
L’ingresso dell’intelligenza artificiale (IA) nelle aule di tribunale apre un dibattito acceso: può l’IA accelerare l’analisi delle prove senza compromettere i diritti fondamentali degli imputati?
Secondo il Prof. Dr. Mohammed Ranayava della Marshall University, medico e avvocato, l’IA ha rivoluzionato il lavoro forense, permettendo di analizzare in pochi minuti centinaia di pagine di documenti che prima richiedevano ore. Tuttavia, l’efficienza porta con sé rischi legati alla privacy e all’affidabilità dei dati, soprattutto in ambito sanitario, regolato da normative come HIPAA negli Stati Uniti e leggi europee sulla protezione dei dati.
Il Prof. Ali Kocak del John Jay College of Criminal Justice sottolinea che l’IA rimane uno strumento potente, ma non può sostituire un testimone esperto. Gli algoritmi spesso operano come “scatole nere”, incapaci di spiegare il loro ragionamento in modo trasparente, requisito fondamentale per la valutazione della credibilità in tribunale. Recenti casi giudiziari, come Commonwealth v. Weeden (2023) e State v. Lester (2025), mostrano come i dati generati dall’IA siano trattati come prove non testimoniali, ammissibili senza controinterrogatorio, ma non sostituiscono la testimonianza umana.
Ranayava e Kocak concordano sull’importanza della supervisione umana: esperti devono interpretare e validare i risultati dell’IA senza “scegliere a proprio piacimento” le prove, evitando rischi di manipolazione involontaria o bias algoritmico. Affinché l’IA possa svolgere un ruolo più significativo, è necessaria trasparenza tecnologica e riforma giuridica: i sistemi devono diventare spiegabili e i tribunali devono avere strumenti per testarne l’affidabilità, garantendo che la giustizia sia rafforzata e non compromessa.
L’intelligenza artificiale, conclude Kocak, non è più solo futuro: è già qui, e il suo impatto sulla giustizia dipenderà dalla capacità di bilanciare innovazione tecnologica, credibilità scientifica e tutela dei diritti fondamentali.