(AGENPARL) - Roma, 14 Novembre 2025(AGENPARL) – Fri 14 November 2025 https://www.aduc.it/articolo/consumo+ostentativo+apparenza+status+scelte_40159.php
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Il consumo ostentativo: apparenza, status e scelte finanziarie
Il consumo ostentativo è quella curiosa abitudine umana per cui il valore delle cose non sta in ciò che fanno, ma in ciò che fanno vedere. È il gesto — antico e sempre attuale — di usare il portafoglio come megafono identitario: più spendi, più “sei”.
Nei tempi il meccanismo è sempre lo stesso: comprare non per vivere meglio, ma per sembrare migliori.
Origini storiche del consumo vistoso
Alla fine dell’Ottocento, l’economista americano Thorstein Veblen (1857 – 1929) si chiese perché i ricchi comprassero cose di cui non avevano bisogno. Risposta sintetica: perché niente dice “sono importante” come pagare troppo per qualcosa di inutile. Nel suo The Theory of the Leisure Class (1899), Veblen mostra un mondo dove il denaro non serve a vivere meglio, ma a far sapere agli altri che puoi permetterti di farlo.
Abiti esagerati, ville abbastanza grandi da perderci il commercialista, personale di servizio in numero tale da richiedere un organigramma: non sprechi, ma grammatica dello status. Il lusso funziona come un badge: non produce utilità (nel senso utilitaristico), produce riconoscimento.
Poi c’è l’emulazione: le classi medie inseguono gli status symbol dei più ricchi come se bastasse una borsa per cambiare classe sociale. Spoiler: no. Così nasce il paradosso di Veblen: più il prezzo sale, più il bene piace, purché serva a distinguersi. È il raro caso in cui l’inefficienza economica diventa efficienza segnaletica.
Negli anni ’70 Fred Hirsch distinguerà tra beni “materiali” (utili, scalabili) e beni “posizionali”: per definizione scarsi, costosi, fatti per dire “io sono qui, tu no”. Pierre Bourdieu aggiunge che anche i gusti culturali — libri, musica, vini, persino il modo di pronunciare “Pinot Noir” — sono marcatori di classe quanto l’auto in garage.
Oggi, la nuova élite “aspirazionale” (vedi Elizabeth Currid-Halkett) sfoggia meno oggetti e più virtù: sostenibilità, istruzione, benessere olistico. È sempre consumo, solo con un’aureola. Cambia il packaging, non la logica: consumiamo non solo per usare, ma per apparire — idealmente apparire migliori mentre facciamo finta di non star apparendo affatto.
Consumo ostentativo oggi: dai beni di lusso alle esperienze digitali
Il consumo vistoso ha cambiato pelle: ha solo cambiato outfit e ora ha un account social. Nell’era dell’economia esperienziale, la vetrina non è più la boutique in centro ma il feed: auto sportive, cene gourmet, vacanze con acqua color Photoshop. Non si compra solo l’oggetto, si compra la foto dell’oggetto — meglio se con tramonto. Il meccanismo è semplice: condivido ? ottengo attenzione ? sento che “valgo” ? ricompro. È la catena del valore, versione like economy.
Il turismo è diventato il caso di scuola. L’“effetto Instagram” spinge a pianificare viaggi tanto belli quanto postabili (non sempre la stessa cosa), e per alcuni anche a finanziarli a debito: weekend da sogno oggi, rata domani. In Italia, nei primi tre mesi del 2025 i prestiti personali per viaggi e vacanze risultano in forte crescita: il messaggio implicito sembra essere “sono stato alle Maldive (e il mio estratto conto può confermarlo)”.
Nel frattempo è esploso il filone “quiet luxury”: loghi nascosti, tagli impeccabili, materiali che sussurrano “caro” senza dirlo. Sembra anti-consumismo, ma è solo un linguaggio più elitario: capisce chi può permettersi di capire. Non è meno ostentazione: è ostentazione a banda ristretta.
Capitolo virtù. Anche la sostenibilità può diventare segnalazione di status: auto elettriche, gadget eco, bio a km zero. Nulla di male (anzi), purché ammettiamo l’altro motore che li spinge: oltre alla CO2, riduciamo anche l’ansia di non apparire “migliori”. La letteratura sul conspicuous conservation mostra che molti sono disposti a pagare un sovrapprezzo per beni “green” ben visibili—l’icona non a caso è stata per anni l’auto ibrida con design riconoscibilissimo. Salvi il pianeta, e intanto salvi anche il tuo posizionamento sociale.
I social fanno da amplificatore: un like qui, un cuore là, ed ecco che scatta la competizione silenziosa a chi ha la vita più interessante. Non è solo FOMO, è ROPO: Return On Perceived Opulence. Più i tuoi contatti postano resort e nuovi smartphone, più senti il dovere di non “restare indietro”—come se il feed fosse una classifica e tu stessi giocando in trasferta.
Status, autostima e decisioni di spesa: cosa dice la psicologia
Perché ci ostiniamo a spendere più di quanto possiamo permetterci pur di sembrare vincenti?
La risposta breve: perché il cervello umano non è nato per Instagram. Le radici del consumo ostentativo affondano nella psicologia del prestigio e dell’autostima. Possedere beni costosi o vivere esperienze da copertina produce una gratificazione immediata: mi vedono, quindi esisto. In un sondaggio statunitense, quasi quattro persone su dieci ammettono di spendere più del dovuto per impressionare gli altri. Tradotto: il 40% compra stima a rate. La motivazione più citata? “Sentirsi di successo”. È la nuova moneta emozionale.
I più giovani guidano la classifica: oltre la metà della Gen Z confessa di aver speso troppo per “apparire arrivata”. È l’effetto collaterale di una generazione cresciuta con l’idea che ogni momento di vita debba essere “condivisibile” — anche quando il conto non lo è.
Il meccanismo psicologico è noto: confronto sociale + FOMO = portafoglio leggero. Scrollando il feed, vediamo amici in vacanza, colleghi in ristoranti stellati e influencer che fanno sembrare normale ciò che non lo è affatto. La mente reagisce con un riflesso pavloviano: “Se loro possono, anch’io dovrei”. E via di click. Studi mostrano che oltre un terzo degli americani cambia le proprie scelte d’acquisto dopo aver visto i post altrui, e quasi la metà compra d’impulso cose che non può permettersi. Non è marketing, è neurochimica: dopamina a breve, rimpianto a lungo.
L’effetto è sempre lo stesso: comprare per compensare. Non colmiamo bisogni, ma vuoti d’autostima. L’analista Matt Schulz lo riassume così: “L’abito su misura o il biglietto in prima classe ti fanno sentire meglio… finché non arrivano il saldo e la rata”. Infatti il 77% di chi spende per impressionare finisce col pentirsene — il che fa pensare che non sia una grande strategia di benessere.
Sul lungo periodo, legare il proprio valore personale ai soldi o allo status è un perfetto esperimento di autoboicottaggio motivazionale. Le ricerche mostrano che chi misura se stesso in base al denaro vive con più ansia, più stress e meno senso di controllo. Paradossalmente, più inseguono ricchezza, meno si sentono padroni della propria vita. È la psicologia del tapis roulant: corri, ma resti fermo.
Quando l’autostima dipende dal conto corrente, basta una spesa imprevista per sentirsi falliti. Uno studio ha mostrato che chi lega il proprio valore al denaro reagisce alle difficoltà economiche con emozioni molto più negative — tristezza, rabbia, senso di vergogna. Da lì il circolo vizioso: nascondere i problemi per salvare la faccia, spendere per scacciare l’ansia, peggiorare i problemi.
Educazione finanziaria: riconoscere e correggere le derive dell’apparenza
Diventare consapevoli di questi meccanismi è il primo passo per smettere di fare beneficenza alle case di moda.
L’educazione finanziaria serve anche a questo: capire quando stiamo spendendo per piacere a noi stessi e quando solo per non dispiacere agli altri. Ecco qualche principio di sopravvivenza per chi vuole uscire dal circuito “spendo–posto–mi pento”.
1 – Chiedersi “Perché lo sto comprando?”
Prima di un acquisto costoso, fermiamoci un secondo (anche solo il tempo di un respiro, che a volte salva più del tasso d’interesse). Lo vogliamo davvero, o ci piace l’idea di come appariremo con quell’oggetto? Se la risposta suona come “farò un figurone”, probabilmente è il nostro ego a fare shopping, non noi. E l’ego, si sa, non paga le rate.
2 – Limitare i trigger d’invidia
I social sono il supermercato dell’apparenza: scaffali infiniti di vite migliori della nostra, quasi tutte finte.
Un consiglio finanziario molto pratico — e gratuito — è smettere di seguire chi ci fa venire voglia di spendere. Vale anche offline: ignorare i “benchmark umani” che ostentano tenori di vita insostenibili. Ricordiamoci che, spesso, l’erba del vicino è così verde perché è annaffiata a credito.
3 – Dare priorità alla propria sicurezza finanziaria
Un budget non è una punizione, è una forma di libertà.
Prima di “premiarci” con il lusso, conviene costruire basi solide: fondo d’emergenza, risparmi, investimenti. Il vero status symbol? Dormire tranquilli la notte.
Chi finanzia il proprio lifestyle a colpi di carte di credito confonde il benessere con il benestare. Come dice un banchiere con un certo senso dell’umorismo: “Il piacere di oggi è il debito di domani”.
4 – Coltivare valori non materiali
Il modo più elegante per uscire dalla trappola dell’apparenza è cambiare la definizione stessa di successo.
Investire in esperienze che abbiano valore per noi, non solo da mostrare.
Curare relazioni autentiche, formarsi, dedicarsi a passioni reali.
Quando l’autostima è ancorata a ciò che si è, non a ciò che si possiede, nessuna foto patinata potrà farci sentire in difetto.
Alla fine, lo status che conta davvero è la libertà finanziaria e mentale: non dover dimostrare nulla a nessuno, neanche a sé stessi.
Tendenze recenti e differenze culturali
Il consumo ostentativo non conosce crisi, si limita ad adattarsi al clima. In America, dove il motto non ufficiale resta “keeping up with the Joneses”, la pressione sociale è quasi sport nazionale: un americano su tre ammette di sentirsi obbligato a “tenere il passo” con amici e parenti più ricchi. Tradotto: la competizione non finisce al lavoro, continua nel parcheggio.
Risultato? Alti livelli di indebitamento personale e molti ex “vincenti” che, dopo la sbornia di shopping, ora tengono corsi di financial detox su YouTube. Segno che la redenzione finanziaria è il nuovo trend wellness.
In Europa il quadro è più sfumato. I paesi del Nord, coerenti con la loro sobrietà climatica ed estetica, tendono a disdegnare l’ostentazione troppo vistosa. Al Sud, invece, l’idea di status rimane più… coreografica. Dal Mediterraneo all’Est Europa, l’immagine pubblica ha ancora un peso importante: “dimmi cosa mostri e ti dirò chi pensi di essere”.
Con i social media, però, la distinzione geografica si assottiglia: Instagram e TikTok hanno globalizzato il desiderio di lusso, rendendo il consumo vistoso un linguaggio universale. Oggi anche chi vive in un monolocale può condividere contenuti da resort a cinque stelle (basta un piano rateale e un buon filtro). Le élite, per restare al passo, hanno dovuto reinventarsi: niente più loghi urlati, ma cultura, esclusività, sostenibilità e minimalismo chic. È sempre ostentazione — solo in versione “premium silenziosa”.
E poi c’è l’Italia, patria del “fare bella figura”, dove il confine tra eleganza e vanità è sottile quanto un’etichetta di Armani.
Il culto dell’apparenza ha radici storiche, ma la prudenza finanziaria tradizionale sta cedendo. L’aumento dei prestiti per vacanze e beni di lusso (+18% nel 2025) segnala che anche da noi l’immagine instagrammabile vale quanto un bilancio in ordine.
I giovani, soprattutto, sembrano vivere in un costante episodio di “La vita che vorrei, ma a credito”. Tuttavia, qualcosa si muove: cresce una controcultura della frugalità, del second-hand chic e della sobrietà intenzionale — la versione 3.0 del “non ho bisogno di dimostrarlo”.
In fondo, il consumo vistoso è cambiato forma ma non sostanza: da Veblen a TikTok, resta il modo più costoso di cercare approvazione.
La vera sfida è imparare a distinguere tra comprare per sé e comprare per scena.
Educare le nuove generazioni a leggere i meccanismi dell’apparenza significa insegnare che la vera libertà finanziaria non è poter spendere di più, ma poter scegliere di non farlo.
Perché, come la storia insegna (e i conti correnti confermano), vivere al di sopra dei propri mezzi per sembrare “arrivati” è la forma più cara di immobilità sociale.
La sobiretà, invece, non è rinuncia: è il lusso di non dover fingere.
Alessio Vannucci, consulente finanziario indipendente, collaboratore Aduc
COMUNICATO STAMPA DELL’ADUC
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