immobiliari e consumistici. Le banche tedesche e francesi finanziavano mutui in Spagna e Irlanda, mentre la Grecia mascherava deficit cronici con una contabilità “creativa” degna di un prestigiatore.
Il risultato?
– Debito pubblico monstre in Grecia e Italia.
– Debito privato fuori controllo in Spagna e Irlanda.
– Crescita asfittica in Portogallo.
Insomma, fragilità strutturali c’erano eccome, solo che i tassi d’interesse bassi e la convergenza apparente dentro l’eurozona avevano nascosto la polvere sotto il tappeto.
E non finisce qui: sul fronte istituzionale l’Europa era disarmata. Il Patto di Stabilità non aveva funzionato come deterrente e, sulla carta, vigeva pure il principio del no-bailout: nessuno Stato avrebbe dovuto salvare un altro. Bene, peccato che al primo scossone ci si sia accorti che non esisteva alcun meccanismo concreto di gestione delle crisi sovrane.
Morale: nel 2010, quando la crisi esplose, l’UE si fece trovare come uno studente che entra all’esame senza aver mai aperto il libro.
La scintilla: “ops, i conti erano sbagliati”
L’autunno del 2009 in Grecia fu memorabile. Non per il clima o per il turismo, ma perché il nuovo governo si presentò con una confessione shock: “ragazzi, ci siamo sbagliati… il deficit non è il 6% del PIL, ma più del doppio. Ah, e il debito? Pure quello era un po’ sottostimato”.
Tradotto: il bilancio nazionale non era un documento contabile, ma un romanzo fantasy.
La reazione dei mercati fu immediata: tassi d’interesse in impennata, fiducia evaporata e la Grecia che, nel giro di pochi mesi, si ritrovò fuori dai mercati. Nessuno voleva più prestarle soldi se non a condizioni da usura.
L’effetto domino
Il problema, però, non si fermò ad Atene. I mercati, ancora nervosi dopo la grande crisi del 2008-09, iniziarono a guardarsi intorno con sospetto: “e se non fosse solo la Grecia?”. Spoiler: non era solo la Grecia.
– Irlanda: da tigre celtica a gattino ferito. Lo scoppio della bolla immobiliare aveva messo in ginocchio le banche, e il governo – pur con poche risorse – decise di salvarle tutte. Risultato? I conti pubblici crollarono e il debito esplose.
– Spagna: stessa storia, scala più grande. Case invendute, casse di risparmio in crisi e il timore che anche Madrid dovesse staccare assegni miliardari per tappare buchi bancari.
– Portogallo: non serviva un evento specifico, bastava guardare i fondamentali: crescita anemica, debito alto e competitività bassa. Gli speculatori sentirono odore di sangue e si lanciarono.
– Italia: inizialmente ignorata, ma con un debito pubblico gigantesco (oltre il 120% del PIL) e una crescita ferma al palo, finì presto sotto i riflettori. Dal 2011 lo spread italiano divenne il termometro quotidiano della crisi.
– Cipro: piccolo ma esposto, soprattutto alle perdite sui titoli greci. Le sue banche, gonfiate oltre misura, finirono travolte e nel 2013 anche Nicosia dovette chiedere aiuto.
Il detonatore globale
Va detto: la crisi greca fu solo l’innesco. Il vero carburante era il clima post-2008: deficit in aumento ovunque per via della recessione e degli stimoli fiscali, investitori spaventati e pronti a distinguere tra “virtuosi” e “fragili” con criteri sempre più spietati.
Risultato: un contagio rapidissimo e la necessità per UE e FMI di inventarsi soluzioni d’emergenza che fino ad allora non esistevano. Insomma, da quel momento in avanti, l’Europa non poteva più far finta che il problema fosse confinato alla Grecia.
Cronologia della crisi (2009–2012)
2009 – Il vaso di Pandora greco
Il nuovo governo scopre che il deficit non è il 6% ma oltre il doppio: bilanci da romanzo fantasy. Le agenzie di rating declassano, i rendimenti esplodono.
2010 – Da “problema greco” a “problema europeo”
Atene chiede aiuto: primo pacchetto da 110 miliardi, in cambio austerità e lacrime. Bruxelles inventa EFSM ed EFSF, mentre la BCE rompe un tabù e compra titoli di Stato. L’incendio però si propaga: Spagna e Portogallo sotto pressione, poi tocca all’Irlanda, salvata con 85 miliardi e ricette severe.
2011 – L’anno in cui caddero i governi
Portogallo al tappeto: 78 miliardi e nuove riforme. La Grecia ottiene un secondo salvataggio con haircut ai creditori privati. L’estate contagia Italia e Spagna: spread oltre il 6%, la BCE interviene ma chiede riforme. Papandreou e Berlusconi cadono, sostituiti da governi tecnici “benedetti” dall’Europa. Draghi lancia il maxi LTRO: oltre 1.000 miliardi di liquidità alle banche.
2012 – L’anno del “whatever it takes”
Entra il Fiscal Compact, la Grecia subisce la maxi-ristrutturazione. Spagna e Cipro chiedono aiuti, nasce l’Unione Bancaria. Il 26 luglio Draghi pronuncia il celebre “whatever it takes”: tre parole che fermano la corsa verso l’abisso. A ottobre diventa operativo il MES, il pronto soccorso permanente. Gli spread calano, la paura di rottura dell’eurozona svanisce: l’incendio è (quasi) domato.
Conseguenze economiche: l’Europa in versione “double-dip”
La crisi non bruciò solo spread e governi: scavò un cratere nell’economia reale. La Grecia perse il 25% del PIL in cinque anni, roba da Grande Depressione. Portogallo e Italia nel 2012 erano tornati indietro di un decennio, la Spagna visse un PIL da elettrocardiogramma impazzito (-9%), l’Irlanda un crollo seguito da ripresa all’insegna di export e austerità.
L’eurozona entrò in una recessione “double-dip”: due cadute ravvicinate, 6 milioni di posti persi e investimenti industriali ai minimi. Beffa finale: invece di ridursi, i debiti pubblici esplosero (media eurozona dal 66% al 90% del PIL). La Grecia passò dal 126% al 175%, Irlanda e Portogallo oltre il 120%, l’Italia vicina al 130%.
Nord e Sud si allontanarono: i primi con surplus da manuale, i secondi con squilibri cronici. Le banche accentuarono la frattura, strozzando credito e liquidità al Sud. Risultato: depressione vera in molte aree, capitale umano in fuga e crescita potenziale amputata. Solo dal 2014 il PIL tornò a respirare; i livelli pre-crisi furono recuperati nel 2015-2016.
Conseguenze sociali: austerità, disoccupazione e piazze in fiamme
Se l’economia soffriva, la società non stava certo meglio. Nei paesi mediterranei colpiti dai programmi di aggiustamento, la crisi del debito si trasformò in una vera emergenza sociale.
Disoccupazione da record: in Grecia il tasso tocca il 27% nel 2013, in Spagna il 26%. Tradotto: più di un quarto della popolazione attiva senza lavoro. Peggio ancora per i giovani: oltre la metà senza occupazione in entrambi i Paesi. Una generazione intera “parcheggiata” in attesa di futuro.
Fuga dei cervelli: milioni di lavoratori qualificati presero il primo volo per Londra, Berlino o oltre oceano. Il famoso brain drain: chi poteva, scappava.
Povertà dilagante: la combinazione di austerità e recessione tagliò i redditi delle famiglie e ridusse le reti di protezione sociale. In Grecia, il tasso di povertà ed esclusione sociale passò dal 28% a oltre il 35%. In Italia, la povertà assoluta raggiunse livelli che non si vedevano dagli anni ’50.
Tagli al welfare: pensioni e stipendi pubblici ridotti, spesa sanitaria tagliata, ospedali in difficoltà. In Grecia e Portogallo curarsi divenne un lusso per molti.
E poi c’erano le piazze. L’austerità accese proteste di massa, scioperi generali e movimenti spontanei:
– ad Atene, piazza Syntagma divenne il simbolo della rabbia popolare, spesso degenerata in scontri violenti;
– a Madrid nacquero gli Indignados (maggio 2011), che riempirono le piazze denunciando la disoccupazione e la disuguaglianza;
– in Portogallo e Spagna, cortei e scioperi paralizzarono intere città.
In sintesi: il conto della crisi lo pagarono soprattutto i cittadini comuni, con meno lavoro, meno welfare, più povertà e più rabbia. La spaccatura Nord-Sud in Europa non fu solo economica, ma anche sociale: Paesi “core” relativamente stabili e periferie in ginocchio.
Conseguenze politiche: governi che cadono, populismi che salgono
La crisi del debito non si limitò a falciare PIL e occupazione: spazzò via governi come birilli.
Nei paesi debitori, i pacchetti di aiuti arrivarono sempre accompagnati da un piccolo dettaglio: austerità feroce. Tagli, tasse e riforme imposte “da Bruxelles” o, peggio ancora, “da Berlino”. Risultato? Rabbia popolare, fiducia in caduta libera e governi in caduta ancora più rapida.
– Grecia e Italia (2011): via i governi eletti, dentro i tecnici (Papademos e Monti), sostenuti da larghe coalizioni per garantire l’attuazione dei programmi UE/FMI. Per i cittadini, una resa dei conti: la sensazione di aver perso pezzi di sovranità nazionale.
– Irlanda e Portogallo (2011): elezioni anticipate, governi ribaltati.
– Spagna (2011): addio Zapatero, benvenuto Rajoy, in un’onda elettorale figlia della recessione e della disoccupazione record.
Ma la parte più interessante fu l’effetto collaterale: il terreno fertile per i nuovi movimenti anti-austerità e populisti. La rabbia verso i “partiti tradizionali complici di Bruxelles” fece nascere o crescere:
– SYRIZA in Grecia, che avrebbe presto governato cavalcando la retorica anti-troika;
– il Movimento 5 Stelle in Italia, esploso nel vuoto lasciato dai partiti storici;
– Podemos in Spagna, alimentato dalla protesta degli Indignados;