(AGENPARL) - Roma, 9 Novembre 2025«Oggi vogliamo esprimere il nostro pensiero con una metafora meravigliosa», scrive in una nota il Presidente di Meritocrazia Italia Walter Mauriello, «immediatamente ricondotta all’ambito sociale, quale legame invisibile che tiene insieme le persone, un filo che attraversa le storie individuali e le intreccia in un’unica trama collettiva.
È la “placenta sociale”, quel sistema di relazioni, valori, solidarietà e istituzioni che nutre i cittadini, li protegge e permette loro di crescere non solo come individui, ma come parte di una comunità viva.
Come il cordone ombelicale che unisce il bambino alla madre, la placenta sociale è ciò che ci fornisce ossigeno civico, fiducia, opportunità, speranza. È fatta di famiglie che si sostengono, di scuole che educano al pensiero libero, di associazioni che creano legami, di istituzioni che ascoltano e custodiscono la dignità di ciascuno.
Quando questa placenta funziona, la società respira, genera energia, produce futuro.
Ma quando si lacera, quando prevale l’indifferenza, quando i diritti si trasformano in privilegi e la solidarietà in calcolo, la comunità si ammala. I cittadini diventano isole, incapaci di riconoscersi parte di un tutto.
E allora cresce la solitudine, la rabbia, la sfiducia. Si smarrisce il senso del “noi”.
E qui cade mirabile il richiamo al tempo in cui viviamo, in cui la parola sicurezza è ventata una sorta di mantra collettivo. La si pronuncia per giustificare ogni scelta, ogni rinuncia, ogni nuova barriera invisibile che accettiamo senza accorgercene.
Sotto il vessillo della sicurezza, stiamo sacrificando, con apparente serenità, la nostra segretezza, la nostra privacy, e in fondo anche un pezzo della nostra libertà.
Ogni clic, ogni spostamento, ogni parola detta o non detta viene registrata, incasellata, misurata. Viviamo in una società che conosce i nostri desideri prima ancora che li formuliamo.
E a volte ci piace. Ci rassicura.
È il lato dolce del controllo: sapere che tutto è sotto osservazione ci fa sentire protetti, al sicuro da pericoli, da imprevisti, da noi stessi.
Ma lentamente, quasi senza respiro, stiamo perdendo l’essenza di ciò che ci rende umani.
Ci viene chiesto di cedere i nostri dati “per il nostro bene”.
Ci viene detto che “chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere”.
Eppure la storia ci insegna che ogni volta che l’uomo ha scelto di rinunciare alla propria privacy in cambio di sicurezza, ha ottenuto solo una sicurezza apparente, costruita su un terreno di conformismo e paura.
La vera sicurezza non nasce dal controllo, ma dalla fiducia reciproca, dal senso di comunità, dalla responsabilità condivisa. Perchè, in fin dei conti, non c’è sicurezza più grande di quella che nasce dal rispetto e dalla consapevolezza.
Viviamo in tempi complessi, in cui la vita quotidiana sembra scorrere fra tecnologie sempre più invasive, mercati che esigono adattamento costante, e un tempo sociale che accelera senza lasciare tregua. In questo scenario, la parola politica rischia di assomigliare a una formula astratta, lontana, persino “bugiarda”.
Eppure, la politica non dovrebbe fermarsi alla protezione. Essa dovrebbe innalzare, dare strumenti, opportunità, slancio. Non solo “non essere danneggiati”, ma “potersi realizzare”. In questo senso, l’idea del bene comune, che nei grandi pensatori come Aristotele e Tommaso D’Aquino era centrale, ci ricorda che lo scopo del governo non è solo amministrare, ma promuovere la qualità della vita, lo sviluppo umano, la comunità delle persone.
E quando la politica fallisce nella sua missione, le disuguaglianze crescono, le paure si amplificano, alzando barriere invisibili fra “chi ce la fa” e “chi resta indietro”.
Ed allora la vera politica, quando è degna di questo nome, non è qualcosa di distante da noi, “qualcosa che altri fanno”. È una missione condivisa. È la comunità che decide di prendersi cura dei suoi membri, oggi, domani, in tutte le condizioni. E questo richiede visione, coraggio, responsabilità.
E quando la politica tiene fede a questo compito, la società respira, i legami si rafforzano, la speranza non è mera illusione ma fermento vivo. Perché una società sana è quella che nutre i suoi cittadini, ma anche quella in cui i cittadini, a loro volta, nutrono la società. Ed in tal senso la placenta sociale non è da considerare come un privilegio che si riceve, ma come un organismo vivente che ciascuno di noi deve contribuire a mantenere in vita, con gesti di cura, partecipazione, e responsabilità quotidiana.
Abbiamo bisogno di riscoprire questa connessione vitale, di tornare a essere parte di un corpo unico in cui nessuno venga escluso o dimenticato.
Solo così potremo dire di appartenere davvero a una comunità capace di generare vita, speranza e futuro».
