
Questo è il testo dell’omelia pronunciata da monsignor Santo Marcianò alla celebrazione per l’inizio del ministero pastorale nella Diocesi di Anagni-Alatri
Cattedrale di Anagni (FR), domenica 21.09.2025
Carissimi fratelli e sorelle,
«Questa è l’ora dell’amore!»
Lo esclamava Papa Leone XIV nella Messa di inizio del Ministero Petrino. Parole che desidero fare
mie, leggendovi una strada tracciata per la Chiesa universale e la nostra Chiesa particolare,
profondamente unita a Pietro: terra “dei Papi” che ha pure dato i natali a Leone XIII, del quale il
nostro Pontefice ha voluto prendere il nome. Segni belli, che sembrano illuminare delicatamente il
cammino che oggi iniziamo, unendosi alla Luce splendente della Parola di Dio, lampada per i nostri
passi (cfr Salmo 118).
«Questa è l’ora dell’amore!».
L’«ora» si riferisce al presente, necessariamente orientato verso il futuro, il nuovo che ci attende;
ma questa «ora», secondo il significato biblico, non è solo krònos ma kairòs, non è un semplice
momento ma tempo di grazia, pienezza del tempo. L’«amore», così, è novità da accogliere,
pienezza da perseguire, grazia da chiedere; ed è tutt’uno con la missione di essere, continua il Papa,
«una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato».
Sì, è proprio strada tracciata, dentro la quale vedo quasi delinearsi il filo conduttore del nostro
Programma Pastorale: una comunione, un’unità che ci chiama, anche nella complementarietà tra le
due Diocesi, e può essere seme di riconciliazione e pace pure per altri. Le Letture oggi ci aiutano a
decifrarla meglio, accostando l’amore ad alcuni significati e declinando alcune polarità.
La prima polarità è: amministratore – padrone.
Nel Vangelo (Lc 16,1-13) c’è un amministratore e c’è un padrone che gli affida una ricchezza a cui
essere fedele.
L’ora dell’amore è l’ora della fedeltà!
E la fedeltà è anzitutto fedeltà di Dio. C’è un padrone che ha l’iniziativa; è Qualcuno a cui tutto e
tutti appartengono, nell’amore e nella libertà. È Lui, il Signore, che oggi ci raduna e ci consegna
l’uno all’altro, in un’appartenenza reciproca. Noi ci apparteniamo perché, come nel Vangelo, il
Padrone si fida; affida al servo, a noi, il suo patrimonio.
«I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra
la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata», dice il Concilio. Sento con forza e
commozione questo affidamento. Sento la gratitudine e la grande responsabilità di avere affidato un
popolo, una terra bellissima, una storia ricca di cultura e arte – quanta bellezza e arte in questa
Cattedrale! -, ma che porta anche le fatiche e le sofferenze, le ingiustizie da sanare e la pace da
costruire, invocare, sognare… E questo affidamento, Dio lo fa non solo a me ma a tutta la nostra
comunità, a tutti i cristiani, soprattutto a voi, carissimi sacerdoti. Ma come rispondere a tale
affidamento?
Ecco la seconda polarità: sperperare – amministrare.
Il servo malvagio «sperpera» il patrimonio del padrone. Luca usa lo stesso verbo greco
(diaschorpìzein) parlando del figlio maggiore della parabola il quale, andato via da casa, aveva
«sperperato» (Lc 15,13) i beni lasciati dal padre. «Sperperare» è perdere il valore delle cose;
«rendere conto» è entrare nella logica della responsabilità, non solo di qualcosa ma verso qualcuno:
ecco l’amore.
L’ora dell’amore è l’ora della responsabilità!
Nell’attuale cultura consumistica, non si comprende come tutto sia dono da accogliere, custodire,
valorizzare; e si finisce per sperperare, dilapidare l’eredità donata dal Padre. Sperperare è
«calpestare il povero» «sterminare gli umili del paese», dice la prima Lettura (Am 8,4-7); invece di
questa «amministrazione», di questa “oichonomìa” – è il termine greco del Vangelo – bisogna
rendere conto!
L’ora dell’amore invoca responsabilità verso i poveri, gli ultimi, il creato; addita una concreta
economia di rispetto, condivisione, solidarietà. Nessuno può essere calpestato: non da economie
inique, talora favorite da scelte politiche o internazionali, né dall’iniquità di economie nascoste
dietro presunti diritti. Non si può accettare l’industria della morte che vìola la terra e sopprime gli
esseri umani – uomini donne, bambini… quanti bambini! – con armi o rifiuto, violenze o abusi; ma
neppure quella che elimina e abbandona vite deboli, malformate, non volute, malate, morenti.
Quanto sperpero di persone, quanto sperpero di umanità! Vorrei che le nostre comunità – quella
ecclesiale e quella civile – fossero coraggiose e unite nel dire “no”, dicendo un grande “sì”
all’umano, dunque a Dio.
E qui c’è un’altra polarità: Dio – la ricchezza.
Il Padrone è uno, «non possiamo servire a due padroni», afferma Gesù in modo molto chiaro.
L’ora dell’amore è l’ora della verità.
E «la verità stessa dell’essere-uomo» è «la prima delle sfide più grandi, di fronte alle quali l’umanità
oggi si trova», leggiamo nel Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa, un Documento fondativo
che desidererei con voi rileggere, meditare, applicare all’oggi. Ricordando a Carpineto Romano
Leone XIII, Benedetto XVI spiegava come «all’interno della realtà storica i cristiani, agendo come
singoli cittadini, o in forma associata, costituiscono una forza benefica e pacifica di cambiamento
profondo, favorendo lo sviluppo delle potenzialità interne alla realtà stessa. È questa – aggiungeva –
la forma di presenza e di azione nel mondo proposta dalla dottrina sociale della Chiesa, che punta
sempre alla maturazione delle coscienze quale condizione di valide e durature trasformazioni».
Oserei oggi chiamare a raccolta tutta la comunità: i laici, i catechisti con il loro prezioso apporto di
evangelizzazione per la nostra Chiesa; gli Organismi di Partecipazione che vanno potenziati e
valorizzati; le Associazioni, il mondo della cultura, dell’educazione, dell’arte, i responsabili della
cosa pubblica. E infine i giovani; voi, miei giovani, che saprete stupirci, come avete fatto nel
Giubileo, e sarete artefici del mondo che assieme sogniamo. La Chiesa – ancora il Compendio – propone un «umanesimo integrale e solidale… all’altezza del disegno di amore di Dio» . Un programma meraviglioso: vogliamo provare a svolgerlo assieme, comunità ecclesiale e civile?
È difficile ma la Parola di Dio ci offre un altro binomio: fedeli in cose di poco conto – fedeli in cose
importanti.
Basta iniziare dal poco, con umiltà verso Dio e i fratelli.
L’ora dell’amore è l’ora dell’umiltà!
Mi piace scorgerla nell’immagine eloquente del Salmo responsoriale (Sal 112 [113]): un Dio che
«si china» a «guardare e sollevare» i deboli. Chinarsi è servizio e condivisione della sofferenza,
Gesù ce lo ha insegnato portando per amore la Sua Croce e, nella Sua, le nostre. E noi vogliamo
continuare a farlo, con l’opera preziosa di tanti ministri della sofferenza umana. Potremmo tradurre
tale umiltà in una frase di Madre Teresa di Calcutta: «fare piccole cose con grande amore». E lei lo
faceva chinandosi sui più piccoli, i poveri, i bimbi non nati, i morenti abbandonati per strada; se uno
di costoro è riuscito – narrano le biografie della Santa – a percepire che “stava morendo da re dopo
aver vissuto tutta la vita da pezzente”, è perché questo chinarsi fa sentire al fratello la sua
grandezza, la sua dignità intangibile.
È l’ora di chinarsi umilmente sull’umana dignità, servendo e contemplando in ciascuno l’immagine
di Dio al quale tutti apparteniamo. Diceva qui ad Anagni Giovanni Paolo II: «Non rimane allora che
il riconoscimento della propria totale dipendenza dall’Altissimo: la vera saggezza è solo l’umiltà di
fronte a Dio, che di conseguenza diventa senso dell’adorazione, della confidenza nel suo amore,
della fiducia nella sua Provvidenza, anche quando i suoi disegni possono apparire oscuri e intricati»
Ed ecco l’ultima polarità: figli del mondo – figli della luce.
«Dio è luce» (1Gv 1,5) e la Luce è in noi – è bellissimo! – perché ne siamo figli. Quel Padrone, in
realtà, è un Padre! Per cogliere questa Luce, in un mondo ferito dal vuoto del padre – le scienze
umane e l’esperienza lo insegnano -, abbiamo bisogno di una forte relazione con Lui.
L’ora dell’amore è l’ora della preghiera!
Nella seconda lettura (1Tm 2,1-8), Paolo chiede di fare «preghiere, suppliche, ringraziamenti». Io lo
chiedo con fiducia a consacrati, contemplativi, monaci e a ogni cuore, perché la preghiera conosce e
intercetta tutti i linguaggi umani, dona voce a tanti stati d’animo; e nella preghiera di pochi ci sono
tutti, come nella preghiera di Gesù al Padre.
In questa Cattedrale, per provvidenziale disegno, 770 anni fa veniva canonizzata una grande madre
di preghiera, Chiara D’Assisi: chiederemo anche a lei di insegnarci a pregare, a crescere sempre più
nell’intimità con Dio.
Dio è Luce! Ma per vederla occorre andare nell’interiorità, direbbe Sant’Agostino, cercandoLa con
silenzio, tempo, desiderio. È Luce consegnata anche ai «figli di questo mondo», alle tenebre umane
che non l’accolgono ma non potranno vincerla (cfr. Gv 1,5). È Luce affidata alla nostra
contemplazione e a tutta la nostra Speranza.
Cari amici, nel Giubileo della Speranza, la Luce rifulge particolarmente nell’esperienza della
misericordia e del perdono. Il Papa lo sta ripetendo in tante catechesi e, se ci pensiamo bene, la
Parabola evangelica di oggi rivela che questo è il vero patrimonio che il Padrone lascia in eredità.
Forse non capiamo fino in fondo – e tra gli studiosi ci sono diverse interpretazioni – perché
quell’amministratore dovrebbe essere lodato per aver diminuito un debito che non era suo. Ma una
cosa è certa. Il Cuore di Dio, ricco di misericordia e perdono, è così: riduce il nostro debito, lo
cancella addirittura. E ci insegna a «non avere altro debito se non l’amore vicendevole», come dice
Paolo (Rm 13,8).
Lo ha capito bene Matteo, l’Apostolo che oggi ricordiamo. Dapprima era un “amministratore
disonesto”, poi incrocia lo sguardo di Gesù: un passaggio reso significativamente con una grande
Luce nel famoso dipinto del Caravaggio. I suoi occhi si aprono, si guarda dentro e cambia vita
seguendo il Signore. Questo Padrone non possiede, dona; non accumula, condivide; non tiene l’altro
sotto i piedi ma lo solleva, riconoscendo e restituendo dignità a tutti. Questo Padrone, in realtà, è il
nostro Padre. E pur se la sua è un’economia “in perdita”, Egli ci consegna un tale Programma di
vita affidandoci la vita di tutti, affidandoci gli uni agli altri. E noi, Sua Chiesa, lo accogliamo!
Fratelli, sorelle, è bello iniziare il cammino insieme, in modo sinodale, con questa consapevolezza,
illuminati dall’esempio dei nostri santi, Magno e Sisto, e dall’umiltà gioiosa di Maria, da cui sgorga
il canto del Magnificat. Con Lei e come Lei, Dio ci renda capaci vivere l’«amore» in ogni «ora»
della vita e trasformare ogni «ora» di vita in «amore». Lo ringrazio con voi e per voi e Gli chiedo di
benedire il nostro cammino.
«L’anima mia magnifica il Signore»! Magnifichiamolo insieme e per sempre!
E così sia!
Santo Marcianò
