
(AGENPARL) – mar 26 marzo 2024 Ca’ Foscari e la formazione politica di Ugo La Malfa
Public lectures – Venezia, 26 marzo 2024
Giorgio La Malfa
1.- Ringrazio la rettrice di Ca Foscari, professoressa Tiziana Lippiello, per avermi invitato a tenere una delle public lectures dell’università. Mi ha chiesto di parlare di mio padre che studiò a Ca’ Foscari fra il 1922 e il 1926, anche in relazione a un’iniziativa che abbiamo preso insieme con l’Enciclopedia Treccani e con Intesa Sanpaolo e che culminerà in un evento molto importante qui a Venezia il 27 maggio prossimo del quale daremo completa notizia nei prossimi giorni.
È la prima volta in cui ho accettato di parlare di mio padre, della sua formazione e della sua visione politica. Le biografie sono difficili: richiedono una conoscenza approfondita dell’opera o del pensiero di colui del quale si scrive o si parla, ma richiedono anche una certa distanza critica dall’oggetto della sua attenzione. Nel parlare di mio padre, non c’è da parte mia questo distacco critico, anche perché nella mia esperienza politica ho cercato di mantenere e di sviluppare l’impostazione che era stata di mio padre, condividendola profondamente. Può darsi quindi che i miei giudizi siano per questo aspetto parziali. Peraltro, non mi propongo oggi di fare un bilancio complessivo di una lunga vita politica. Mi concentro sugli anni di Ca’ Foscari nella formazione politica di mio padre.
2.- Ugo La Malfa nacque a Palermo il 16 maggio 1903. Il padre era un appuntato, poi maresciallo di pubblica sicurezza. Era il primo di tre figli di una famiglia che viveva in condizioni più che modeste. Si diplomò in ragioneria nel 1920. Allora dalla scuole tecniche non si accedeva all’università ma uno degli insegnanti insistette con i genitori che sarebbe stato un peccato non fare proseguire gli studi a una persona tanto evidentemente dotata. Così, nell’autunno del 1920 diede da privatista l’esame di licenza liceale e si iscrisse a Ca’ Foscari, nel Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali. Scelse il corso di laurea in Scienze diplomatiche e consolari.
A Venezia, fra la fine del 1920 e il ‘22, vide la crescita e l’affermazione del fascismo. In un’intervista ad Alberto Ronchey del 1977 rievocò le impressioni di quel tempo: “Allora il fascismo a Venezia – disse a Ronchey – si esprimeva attraverso i ‘cavalieri della morte’ che portavano una camicia nera con su stampato un teschio pagina contatti????????onomica sociale???????? di operare???????????????ofondamente????????nessuna forza politica democrati. La prima impressione su quei fascisti fu tremenda per me. Proprio a Ca’ Foscari, dove si concentrava molta gioventù del Veneto e della Valle padana, ebbi l’impressione di una tragica lotta. Molti di quei giovani fascisti provenivano dalla classe dei proprietari terrieri, degli agrari, come si diceva allora. La nostra vita fu difficile. Gli antifascisti avevano come quartier generale il campo Santa Margherita, vicino a Ca’ Foscari, in un quartiere popolare. Noi stavamo lì e non potevamo andare in Piazza San Marco ritrovo dei fascisti. Quando avvenivano sconfinamenti si finiva dentro i canali. Si sentiva che la pattuglia antifascista era stretta, assediata”(p.17).
A Ca’ Foscari, mio padre ebbe rapporti molto intensi con tre insegnanti, due dei quali furono cruciali anche per il suo orientamento politico. Ne parlò lui stesso a Ca’ Foscari nel 1964: “Due maestri della scuola di Venezia sono rimasti nel mio commosso ricordo, non solo come insegnanti eccezionali, ma come esempio di grande e nobile impegno politico e civile: Silvio Trentin e Gino Luzzatto…”
Di Gino Luzzatto, professore di storia economica nell’ateneo, disse in particolare: “Gino Luzzatto ci aveva insegnato a comprendere e ad amare la lettura e la ricerca storica e soprattutto ad avvertire il fascino della lettura e delle meditazioni di storia economica, come premessa per comprendere e interpretare il mondo dei nostri giorni e, soprattutto, tentare di operarvi, con azioni di politica economica e sociale.” Poi aggiunse: “ … a Gino Luzzatto ed ai suoi insegnamenti si deve parte notevole di quella revisione critico-culturale che doveva portare i giovani di allora, a fondare, durante la lotta antifascista e la Resistenza, il Partito d’Azione come espressione di una visione più concreta e meno dogmatica dei problemi della società moderna, quel Partito d’Azione nel quale egli, socialista, militò finché il partito rimase in vita.”
La sua formazione economica iniziata con Luzzatto si completò quando nel 1934 venne assunto in Banca Commerciale e cominciò a lavorare con Raffaele Mattioli in un ambiente saldamente e coscientemente antifascista. Qui all’ampia visione storica appresa da Gino Luzzatto si aggiunse la conoscenza del pensiero e dell’esperienza di politica economica contemporanea. Lesse la Teoria generale di Keynes che uscì nel febbraio del 1936 e conobbe l’esperimento politico del New Deal di Roosevelt che in quegli anni apriva nuove strade alla politica economica. Nei programmi del Partito d’Azione che nacque all’inizio degli anni ’40 si sente il peso di questi nuovi riferimenti.
L’altra influenza cruciale fu quella di Silvio Trentin, professore di istituzioni del diritto pubblico che lo avviò all’impegno diretto nella battaglia politica antifascista. Ma prima di parlare di Trentin e del rapporto con Giovanni Amendola che nacque attraverso Trentin, debbo accennare al terzo dei maestri di Ca’ Foscari che cercò di indirizzarlo verso un altro esito professionale. Si tratta di Francesco Carnelutti, Professore di procedura civile a Padova e a Ca’ Foscari, con cui mio padre si laureò nel 1926 con una tesi sui contratti di lavoro.
Carnelutti fu certamente impressionato dalla tesi di mio padre: sembra che l’abbia presentata alla Commissione di laurea parlando di un astro nascente del diritto. In effetti, Carnelutti propose a mio padre di prendere una laurea in legge e poi lavorare con lui. In una lettera a un amico, mio padre scrisse: “Mi sono laureato con il massimo dei voti e la lode. La tesi sarà pubblicata e con molta probabilità mi avvierò definitivamente nel campo degli studi giuridici dove mi dice il professor Carnelutti relatore della mia tesi e da oggi mia guida potrò fare molto bene.” Si iscrisse, su suggerimento di Carnelutti, alla facoltà di giurisprudenza di Padova, presentato al rettore da questa lettera di Carnelutti: “Questo giovane La Malfa che ti presento è un singolarissimo dottore cafoscarino, laureato con una magnifica tesi giuridica, che ora vuole per mio consiglio studiare a Padova…Ha ottime gambe.” (Soddu p. 56). In effetti, mio padre si iscrisse a Padova, fece un paio di esami, ma poi decise di abbandonare Carnelutti: “Mi era quasi venuta la ripulsa del diritto – disse a Ronchey –anche perché Carnelutti con la sua logica astratta mi cominciava ad apparire come un acrobata del diritto” (p. 19).
3. – La verità è che il rapporto con Luzzatto e soprattutto con Trentin lo aveva avviato verso la lotta politica. Finiti gli esami nel 1924, in attesa della laurea nel 1926, si era trasferito a Roma con delle borse di studio e lì era entrato in contatto, attraverso Silvio Trentin, con la personalità politica che più lo avrebbe influenzato: Giovanni Amendola. “La prima volta che lo vidi – scrisse molti anni dopo – mi fece un’enorme impressione. Era un uomo di statura alta dal viso severissimo, sembrava un pastore protestante. Dava il senso di un distacco profondo da interessi mediocri, il senso di un uomo impegnato in una grande battaglia di ordine anche morale. Il nostro incontro migliore fu in occasione del primo congresso dell’Unione nazionale. Ascoltai il suo discorso che era di impostazione intransigente della lotta contro il fascismo” (Ronchey, p.14).
Chi era Giovanni Amendola? Era nato nel 1882 a Napoli. Di formazione filosofica, soprattutto kantiana, aveva vissuto a Firenze dove era stato fra i fondatori del settimanale Leonardo con Giovanni Papini e della Voce con Prezzolini. Dal 1912 era entrato nel giornalismo prima come capo della redazione romana del Carlino, poi del Corriere della Sera. Interventista, si era legato in particolare di amicizia con il direttore e proprietario del Corriere, Luigi Albertini. Era stato eletto in Parlamento nel 1919 nelle file dei liberali. Partecipò con posizioni di un certo rilievo alle vicende politiche che fra il 1919 e il 1922 che prepararono l’avvento di Mussolini. Fu ministro delle Colonie nei due governi Facta del 1922, quando vi fu la Marcia su Roma. Da sempre ostile alla violenza fascista, non fu invece ostile alla partecipazione dei fascisti al governo. Come altre personalità liberali del tempo, da Benedetto Croce ad Albertini, vedeva nel fascismo una reazione agli eccessi del massimalismo socialista specie dopo la rivoluzione russa del ‘17 e sperò, portato al governo, il fascismo si sarebbe per così dire normalizzato. Amendola si rese conto ben presto della deriva autoritaria del governo Mussolini.
Nelle elezioni del 24, dopo l’approvazione della legge Acerbo, Amendola fu eletto ancora una volta con una piccola pattuglia di altri democratici. E divenne uno dei più intransigenti avversari del fascismo. All’indomani del delitto Matteotti, di cui ricorre quest’anno il centenario, fu il leader dell’Aventino, cioè prese l’iniziativa di rifiutare la partecipazione ai lavori delle Camere, nella fiducia o nella speranza che la monarchia potesse riconoscere l’illegalità del governo Mussolini e potesse imporre al duce le dimissioni. Sul quotidiano di Amendola Il Mondo apparve nel novembre del ’24 il memorandum di Rossi, il capo di gabinetto del duce, nel quale si rivelava la connivenza diretta del duce nel delitto Matteotti. L’attesa che la monarchia potesse licenziare Mussolini venne delusa. La delusione per il comportamento della monarchia lo spinse a maturare un orientamento repubblicano.
Alla fine del 1924 Amendola diede vita a un movimento politico, l’Unione Democratica Nazionale, che tenne il suo primo ed unico Congresso nel giugno del 1925. Mio padre, che aveva allora 22 anni, intervenne nel dibattito e al suo intervento fece riferimento Amendola nelle conclusioni. “Abbiamo sentito questa mattina con viva soddisfazione – e per conto mio dico con viva commozione – un giovane, il quale ci ha portato una delle prime voci che vengono da questo aldilà del dopoguerra. Sono le prime voci che ci giungono dai licei e dalle università, dai primi che si sono sottratti alla sfera di influenza del partito dominante; ma questo piccolo manipolo sarà domani un reggimento, un corpo d’armata, un esercito: non abbiamo che da lasciare tempo al tempo”.
Ma Amendola non ebbe il tempo del quale parlava. Poche settimane dopo, a Montecatini subì un agguato (ve ne erano già stati altri) di una quindicina di fascisti. Fu bastonato ferocemente, fu ferito e subì lesioni dalle quali non si riprese più. All’inizio del 1926 Amendola muore in una clinica di Cannes. L’Unione Democratica venne disciolta. La fase finale fu affidata a una pentarchia della quale faceva parte il giovane La Malfa. Si chiuse anche il quotidiano Il Mondo. Il commediografo Roberto Bracco dettò la lapide, che è giusto conoscere, sulla tomba di Giovanni Amendola: “Qui vive Giovanni Amendola, aspettando.” Qualche mese dopo da Palermo, dove era rientrato provvisoriamente, mio padre scrive a Trentin: “Noi siamo come in un reggimento: morto il capitano, pensiamo alla sostituzione perché la battaglia continui.” A me sembra evidente che la scelta di vita di mio padre è delineata in questa lettera: raccogliere l’eredità di Amendola e continuarne la battaglia. Amendola aveva immaginato l’Unione Democratica come un grande partito dei ceti medi del Paese, riformatore in economia, saldamente democratico nel campo dei diritti civili, alieno da ogni estremismo. Il Partito d’Azione che mio padre concorse a formare all’inizio degli anni 40, e poi il Partito Repubblicano nel quale entrò dopo la rottura del Partito d’Azione nel 1946, furono concepiti con questo stesso obiettivo, naturalmente con gli aggiornamenti programmatici dovuti al passare del tempo.
4. – Dunque continuare la battaglia di Amendola, raccoglierne il testimone. Questa determinazione si scontrerà negli anni successivi con il passaggio di molti dei giovani più brillanti della sua generazione, cresciuti nel mondo di Amendola, al Partito Comunista. Vi sono varie conferme che questo è lo snodo essenziale della biografia politica di mio padre. La principale è contenuta in un libro di Giorgio Amendola, il figlio maggiore di Giovanni, di pochi anni più giovane di mio padre, con il quale fra il ‘24 e il ‘25 si era creata una amicizia saldissima. Il libro di Amendola uscito nel 1976 è intitolato Una scelta di vita. In quelle pagine di memorie, Giorgio Amendola ripercorreva gli anni della sua infanzia e della gioventù, l’avvento del fascismo, la morte del padre e infine la sua decisione di aderire al PCI.
Amendola racconta che dopo essersi iscritto segretamente al PCI, nel 1928 vi fu un incontro a Roma con gli amici di un tempo ai quali rivelò la sua decisione. ”Fu burrascoso lo scontro – scrive – con Ugo La Malfa e con Sergio Fenoaltea (un altro giovane amendoliano che nel dopoguerra è stato anche ambasciatore a Washington). Essi assunsero un tono che divenne subito inquisitorio e accusatore “tu non puoi andare al comunismo – mi dissero – perché sei il figlio di Giovanni Amendola e non puoi rinnegare il suo insegnamento…Ci separammo senza salutarci… Ugo lo rividi a Roma nell’agosto del 1943 per riprendere la discussione su nuove basi. Questa volta mi accusava di essere troppo ‘moderato’ (credo la polemica vertesse sul fatto che gli azionisti volevano la repubblica mentre i comunisti già allora e ancor più quando Togliatti giunse a Salerno nel 1944 erano disponibili a collaborare con la monarchia). Così – conclude Amendola – con Ugo La Malfa continuammo a polemizzare e continuiamo ancora” (p. 259-60).
Qui, se mi consentite, aggiungo su questo punto un aneddoto o un piccolo ricordo personale. Io venni eletto giovanissimo in Parlamento nel 1972, avevo 32 anni. Avvenne (lo voglio dire) per caso, non certo per privilegi dinastici. Io insegnavo a Milano all’Università: si diffuse l’idea che forse sarebbe scattato per la prima volta nel Piemonte di tradizione liberale e monarchica, un seggio per il piccolissimo Partito Repubblicano. Fui gettato allo sbaraglio e contrariamente a quanto tutti pensavano e molti si auguravano anche in seno al PRI il seggio scattò…
Così entrai in Parlamento. C’erano a quel tempo personaggi ai quali un giovane parlamentare non osava nemmeno rivolgere la parola: Moro, Fanfani, Nenni, Longo, Amendola, mio padre, Pertini. Erano icone. Ci fu un dibattito di politica internazionale in cui intervenne mio padre discutendo la posizione del Partito Comunista. Dopo il dibattito io ero alla famosa buvette del Transatlantico per prendere un caffè. Entra Giorgio Amendola che conoscevo di vista, ma con cui non avevo mai parlato. Lo conoscevo di vista perché i giovani che sono presenti dovrebbero sapere che nell’Italia degli anni della ricostruzione gli stipendi parlamentari erano molto modesti ed era costituita una cooperativa edilizia tra deputati e senatori che aveva costruito in periferia dei palazzoni dove abitavano quasi tutti e prendevano l’autobus per andare al Parlamento. Giorgio Amendola, che qualche volta avevo visto alla fermata dell’autobus che io prendevo per andare a scuola, entra alla buvette; mi viene incontro e nella mia sorpresa dice: “Tu Giorgio non ci fare caso, tuo padre non ce l’ha con i comunisti, ce l’ha con me”, e se ne va.
In realtà, il fatto che alla fine degli anni ’20 la parte migliore della giovane generazione antifascista fosse andata con il Pci fu il grande elemento di angoscia in chi, come mio padre, aveva scelto di continuare la battaglia antifascista di Amendola e di Trentin. I figli di Amendola, il figlio di Mario Berlinguer deputato con Amendola, il figlio di Silvio Trentin, divennero tutti comunisti.
Perché avvenne? Lo ha spiegato bene un altro straordinario personaggio dell’antifascismo come Leo Valiani. Valiani aveva 15 anni nel ‘22 e, per sua precoce e personale maturazione, era diventato immediatamente antifascista Sente, infatti, crescere in sé una forte ispirazione socialista e prende contatto con i capi del socialismo, con Nenni, Turati, Modigliani, Treves, dei quali diffonde gli scritti clandestini. Viene arrestato nel 1929 e trascorre un periodo nel carcere di Civitavecchia. Qui conosce Terracini e altri comunisti e si iscrive al PCI “perché – scriverà – quelli la rivoluzione la sapevano fare”. Poi lascerà il PCI dopo le purghe di Stalin e il Patto Ribbentrop-Molotov, per entrare nel Partito d’Azione. Ma per molto tempo aveva ritenuto che solo il comunismo potesse offrire una resistenza al fascismo.
5. – Mio padre aveva invece scelto di raccogliere l’eredità di Giovanni Amendola. Ma era rimasto sostanzialmente solo fra i giovani della sua generazione. Nel 1978, pochi mesi prima di morire, nell’anno tragico del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, scrisse un articolo sulla rivista americana Foreign Affairs dell’influente Council on Foreign Relations di New York. In quell’articolo cercava di spiegare agli americani perché era necessario portare il PCI in maggioranza. Gli americani erano fermamente contrari a quella ipotesi. Lo era in particolare l’ambasciatore americano a Roma in quegli anni. Un democratico, un intellettuale, Richard Gardner, ma fermamente deciso a contrastare ogni ingresso dei comunista nella maggioranza e poi nel governo. L’articolo iniziava così: “L’esistenza di un grande e potente partito comunista in Italia è stata per me una costante fonte di preoccupazione in cinquant’anni di attività politica, prima nella lotta clandestina contro il fascismo, poi nella Resistenza e infine nella libera democrazia dell’Italia del dopoguerra.” E continuava “A 22 anni, entrai nel ‘25 in un partito democratico fondato da Giovanni Amendola, un uomo politico di grande valore di indiscussa statura morale. Fra i membri di questo partito vi erano Mario Berlinguer, padre dell’attuale segretario del partito comunista e Silvio Trentin, mio vecchio professore a Venezia e padre di uno dei più intelligenti e autorevoli dirigenti del sindacato comunista… Qualche mese dopo fui al capezzale di Amendola picchiato a morte dai fascisti, con il figlio Giorgio le cui idee politiche coincidevano con quelle del padre.”
“Ma nel ‘30 con la piaga fascista al suo culmine e la dittatura nazista all’orizzonte Giorgio Amendola abbandonò la causa democratica e si unì al partito comunista. Gradualmente gran parte dei giovani che erano stati miei compagni nella prima resistenza clandestina al fascismo andarono a continuare la lotta sotto la falce e il martello ed io rimasi solo con pochi altri…”
“Ho sempre pensato – scrive – che una democrazia con dentro un potente partito comunista non può che essere debole. Così è stato per l’Italia.” E tuttavia è evidente che per mio padre il problema non era fronteggiare la minaccia del comunismo, ma riportare alla battaglia democratica quelle energie che il fascismo e il nazismo avevano spinto verso il comunismo sovietico.
6.- L’articolo di Foreign Affairs spiega la lunga continuità delle posizioni politiche di mio padre, dagli anni di Ca’ Foscari fino agli anni del dopoguerra nell’Italia tornata democratica, per creare quel grande partito democratico che Amendola aveva sognato. Ma vi era un secondo elemento in questa posizione: vi era l’obiettivo di riguadagnare alla causa della vita democratica quella parte delle intelligenze del Paese che, per sfiducia nella capacità delle democrazie di impedire l’avvento del fascismo e di combatterlo, avevano scelto una ideologia in fondo lontana da loro, come era quella comunista. Questa posizione che portava a un dialogo polemico critico ma costruttivo nei confronti del Partito Comunista è stata una posizione originale nella dialettica politica italiana. Essa da un lato creava una certa ostilità nella sinistra comunista, che si vedeva contestata da posizioni intellettualmente avanzate, e ancora di più da una destra che vedeva in quella linea di pensiero e di azione la volontà di non spezzare il filo di un dialogo con tutta la sinistra.
Nel 1965, eletto segretario del PRI, mio padre propose al PCI un dibattito pubblico fra i due partiti, il grande Partito Comunista e il piccolo Partito Repubblicano che allora aveva meno del 3% dei voti. Era un’iniziativa inconsueta perché a quei tempi non c’era l’usanza di dibattiti fra forze politiche diverse e soprattutto fra forze collocate l’una nella maggioranza, l’altra all’opposizione. Il PCI designò Pietro Ingrao. Il dibattito si svolse a Ravenna, una città dove il PRI era il secondo partito dopo il Partito Comunista. Richiamò migliaia di persone e molti corrispondenti stranieri. Fu moderato da un giovane Eugenio Scalfari, allora direttore de l’Espresso.
Mio padre pose una domanda a Ingrao. Chiese: come pensa il PCI di collocare la sua azione riformatrice nell’ambito di un sistema democratico occidentale e in un’economia di mercato? L’Occidente europeo non è la Russia degli zar che forse impone una soluzione rivoluzionaria. Il PCI deve tener conto della realtà in cui opera e non può riproporre schemi adatti a una situazione politica e sociale totalmente differente dalla nostra. Queste domande furono il tema di un difficile dialogo politico aperto e di molti incontri riservati con Berlinguer. Quando, qualche anno, dopo Berlinguer in un’intervista dichiarò di considerare l’ombrello della NATO un elemento della nostra sicurezza e soprattutto quando a Mosca ebbe l’ardire di affermare che la forza propulsiva della rivoluzione di ottobre era venuta meno, la conclusione di mio padre fu che non c’era più ragione di escludere il PCI dal governo. Scrisse, suscitando una polemica feroce di Montanelli e di tutto il mondo moderato italiano, compresa una parte importante dello stesso Partito Repubblicano, che il compromesso storico era ineluttabile.
Su questo fondamentale tema ci fu un concordanza politica molto importante con Aldo Moro che dall’interno della Democrazia Cristiana sviluppava un’analoga strategia politica per preparare un incontro con il PCI. Nacque così il primo e unico governo di solidarietà nazionale varato il giorno stesso del rapimento Moro e dell’uccisione degli uomini della sua scorta. A me è sempre apparso evidente, ma non è questo il tema che possiamo affrontare qui oggi, che il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro non sia stato un semplice atto di terrorismo rivolto a uno degli esponenti di vertice della politica italiana, ma il frutto di un’analisi politica che aveva individuato in Moro la chiave per l’inserimento del PCI nell’area del governo. Come è noto Berlinguer dopo l’uccisione di Moro si tirò indietro. Si tornò alla formula, in sé esaurita, del centro-sinistra e cominciarono anni politicamente disastrosi per il Paese. Naturalmente poi la caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha cambiato tutto.
Che cosa ci sarebbe stato dopo la solidarietà nazionale se l’esperimento avviato nel marzo del ’78 non fosse stato troncato dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro? Ovviamente non possiamo saperlo, ma io ricordo una conversazione con mio padre nel ‘77 quando si profilava la solidarietà nazionale. Io gli chiesi: E dopo? Mi rispose: dopo vedremo ma forse la proposta di Giorgio Amendola – si riferiva a un articolo di Rinascita in cui il leader comunista aveva prospettato la possibilità di creare in Italia un partito del lavoro – potrebbe essere la strada per loro e per noi.
7.- Credo di avere terminato e di avere mostrato come la formazione di Ca’ Foscari sia stata cruciale nella vita di mio padre. Credo anche – e qui mi rivolgo ai tanti giovani che sono presenti – che nel corso dei decenni del secolo breve, come Hobsbawm ha definito il Novecento, fra la prima guerra mondiale nel 1914 da cui nacque il fascismo e la rivoluzione russa e l’89 quando cadde il Muro di Berlino, la lotta politica abbia avuto un’intensità e una spinta ideale che oggi manca e di cui credo si senta la mancanza.
Alla morte di mio padre, esattamente 45 anni fa oggi, chiedemmo a Leo Valiani di tenere l’orazione nel funerale laico che facemmo nella piazza del Parlamento di cui mio padre era stato membro dalla Liberazione in avanti e sotto le finestre dell’Aula dove si riunivano Amendola e i deputati dell’Aventino. Valiani pronunciò un discorso straordinario. Cominciò dai versi del poeta “Nessun maggior dolore che ricordarsi dei tempi felici nella miseria”, per poi proseguire: “Come eravamo felici nel maggio del 25 aprile 1945 quando, a liberazione compiuta, scendendo dal nord, ci rivedemmo a Roma con Ugo La Malfa e con gli altri amici che alla Resistenza avevano partecipato nelle difficili circostanze della capitale isolata dal resto del Paese. Quante speranze nutrivamo… Non occorre neppure dire come una parte di esse sia andata delusa. È nella natura e nella storia degli uomini che non tutte si avverino”. “Se si avverassero per intero – proseguiva con quella serenità che tanto aveva impressionato Arthur Koestler quando lo aveva conosciuto nel campo di concentramento di Vernet in Francia – i figli e i figli dei figli non avrebbero nulla di buono da aggiungere all’operato dei padri e dei nonni…”
C’è quindi, o giovani, una lezione in queste vite e c’è un grande compito che spetta a voi portare avanti.