(AGENPARL) - Roma, 5 Dicembre 2025(AGENPARL) – Fri 05 December 2025 Il capitolo “La società italiana al 2025” del 59° Rapporto Censis
L’Italia nell’età selvaggia
Ci siamo inoltrati nell’età selvaggia, del ferro e del fuoco. Il 30% degli italiani
adesso ha una convinzione inaudita: le autocrazie sono più adatte allo spirito dei
tempi. Il Grande Debito inaugura il secolo delle società post-welfare. L’Italia
spende più per interessi (85,6 miliardi) che per investimenti (78,3 miliardi):
superano dieci volte le risorse destinate alla protezione dell’ambiente (7,8
miliardi). Il lungo autunno industriale rischia di scivolare nel gelido inverno della
deindustrializzazione (non basta l’antidoto del riarmo). E sale la febbre del ceto
medio, nonostante l’arte arrangiatoria degli italiani. Ecco la vertigine e la
speranza di un popolo che, con i barbari alle porte, non prende alloggio al “Grand
Hotel Abisso”: non si abbandona alla profezia dell’apocalisse e sceglie il piacere
Roma, 5 dicembre 2025 – L’Italia nell’età selvaggia, del ferro e del fuoco. Nel mondo a soqquadro
non è l’economia il vero motore della storia. Lo sono le pulsioni antropologiche profonde: antichi miti e
nuove mitologie, paure ancestrali e tensioni messianiche, veementi fedi religiose e risorgenti fanatismi
ideologici, culture identitarie radicali, desideri di riconoscimento inappagati, suggestioni della volontà di
potenza. Molti fenomeni del nostro tempo, che sfuggono alla pura razionalità economica, come le
guerre, i nazionalismi, il protezionismo, non si spiegherebbero altrimenti. Il vitalismo irrazionale soppianta la fiducia ragionevole in un illuminato progressismo liberal. Ci siamo inoltrati in un’età selvaggia,
del ferro e del fuoco, di predatori e di prede. E il grande gioco politico cambia le sue regole, privilegiando
ora la sfida, ora la prevaricazione illimitata. Perciò il 62% degli italiani ritiene che l’Unione europea non
abbia un ruolo decisivo nelle partite globali. Il 53% crede che sia destinata alla marginalità in un mondo
in cui vincono la forza e l’aggressività, anziché il diritto e l’autorità degli organismi internazionali. Per il
74% l’american way of life non è più un modello socio-culturale, un tempo da imitare e oggi irriconoscibile. Moriremo post-americani? Il 55% è convinto che la spinta del progresso in Occidente si sia esaurita
e adesso appartenga a Cina e India. Il 39% ritiene che le controversie tra le grandi potenze si risolvano
ormai mediante i conflitti armati, i cui esiti fisseranno i confini del nuovo ordine mondiale. E il 30% condivide una convinzione inaudita: le autocrazie sono più adatte allo spirito dei tempi.
Il Grande Debito e il secolo delle società post-welfare. L’aumento vertiginoso dell’indebitamento delle
economie occidentali le rende fatalmente più fragili. Tra il 2001 e il 2024 nei Paesi del G7, a fronte di una
stentata crescita dell’economia, il debito pubblico è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil. In Italia dal
108,5% al 134,9%, in Francia dal 59,3% al 113,1%, nel Regno Unito dal 35,0% al 101,2%, negli Stati
Uniti dal 53,5% al 122,3%. Non siamo più l’unico malato d’Europa. Nel 2030 il rapporto debito pubblico/Pil
nei Paesi del G7 supererà il 137%, ritornando prossimo al livello raggiunto nel 2020 a causa della pandemia, quando sfiorò il 140%. Si annuncia uno shock per le finanze pubbliche analogo a quello vissuto
durante l’emergenza sanitaria, ma questa volta il debito record sarà maturato in condizioni ordinarie, in
assenza di una pandemia. Il Grande Debito determina una mutazione ontologica dello Stato: da Stato
fiscale a Stato debitore. Gli Stati debitori non potranno abbassare le tasse, obiettivo sempre promesso
dagli Stati fiscali e puntualmente disatteso. L’ingente debito e la bassa crescita, legata all’invecchiamento
demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento
del welfare (il welfare state è un fenomeno storico, non imperituro: può nascere e svilupparsi, ma anche
estinguersi). Gli interessi pesano come zavorre sui conti pubblici e restringono anche gli spazi di manovra
sugli investimenti produttivi e gli stimoli alla crescita. A settembre il debito pubblico italiano ha toccato la
cifra record di 3.081 miliardi di euro (+38,2% rispetto a settembre 2001). Nell’ultimo anno la spesa per
interessi è stata pari a 85,6 miliardi, corrispondenti al 3,9% del Pil: il valore più alto tra tutti i Paesi europei
(ad eccezione dell’Ungheria: 4,9%), anche più della Grecia (3,5%) e molto al di sopra della media europea (1,9%). Gli interessi pagati superano non solo la spesa per i servizi ospedalieri (54,1 miliardi), ma
l’intero valore degli investimenti pubblici (78,3 miliardi) e ammontano a più di dieci volte quanto l’Italia
spende in un anno per la protezione dell’ambiente (7,8 miliardi). La vulnerabilità è accresciuta dal fatto
che i titoli del debito pubblico italiano sono in mano prevalentemente a creditori residenti all’estero: il
33,7% del totale (ovvero più di 1.000 miliardi), a fronte del 14,4% detenuto dalle famiglie e del 19,2%
dalla Banca d’Italia. Il Grande Debito inaugura il secolo delle società post-welfare. Ma senza welfare le
società diventano incubatori di aggressività e senza pace sociale le democrazie vacillano. Per l’81% degli
italiani è ora di punire i giganti del web che sfuggono alla tassazione.
La febbre del ceto medio. Tra le insidie e le minacce ai fondamentali del tradizionale modello di
sviluppo italiano pesano anche i fattori endogeni. La regressione demografica, con il progressivo invecchiamento della popolazione e i tassi di natalità in caduta libera, provoca l’arresto dei processi di
proliferazione delle piccole imprese. In vent’anni (2004-2024) il numero dei titolari d’impresa si è assottigliato da oltre 3,4 milioni a poco più di 2,8 milioni: -17,0% (quasi 585.000 in meno). I giovani imprenditori con meno di 30 anni sono diminuiti nello stesso periodo del 46,2% (quasi 132.000 in meno).
E se il reddito delle piccole imprese (fino a 5 addetti) corrispondeva al 17,8% del Pil nel 2004, e poi
era sceso al 15,7% nel 2014, nel 2024 si è ridotto al 14,0%. Si indebolisce anche l’altro pilastro: il
lavoro. Nel 2024 il valore reale delle retribuzioni risulta inferiore dell’8,7% rispetto al 2007. Nello stesso
periodo il potere d’acquisto pro capite ha subito un taglio del 6,1%, nonostante il recente parziale
recupero (+2,0% tra il 2022 e il 2024). Così il ceto medio vive in uno stato febbrile: nella stagnazione
o, peggio ancora, rischia di perdere lo status conquistato nel tempo.
I barbari alle porte e la menzogna politica. Secondo il 72% degli italiani la gente non crede più ai
partiti, ai leader politici e al Parlamento. Il 63% è convinto che si sia spento ogni sogno collettivo in cui
riconoscersi. L’unico leader con una proiezione globale che ottiene la fiducia della maggioranza degli
italiani (60,7%) è Leone XIV. Seguono Sánchez (44,9%), Merz (33,5%), von der Leyen (32,8%), Macron (30,9%), Starmer (29,0%), Lula (23,0%), Trump (16,3%), Modi (14,9%), Xi Jinping (13,9%), Putin
(12,8%), Orbán (12,4%), Erdoğan (11,0%), Netanyahu (7,3%), Khamenei (7,3%), Kim Jong-un (6,1%).
Assistiamo a un capovolgimento dei ruoli nel rapporto tra élite e popolo. Da una parte ci sono i leader
europei − il nostro nuovo pantheon politico − con i volti sgomenti come pugili suonati, sotto i colpi
sferrati da est e da ovest. Invece di rassicurare, esercitando la tradizionale funzione dell’offerta politica,
eventualmente con il ricorso spregiudicato alla menzogna, annunciano la catastrofe, ci mettono davanti
al pericolo di morte: la guerra imminente, la irrimediabile perdita di competitività del continente, l’ineluttabile deriva demografica, la marea inarginabile dei migranti, il collasso climatico. Dall’altra ci sono
gli italiani, per i quali non è scattato l’allarme rosso: l’apocalisse può attendere. Non si segnalano tentazioni di radicalizzazione: per il 47% le divisioni politiche e la violenza che scuotono gli Stati Uniti sono
impensabili nella nostra società. E un intervento militare italiano, anche nel caso in cui un Paese alleato
della Nato venisse attaccato, è disapprovato dal 43%. Il 66% ritiene che, se per riarmarsi l’Italia fosse
obbligata a tagliare la spesa sociale, allora dovremmo rinunciare a rafforzare la difesa.
Il “Grand Hotel Abisso” e il piacere degli italiani. Gli italiani non sono tipi da prendere alloggio nelle
confortevoli stanze del “Grand Hotel Abisso”, dove sperperare gli ultimi averi prima che scocchi la mezzanotte, sporgendosi deliziati e inconsapevoli, con le bende agli occhi, sull’orlo del baratro, mentre ci si
allieta con piaceri sfrenati e pasti goduti negli agi, finché non sopraggiungano le tenebre. Certamente no,
visto che sono impegnati a districarsi con sagacia e misura tra piccole cicatrici e grandi minacce. Minacce
realmente incombenti, non scritte con l’inchiostro simpatico di una messinscena, di cui riconoscono l’attrito
urticante sulle loro vite. Al punto di dover immaginare, nell’ora del delirio del potere, la dissennata vanità,
l’abominevole crudeltà, la tragica insensatezza di un eventuale conflitto armato dispiegato su larga scala
e un nuovo fungo atomico, per suggellare l’indomani la copula oscena di guerra e pace, di distruzione e
ricostruzione. E tuttavia non si abbandonano alla seduzione della corriva litania della catastrofe, quasi con
compiaciuta rassegnazione, né si lasciano persuadere dalla profezia dal sapore decadente dell’apoca-
lisse dietro l’angolo − annunci che assomigliano alla cerimonia del grandioso fallimento di una civiltà destinata a consumarsi nel falò della inevitabile estinzione. Gran parte degli italiani sprigiona ogni giorno
un’energia sorprendente, che dimostra un approccio positivo alla vita. Il piacere non è cercato per esorcizzare nel proprio microcosmo i mali del mondo: è inscritto nel nostro stile di vita come espressione di
una connaturata vocazione edonistica. Re dei piaceri è il sesso, liberato dalle antiche censure. I rapporti
sessuali tra le persone di 18-60 anni sono molto frequenti. I performanti fanno sesso ogni giorno (sono il
5,3% del totale), gli attivi hanno rapporti due o tre volte alla settimana (29,9%), i regolari una volta alla
settimana (27,3%), i saltuari con una cadenza tra il mensile e il quadrimestrale (21,9%), gli occasionali
una volta ogni cinque o sei mesi (7,1%) e gli astinenti (chi non fa mai sesso) sono l’8,5%. Insomma, quasi
due terzi degli italiani tra i 18 e i 60 anni (il 62,5%) hanno una vita sessuale molto intensa, contrassegnata
da un ritmo settimanale. Tra i giovani con meno di 35 anni la percentuale è ancora più alta: il 72,4% (tra
loro solo il 6,4% non fa mai sesso). Quali sono le pratiche più diffuse? Il 78,8% pratica con regolarità i
preliminari prima del coito, il 74,2% fa sesso orale, il 58,2% la masturbazione reciproca, il 32,6% il sesso
anale, il 30,2% il sexting (lo scambio di messaggi espliciti e foto personali), il 26,4% utilizza sex toys
durante il rapporto, il 26,0% guarda video porno in coppia, il 22,1% utilizza cibi o bevande nei giochi erotici,
il 17,6% fantastica apertamente con il partner su altri amanti, il 14,3% si riprende con lo smartphone durante i rapporti. Una quota minoritaria (il 14,0%) si dedica a pratiche non convenzionali (feticismo, bondage, sadomasochismo), il 7,7% fa sesso con più partner contemporaneamente e partecipa a orge.
Il lungo autunno industriale (e l’antidoto del riarmo). L’indice della produzione industriale è stato
negativo per trentadue mesi consecutivi con l’eccezione di tre timidi rimbalzi. In particolare, la produzione manifatturiera è arretrata nel 2023 (-1,6%), nel 2024 (-4,3%) e anche nei primi nove mesi di
quest’anno (-1,2%). Il lungo autunno industriale scivolerà nel gelido inverno della deindustrializzazione? Tra i comparti in maggiore sofferenza, quali rischiano di scomparire per sempre? Nel 2024 solo
l’alimentare ha registrato un incremento della produzione: +1,9%. Il tessile e abbigliamento è calato
dell’11,8%, i mezzi di trasporto del 10,6%, la meccanica del 6,4%, la metallurgia del 4,7%, la farmaceutica dell’1,7%. Solo quattro comparti (elettronica, alimentare, farmaceutica, legno e carta) mostrano
segnali di recupero nel 2025. Contestualmente, nei primi nove mesi dell’anno la fabbricazione di armi
e munizioni registra un incremento del 31,0% rispetto all’anno scorso.
La divaricazione tra spesa e consumo. L’inflazione ha condizionato pesantemente i comportamenti di
consumo delle famiglie. Nel 2024 i prezzi erano più alti del 17,4% rispetto al 2019 e il carrello della spesa
(i beni alimentari e per la cura della casa e della persona) era più caro del 23,0%. Si è speso di più, ma
si è consumato di meno. Nei cinque anni il costo dei generi alimentari è aumentato del 22,2%, ma il
volume effettivamente acquistato si è ridotto del 2,7%. La forbice è ampia anche per vestiario e calzature:
+4,9% in valore e -3,5% in volume. I servizi assicurativi e finanziari sono aumentati del 47,3% in termini
nominali, ma l’utilizzo si è ridotto del 2,0%. I soli servizi finanziari (pari al 3,2% della spesa delle famiglie,
ovvero 40 miliardi di euro) hanno registrato un aumento del prezzo del 106,2% nel periodo 2019-2024.
La senilizzazione del mercato del lavoro. La demografia cambia volto all’occupazione. L’incremento di
833.000 occupati registrato nel biennio 2023-2024 è dovuto prevalentemente alle persone con 50 anni e
oltre: +704.000 (ovvero l’84,5% di tutta la nuova occupazione). Il saldo positivo nei primi dieci mesi del
2025 (206.000 occupati in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) dipende esclusivamente dai
più anziani, che aumentano di 410.000 unità (+4,2%), a fronte di -96.000 occupati di 35-49 anni (-1,1%)
e -109.000 con meno di 35 anni (-2,0%). Tra i giovani sono in netto aumento gli inattivi: +176.000 nei primi
dieci mesi dell’anno (+3,0%). Nel biennio 2023-2024 l’input di lavoro supera largamente la crescita
dell’economia: +3,7% gli occupati, +5,3% le ore lavorate, solo +1,7% il Pil. Conseguentemente, calano gli
indicatori di produttività: -2,0% il valore aggiunto per occupato e -3,5% il valore aggiunto per ora lavorata.
Rinunciare all’immigrazione? Sono più di 5,4 milioni gli stranieri che vivono in Italia (il 9,2% della popolazione residente), ma la gran parte si trova in condizioni di marginalità. Il 29,0% dei lavoratori stranieri
time involontario (tra gli italiani la quota corrispondente si ferma al 17,2%). Il 29,4% svolge un lavoro non
qualificato (l’8,0% tra gli italiani) e il 55,4% degli occupati stranieri laureati risulta sovraqualificato, ovvero
possiede un titolo di studio troppo elevato per il lavoro svolto (il 18,7% tra gli italiani). Il 35,6% degli stranieri
vive sotto la soglia della povertà assoluta (il 7,4% tra gli italiani). Siamo inclini a guardare con favore gli
stranieri quando svolgono lavori faticosi e poco qualificati, o quando accudiscono gli anziani e i bambini,
ma non siamo propensi a concedere loro gli stessi diritti di cittadinanza degli autoctoni. Il 63% degli italiani
pensa che i flussi in ingresso degli immigrati vadano limitati, il 59% è convinto che un quartiere si degrada
quando sono presenti tanti immigrati, il 54% percepisce gli stranieri come un pericolo per l’identità e la
cultura nazionali, solo il 37% consentirebbe l’accesso ai concorsi pubblici a chi non possiede la cittadinanza italiana e solo il 38% è favorevole a concedere agli stranieri il voto alle elezioni amministrative.
La nuova geografia della vitalità sociale nelle città-contenitore. A fronte di una riduzione della popolazione residente in Italia del 2,3% nel decennio 2014-2024 (quasi 1,4 milioni in meno), si ridisegna la
geografia della vitalità sociale. La popolazione aumenta nelle città intermedie del Nord-Est e nei comuni
limitrofi di alcune aree metropolitane. Nell’ultimo decennio i residenti sono aumentati soprattutto a Parma
(+4,9%), Prato (+3,8%), Latina (+3,7%), Mantova (+3,6%), Brescia (+3,5%). Due sono i driver che spingono la marcia in avanti: le opportunità di lavoro e la presenza di stranieri. Tra le aree metropolitane, 11
hanno visto ridursi i propri abitanti tra il 2014 e il 2024 (da un minimo del -1,6% di Firenze a un massimo
del -7,1% di Messina), Roma è stabile (+0,2%), Milano (+1,9%) e Bologna (+1,9%) sono cresciute.
Se l’offerta culturale diventa un dispositivo esperienziale. Nel 2024 la spesa per soggiorni culturali
e nelle città d’arte dei viaggiatori stranieri è aumentata del 7,1% rispetto al 2023, raggiungendo il 56,4%
del totale della spesa per vacanze sul territorio nazionale. Il fenomeno riguarda quasi 20 milioni di persone (+4,6% rispetto al 2023), pari al 55,9% dei 35 milioni di viaggiatori arrivati dall’estero. La tendenza
si consolida: nel primo semestre del 2025 la spesa dei turisti stranieri per vacanze in Italia segna un
+13,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, negli ultimi vent’anni (2004-2024) la
spesa per la cultura delle famiglie italiane si è invece drasticamente ridotta (-34,6%). Si tratta di poco
più di 12 miliardi di euro nell’ultimo anno, ovvero poco più di un terzo di quanto spendiamo nell’insieme
per smartphone e computer (quasi 14,5 miliardi nel 2024: +723,3% negli ultimi vent’anni) e servizi di
telefonia e traffico dati (17,5 miliardi). La riduzione dei consumi culturali dipende dalla forte contrazione
della spesa per giornali (-48,3% in vent’anni) e libri (-24,6%). Ma contemporaneamente gli altri consumi
di beni (+14,2%) e servizi culturali (+28,9%) non sono affatto diminuiti. Nell’ultimo anno il 45,5% degli
italiani è andato al cinema, il 24,7% ha assistito a eventi musicali, il 22,0% a spettacoli teatrali, il 10,8%
a concerti di musica classica e all’opera. Musei e mostre sono stati visitati dal 33,6% degli italiani, siti
archeologici e monumenti dal 30,9%. L’offerta culturale diventa sempre più un dispositivo esperienziale.
Manifestazioni e piazze virtuali: la partecipazione senza delega politica. Alle ultime elezioni politiche
del 2022 gli astenuti hanno raggiunto la quota record del 36,1% degli aventi diritto, 9 punti percentuali in
più rispetto alle precedenti elezioni del 2018. Alle europee del 2024 il 51,7% degli elettori ha disertato le
urne (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, gli astenuti si fermarono al 14,3%).
Nel 2003 il 57,1% degli italiani si informava regolarmente di politica, nel 2024 la percentuale è scesa al
48,2%. I cittadini che ascoltano dibattiti politici erano allora il 21,1% e sono oggi il 10,8%. La partecipazione ai comizi si è dimezzata: dal 5,7% al 2,5% (dal 6,3% all’1,9% tra i giovani di 20-24 anni). E le
mobilitazioni di piazza raccolgono sempre meno adesioni: nel 2003 il 6,8% degli italiani aveva partecipato
a cortei, vent’anni dopo il 3,3%. Un’eccezione, dunque, le recenti proteste per il conflitto in Palestina.
Gli immortali. L’Italia continua a invecchiare rapidamente. Le persone dai 65 anni in su rappresentano
il 24,7% della popolazione (14,6 milioni di persone): erano il 18,1% nel 2000 (10,3 milioni) e il 9,3% nel
1960 (4,6 milioni). L’aspettativa di vita è arrivata a 85,5 anni per le donne e 81,4 per gli uomini: circa 5
mesi in più solo nell’ultimo anno. E i centenari, 594 nel 1960, diventati 4.765 nel 2000, oggi sono
23.548. Nel 2045 le persone dai 65 anni in su saranno aumentate di quasi 4,5 milioni e raggiungeranno
i 19 milioni (il 34,1% della popolazione). Il desiderio di prolungare l’esistenza sfuggendo alle malattie
è la regola che accomuna la nuova generazione di anziani. Una tendenza a vivere come eterni adulti,
senza limitazioni legate all’avanzare dell’età. Con la consapevolezza di custodire e trasmettere in eredità risorse, non solo materiali, di cui le giovani generazioni non potranno godere in ugual misura.